Liberi dal dolore

LIBERI DAL DOLORE
Il Buddhismo: origini, dottrina, sviluppi, riti e preghiera

 

Chi vive l’esperienza religiosa si pone al centro dell’universo che chiamiamo “religione”. Se lo si ignora, in che modo ci si potrà accostare a una religione o a una cultura altra? Come si potrà riconoscere un filo comune o comunque un valore portatore di senso? Interpretare l’Oriente sovrapponendo semplicemente gli schemi culturali occidentali o cercando perfetti corrispettivi e paralleli con quanto si è soliti chiamare “religione”, “fede” e simili, preclude la possibilità stessa della conoscenza. E nella storia delle letture dell’Oriente, nel caso di specie, dell’Estremo Oriente, da parte dell’Occidente molto spesso l’incontro è stato mancato a vantaggio di una trasposizione anche nella sfera religiosa di atteggiamenti di etnocentrismo, più o meno consapevoli. Creare gerarchie di valori e intervenire con giudizi riduttivi in sistemi simbolici originati in un ambiente geograficamente e culturalmente distante dà luogo a esemplificazioni e fraintendimenti. È fecondo, al contrario, lasciar spazio al diversamente religioso, riconoscendolo come altro dotato di autonomia e veicolo di valori simbolici, per comprendere i quali egli stesso si offre come dizionario e grammatica di significato.

L’esperienza spirituale buddhista germoglia nel variegato panorama dell’India brāhmanica che trova nei Veda il proprio fondamento rivelativo, nel sacrificio la caratteristica religiosa e filosofica portante, nei sacerdoti, detti brāhmani, la casta più autorevole ed esclusiva. Di quest’antichissima esperienza religiosa l’iniziatore del buddhismo, il principe Siddhartha Gauthama, conosceva il linguaggio, la fisionomia, ne aveva respirato l’influsso. Aveva praticato alcune importanti forme di ascesi, che però non soddisfacevano completamente la sua sete di vita. La meditazione priva di un orientamento chiaro, di un obiettivo di fondo, è in grado di rispondere all’esigenza più profonda dell’uomo? La rigida separazione in caste e i privilegi appannaggio di quella sacerdotale facilitano o complicano la soluzione dei problemi che si agitano nell’animo umano? Il desiderio di liberazione così universale si può delegare alla pratica del sacrificio o all’intervento di una divinità? La ricerca di risposte più appaganti segna l’inizio di una storia nuova, sebbene radicata nell’universo simbolico indiano.

1. Storia di una ricerca esistenziale

Durante l’epoca definita “assiale” compresa fra il VI e il IV secolo a.C., in cui l’umanità è sembrata convogliare nell’approfondimento della sfera spirituale, il piccolo Siddhartha vide la luce su questa terra nelle condizioni migliori possibili: sua madre era una regina, suo padre, Suddhodhana, apparteneva alla casta dei brāhmani.

La sua nascita è circondata da leggende che accentuano la peculiarità della sua missione nel mondo. Indovini giunti da lontano riconobbero in lui il personaggio destinato a imprimere una svolta al corso dell’umanità e lo preannunziarono al padre. Questi, intimorito e fermamente deciso ad evitare al figlio una vita di travagli interiori e di rinunce, tentò in tutti i modi di allevarlo “semplicemente” come suo figlio e di avviarlo a una carriera degna del suo rango. Onde evitare che dentro di lui maturasse il “pericoloso” germoglio prospettato dai vati, s’impegnò per tenerlo al riparo da tutto quanto potesse sollecitare la sua sensibilità verso l’umanità, verso le domande di senso. A questo scopo incoraggiò ogni agio e fu custode di una dorata prigionia all’interno di palazzi sontuosi, nei quali il giovane prese moglie, generò un figlio e visse fino a ventinove anni all’incirca.

Già adulto fu la curiosità a spingerlo oltre le mura protettive di casa sua: accompagnato da un cocchiere su di un carro compie gradualmente il suo ingresso nella vita comune. Per le strade di Kapilavastu la vita gli rivela un volto nuovo, capace di suscitare ribrezzo e attrazione al tempo stesso. Per la strada affollata lo sguardo di Siddharta intercetta il viso raggrinzito di un vecchio ricurvo su se stesso quasi a comunicare col suo corpo il peso netto dei suoi anni. E poi s’imbatte in un appestato che urlava per il dolore.

La terza scena raccapricciante ritrae un corteo funebre che accompagna un cadavere all’incinerazione. Sul ciglio della strada non gli sfugge la presenza di un mendicante con in mano una ciotola: era un asceta che aspettava il proprio nutrimento dalla carità altrui: gli sguardi dei due s’incrociarono. In quella frazione di secondo il giovane principe percepì serenità e intuì una possibile soluzione all’enorme malessere sperimentato dal suo animo incontaminato. Nei Testi antichi così Siddhartha ripensa agli anni della sua giovinezza:

«Teneramente coccolato ero io, con delicatezza infinita si accostavano a me; crearono per me nella casa di mio padre stagni coperti l’uno di loto azzurro, di loto bianco l’altro e di loto rosso il terzo, e tutte le piante di loto a me davano fiori. Solo preziosi unguenti di Benares si usavano per me, e da Benares venivano i miei tre abiti; giorno e notte un ombrello stava aperto sopra di me per proteggermi da freddo, calore, polvere e rugiada. Tre palazzi erano per me residenza: uno per l’estate, uno per l’inverno e uno per la stagione delle piogge. Nel palazzo della stagione delle piogge passavo i quattro mesi delle piogge, circondato da donne esperte nella musica, e da lì non uscivo; e se altrove servitori e schiavi non avevano che un piatto di riso rosso e un po’ di zuppa di cui sostentarsi, nella casa di mio padre si dava loro non solo riso e minestra, ma anche della carne. Godevo sempre di tutte queste ricchezze, e vivevo circondato da queste cure amorose, quando nel mio cuore si insinuò con forza questo pensiero: in verità, l’uomo insensato che vive attaccato a questo mondo è soggetto alla vecchiaia, senza che alla vecchiaia possa sfuggire, prova fastidio, disgusto e avversione, quando di fronte a lui sta un altro uomo che alla vecchiaia è già arrivato; e alla vecchiaia anch’io sono soggetto, e non posso sfuggirvi. Ora, se io, che alla vecchiaia sono soggetto e non posso sfuggirvi, provassi fastidio, avversione e disgusto alla vista di un altro uomo per il quale la vecchiaia già è arrivata, tutto ciò non sarebbe giusto: e questo pensiero fece svanire in me tutto l’orgoglio della giovinezza. Eppure l’uomo insensato, attaccato a questo mondo, pur essendo egli stesso soggetto alla malattia, prova fastidio, avversione e disgusto quando vede un altro uomo che dalla malattia è colpito; e alla malattia anch’io sono soggetto e non posso sfuggirvi. Ora, se io, che alla malattia sono soggetto e non posso sfuggirvi, provassi fastidio, avversione e disgusto alla vista di un uomo in cui la malattia manifesta il suo volto, tutto ciò proprio non sarebbe giusto. E questo pensiero bastò a spegnere in me tutto l’orgoglio della mia salute. Eppure l’uomo insensato, attaccato a questo mondo, che vive sotto la minaccia incombente della morte, e alla morte non può sfuggire, prova fastidio, avversione e disgusto quando vede un altro uomo che giace ormai morto. E alla morte anch’io sono soggetto, e non posso sfuggirvi. E se io, che alla morte sono soggetto e non posso sfuggirvi, provassi fastidio, avversione e disgusto alla vista di un mio simile che giace ormai morto, tutto ciò non sarebbe certamente cosa giusta. E questo pensiero estinse in me tutto l’orgoglio dell’essere vivo».

Incontri del tutto ordinari manifestano a Siddhartha l’esistenza della vecchiaia, della malattia e della morte. Ed esse gli appaiono dotate di due fondamentali caratteristiche, capillarità e comunicazione. Sono capillari perché diffuse, non v’è essere umano che possa sentirsene immune. Sono comunicative perché in grado di parlare anche a distanza, sia quando affliggono un altro, sia quando rimangono incombenti sullo sfondo. Il forte impatto con la realtà sofferente scava il vuoto dentro il giovane principe, che si sente chiamato in causa nel trovare per essa una soluzione. Dove mancavano le parole, s’impose un lungo silenzio, carico di inquietudine. Una notte il bel principe lasciò il palazzo, svestì i panni del lusso preferendo dei cenci e rasò il capo, rinunciando alla chioma che identificava il suo rango.

Maestri yoga e shramana sono i primi presso i quali cerca un insegnamento. Seguirli gli serve a migliorare la capacità di concentrarsi per meditare, ad entrare in sintonia con il suo respiro, ma a nulla di più. In questi anni, già seguito dai suoi primi cinque discepoli, diventa noto come “Sakyamuni”, cioè “il silenzioso del clan degli Sakya”. Le pratiche estremamente rigide, che mette in atto, imitandoli, continuano a mantenerlo amaramente lontano dall’agognata soluzione. Raggiunge il fondo, quando, sopraffatto dagli stenti causati dalla privazione di cibo, si avvicina molto alla morte. Ripresosi grazie al suo fisico robusto si rende conto che, proseguendo in questa direzione, non sarebbe mai approdato a nulla.

Così riprende a mangiare, a lavarsi, sotto gli occhi stupidi e delusi dei cinque. E riparte da sé. Assorto in meditazione sotto la ficus religiosa, realizza il risveglio, meritando in tal modo l’appellativo di Buddha, il risvegliato. La calma e la serenità mantenute nonostante gli attacchi di Mara, interessato a lasciare nell’ignoranza gli esseri umani, incrementandone la sofferenza, non soltanto accolgono l’intuizione fondamentale in cui è racchiusa la soluzione, ma lo aprono all’esperienza del nirvana, la cessazione della sofferenza.

A questo punto il Buddha storico affronta un’altra scelta decisiva: godere del nirvana e rimanere in uno stato di calma imperturbabile oppure tornare a immergersi nella fragilità umana, perché la strada della liberazione potesse aprirsi anche agli altri esseri umani? Se Buddha Sakyamuni avesse optato per la prima ipotesi, il Buddhismo non esisterebbe.

 

 

  1. La messa in moto della ruota del dharma
    1. Le quattro nobili verità

Il cuore dell’insegnamento buddhista è esposto nel primo discorso di Buddha Sakyamuni successivamente al risveglio. In questo momento mette in moto la ruota del dharma nel parco delle gazzelle a Benares, pronunciando, secondo la tradizione, il primo discorso della nuova religione, detto in pāli Dhamma-cakka-pavattana-sutta.

Dharma, in sanscrito, o dhamma, in pāli, è una parola molto impiegata nel contesto indiano e dal significato molto ampio. Arriva a identificarsi completamente con l’insegnamento buddhista anche nella dizione di buddhadharma. Seguendo la sua radice sanscrita, si deduce che significa originariamente “fondamento”, ma sarebbe ingiusto chiudere in questo modo la sua definizione. dharma è origine, armonia e anche senso, è principio universale.

La ruota dagli otto raggi è simbolo molto caro al buddhismo, in senso lato richiama il continuo fluire e la legge naturale per cui ciò che nasce è soggetto a morire, in senso stretto è un rimando diretto all’ottuplice sentiero verso cui convergono le quattro nobili verità, soggetto dell’esposizione di Benares.

Nei secoli il buddhismo si è ampliato, articolato, ben coniugato con culture anche molto diverse tra loro, ma il nucleo originario è rimasto e tuttora rimane espresso nelle quattro nobili verità: da esse nessuna scuola o spiritualità o insegnamento buddhista prescinde. Si snodano seguendo l’ordine della medicina indiana antica: la prima è focalizzata sulla diagnosi della malattia, la seconda si occupa delle sua cause, quindi, dell’eziologia, la terza contiene la possibilità di cura e la prognosi, la quarta coincide con la terapia.

  • Prima nobile verità: dukkha, il dolore

L’insegnamento orientato al nirvana è definito anche “sentiero di mezzo”, perché è attento a evitare da un lato il godimento sfrenato dei piaceri, dall’altro la mortificazione di se stessi.

La constatazione fondamentale, da cui tutto il resto deriva, gira intorno a dukkha, termine in lingua pāli, tradotto per lo più con dolore, anche se veicola una capacità più ampia di questa traduzione, fino a includere la sensazione dell’insoddisfazione. Tutto è dolore, la nascita, la morte, la vecchiaia, la malattia, il dover stare vicino a chi non si ama e distante da chi si ama, il non ottenere quello che si desidera.

Gli aggregati di “io” sono dolore. L’intuizione principale del discorso e della prima verità è l’impermanenza, tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine.

Dukkha è una realtà universale, trasversale, è la condizione che accomuna tutti gli esseri viventi. Le ricchezze, l’intelligenza, gli affetti, la fede religiosa non concedono l’immunità totale dal dolore. È un linguaggio comune e capace di accomunare: l’esperienza del dolore fa conoscere il sentimento della compassione. La prima nobile verità è la constatazione fondamentale utile a far riflettere, non si propone come un’asserzione, né come speculazione metafisica, né si riveste di una valenza assoluta. Rappresenta la prima indispensabile presa di coscienza di una condizione legata all’esistenza, ne offre una lettura in vista del suo superamento. Anche la semplice percezione dell’insoddisfazione può essere letta come luce che filtra nel buio per indicare la via d’uscita. La formulazione della prima nobile verità, “questa è la nobile verità del dolore”, è di per sé importante, perché indica dukkha come problema oggettivo, scoraggiando una identificazione illusoria fra “sé”, che non esiste come nucleo permanente, e il dolore. Negare dukkha o affrontarlo con sterili lamenti, recriminando, magari identificando, in sé o in altri, nel presente o nel passato, capri espiatori, sono altrettanti modi per non comprendere realmente la sofferenza, precludendosi in questo modo la possibilità di liberarsene. Finché prevale l’identificazione totale fra “sé” e una situazione data, che può essere di dolore come di gioia, di piacere, si continua ad alimentare l’illusione che niente cambierà, si andrà incontro ad altro dolore, fatto di frustrazione, di delusione personale o ingenerata in chi è vicino, ecc.

La prima nobile verità invita a riflettere su ciò che suscita dolore con consapevolezza, sapendo distinguere il dolore che si provoca autonomamente in seguito a comportamenti illusori. È sopportare il dolore per capirlo e investigare tutte le reazioni suscitate da situazioni spiacevoli. Superate le tentazioni di rimanere ancorati al dolore, nei mille modi in cui ciò può accadere, il primo passo per percorrere il sentiero della liberazione consiste nella presa di coscienza.

  • Seconda nobile verità: dukkhasamudaya, l’origine del dolore

Il secondo passaggio si occupa di chiarire le cause del dolore, che sono individuate nell’attaccamento al desiderio, che, a sua volta, assume tre volti principali, il desiderio per il piacere dei sensi, il desiderio di essere, il desiderio di non essere. Per penetrare in questa sottile eziologia del dolore bisogna evitare facili fraintendimenti. Questa seconda nobile verità non è un rifugio dal piacere, né una sua demonizzazione. Seguendo la direzione delle considerazioni sul dolore, ammonisce circa l’illusione che la situazione del provare piacere può indurre, e cioè l’autoinganno che quella condizione perduri nel tempo. Quindi, aggredisce il male alla radice, e cioè nell’attaccamento, che può riguardare con maggiore evidenza quanto di piacevole deriva al corpo, ma anche per quanto concerne l’affezione a un’idea, a un desiderio di divenire. Proiettarsi eccessivamente verso un’idea, qualunque essa sia, potrebbe facilmente perdere di vista il presente, e non per questo realizzarsi. Quale frustrazione ne scaturirebbe? Un desiderio di annullamento, di non essere, anch’esso frutto dell’attaccamento iniziale. Anche il desiderio di santità, il più nobile di per sé, se partisse da tali presupposto coinciderebbe con l’attaccamento a un’idea e produrrebbe solo altro dolore. Finché non si matura una corretta visione del dolore e si riconosce nell’attaccamento il seme principale di sofferenza, si resta nell’ignoranza e si continua a peggiorare nel male, piuttosto che ad attivarsi per guarire. Quando non si sente più il bisogno di intervenire con giudizi, o si prova un senso di oppressione e si anela fortemente a ‘sbarazzarsi’ di un problema, non si insegue più un desiderio, ma semplicemente lo si riconosce per quello che è e non gli si attribuisce troppa importanza. La conoscenza intuitiva, che scaturisce da questo atteggiamento nuovo, può far esclamare: il desiderio è stato abbandonato.

  • Terza nobile verità: dukkhanirodha, la cessazione del dolore

L’intuizione fondamentale delle quattro nobili verità è che tutto ciò che ha un inizio ha una fine. Con la seconda nobile verità si è imparato a riconoscere la radice dei mali, si è consentito che questi affiorassero alla coscienza con chiarezza, senza inseguirli affannosamente, senza averne terrore, si è imparato a considerarli per quello che sono. La profondità della mente raggiunta attraverso la contemplazione e la meditazione ora lascia che ciò che la attraversa sia quello che è e che come è iniziato così pure finisca. Questa è la cessazione del dolore, sostanzialmente diversa dall’annullamento provocato da un ‘desiderio di non essere’. La cessazione si palesa come fine naturale di qualunque fenomeno. Sgorga da un non-attaccamento, non dall’attaccamento che genera il dolore. Nell’esercizio continuo di lasciar cessare il dolore sono di aiuto i cosiddetti tre gioielli o tre rifugi: guardando all’esempio di Buddha, contemplare il dharma (cioè quel principio universale per cui le cose sono come sono), condividerne l’esperienza ricevendo sostegno e conforto da sangha, cioè dalla comunità di coloro che praticano il bene e si astengono dal male. In questa lucidità interiore si guadagna la pace indispensabile a praticare attivamente il sentiero della liberazione dal male spiegato subito dopo.

 

  • Quarta nobile verità: dukkhanirodhagāminī patipadā, il sentiero verso la cessazione del dolore

Le nobili verità approdano a una pratica, vera e propria terapia continua per guarire alla liberazione dal male sintetizzata compiutamente nel nobile ottuplice sentiero, simbolizzato dalla ruota a otto raggi. La sua pratica propone di mettere in atto saggezza, etica e concentrazione. Ognuna di queste si articola ulteriormente fino a raggiungere gli otto grandi vasi atti a tenere in vita il cuore dell’insegnamento che palpita per la conquista del nirvana, altro modo per dire la cessazione del dolore.

La saggezza è un presupposto necessario a tutto il resto, per quanto gli otto sentieri si richiamino e si completino costantemente a vicenda. Si specifica in una retta comprensione e una retta aspirazione. Le otto pratiche sono tutte qualificate dall’aggettivo “retto”, da intendere nel senso di “perfetto”, “pienamente corretto” in ordine all’obiettivo finale la liberazione dal dolore. Riguardo alla comprensione, non si tratta di una conoscenza meramente intellettiva, ma che ha accolto l’intuizione delle prime tre nobili verità e non si applica direttamente col giudizio o imponendo un punto di vista, si è superata l’identificazione con un ideale o con un sentimento, si intuisce la condizione dell’impermanenza e si affronta tutto per quello che è, a un livello più profondo di quello raggiungibile dal solo intelletto. La prima indicazione dell’ottuplice sentiero stabilisce il dovere per l’essere umano di maturare una corretta visione di qualsivoglia situazione, ridimensionandosi costantemente. In presenza della retta comprensione tutto è dharma su cui riflettere, da contemplare, rimanendo aperti al mondo così com’è.

La parola “aspirazione” in italiano è simile a “desiderio”, nel secondo punto del sentiero di liberazione non sussiste, invece, il rischio di questa possibile confusione. Rappresenta il principio più dinamico dell’intera proposta, definisce l’oltre, verso cui ogni essere umano tende e che, anche nelle condizioni di vita migliori possibile, fa sperimentare la tensione verso un valore puro non pienamente realizzato su questa terra. La stessa esigenza di porsi domande di senso attesta la presenza di una retta aspirazione, che, a differenza del desiderio, non porta alla disperazione, ma a una vera e propria ascesi. Il valore puro, l’immortalità, la verità, la giustizia, la bellezza e altri, è sinceramente cercato da un animo innocente, libero da passioni e sovrastrutture egotiche che sbilancerebbero, invece, verso il desiderio, l’attaccamento e, quindi, verso il dolore.

I tre passaggi successivi riguardano specificamente il comportamento, l’etica: retta parola, retta azione, retti mezzi di sostentamento. È di immediata comprensione il danno che è in grado di mettere in atto un modo poco responsabile di parlare, si pensi alle conseguenze di bugie, pettegolezzi, insulti, bestemmie, ecc. Parlare con faciloneria causa anche molto male: la sapienza biblica tradottasi ormai in adagio popolare afferma che “ne uccide più la lingua che la spada” (Sir 28,18)! Talvolta si parla esagerando nei toni e nei contenuti, perché se ne acquisisce l’abitudine. Il monito alla retta parola induce a restituire alle parole il peso della responsabilità, pensando alle conseguenze che possono produrre.

La retta azione incoraggia ad agire per il bene e, ancora una volta, ad assumerne la responsabilità. Si potrebbe agire in modo caritatevole ma animati dal desiderio di venire riconosciuti, ricambiati, ricompensati. La retta azione consegue alla saggezza che comprende e agisce in ordine a un valore puro, pena la ricaduta nell’attaccamento a un desiderio di essere, e, quindi, altro dolore. Il retto agire è esercitato con una continua disciplina, che nel buddhismo, a linee generali, si assesta per i laici su cinque regole basilari, non uccidere e non ferire, astenersi da attività sessuali illecite, non mentire, non rubare, astenersi da sostanze intossicanti e inebrianti. I precetti non esauriscono il retto agire, che, in sintonia con le altre sette articolazioni del sentiero, deve concretizzarsi attivamente per il bene e l’atteggiamento da esercitare costantemente e attivamente è la compassione: una profonda consapevolezza del dolore e una chiara coscienza della possibilità della liberazione si traduce inevitabilmente in solidarietà universale, almeno controbilanciando l’analoga universalità della sofferenza. La parola agire, inoltre, non può ignorare lo stretto legame con il concetto di karma. Nel pensiero buddhista karma non è soltanto l’azione e la sua diretta conseguenza, si compone di impulsi, magari invisibili ma esistenti e positivi e negativi, di condizionamenti subiti da parte di un ambiente più ristretto e più ampio. Karma è ciò che si subisce e ciò che si esercita verso gli altri e verso l’ambiente in positivo o in negativo. Quindi, la disciplina buddhista non si può limitare a un solipsismo, non può non tener conto di questo sfondo così ampio di intenzioni, azioni, effetti assunti e rilasciati. L’altro e gli altri interessano molto al buddhismo.

L’esortazione a vivere grazie a retti mezzi di sostentamento comunica la necessità che il buddhadharma si palesi anche attraverso un’etica del lavoro, un rapporto equilibrato con l’ambiente in senso e antropologico e fisico. Non si può garantire la sopravvivenza contraddicendo i principi della saggezza e del retto agire. Non solo non è lecito, ma provoca male e dolore guadagnare, danneggiando altri, magari spacciando sostanze stupefacenti o giustificando la logica della corruzione. Si potrebbe ampliare il discorso, però, anche a casi più sottili da valutare, specie per ciò che riguarda la giusta relazione con la natura, con il mondo animale.

La saggezza e la regolare ispirazione all’etica devono poter raggiungere almeno il minimo risultato di non arrecare danno. Assicurato questo fine, dovrebbero agevolare la diffusione del bene.

Il terzo blocco dell’ottuplice sentiero si concentra sull’equilibrio delle emozioni. Quale beatitudine potrebbe trascurare il cuore? Retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione mirano al raggiungimento di una piena presenza della mente a se stessa e a favorire lo slancio alla liberazione. Nel grande discorso sui fondamenti della presenza mentale, Buddha Sakyamuni ritorna sugli otto sentieri e, a proposito del retto sforzo, afferma:

E cos’è, o monaci, il retto sforzo?… acciocché non prendano vita stati mentali non salutari e dannosi non ancora sorti… quegli stati mentali… che sono ormai sorti, egli sviluppa la volontà, si sforza, alimenta l’energia, applica la mente e si impegna. Per stabilizzare quegli stati mentali meritori che sono sorti, per allontanare da essi la confusione, per farli aumentare, maturare, potenziare e perfezionare, egli sviluppa la volontà, si sforza, alimenta l’energia, applica la mente e si impegna. Questo, o monaci, è chiamato il retto sforzo.

Descrive una lotta spirituale, in cui la volontà di bene si allena costantemente a contrastare il male, che si annida all’interno della mente stessa, sotto forma di desiderio, progetti nocivi per sé e per altri, pregiudizi, ecc. L’acutezza del discorso prende in esame non soltanto “gli stati mentale e salutari sorti”, ma anche quelli “non ancora sorti”, elaborando una prevenzione, mettendo in campo una forza di pari intensità, ma di segno opposto, “gli stati mentali meritori” da stabilizzare e consolidare. Quest’ascesi nutrita di volontà orientata correttamente e di impegno nel raggiungere il fine della liberazione è il retto sforzo.

La retta consapevolezza, detta anche retta presenza mentale o retta attenzione, è in diretto riferimento alla contemplazione “del corpo nel corpo… della sensazione nella sensazione… della mente nella mente, dell’oggetto mentale negli oggetti mentali…”. È la qualità di meditare su ogni aggregato di io come guardandolo dall’esterno, un essere in sé, mentre si è anche al di fuori. Questa calma e questa attitudine sono praticate e potenziate attraverso la meditazione, sorta di pazienza del contadino che lavora il campo, lo semina, lo irriga, perché a suo tempo possa produrre un frutto buono.

La retta concentrazione, detta anche retta coscienza, è il naturale compimento del sentiero e specialmente della sua ultima parte. La condizione di calma e di beatitudine esercitata con impegno diventa con la retta concentrazione uno stato duraturo, i pensieri negativi inclini all’attaccamento sono lasciati andare, quelli positivi sono coltivati. La terapia raggiunge lo status di abito.

 

    1. Il discorso della freccia

La liberazione dal dolore si configura come itinerario che richiede tempo, impegno, costanza, ma che è anche accessibile a tutti. Non è generato da una rivelazione, né da un’illuminazione improvvisa, nessuna folgorazione schiude miracolosamente all’ottuplice sentiero. L’individuo è luogo di salvezza, di una salvezza che prepara giorno dopo giorno. Può essere supportato da un maestro, ma nessuno può sostituirsi a lui. Le pratiche consigliate, prima fra tutte la meditazione, predispongono alla retta conoscenza o visione, ma, al contempo, derivano da queste, in un processo circolare di esperienze e di ruoli, in cui il maestro è anche discepolo e il discepolo maestro, dove dalla conoscenza si parte per migliorare nella meditazione, e attraverso la meditazione si raggiunge una visione più completa e scevra dal legame all’attaccamento egotico. Nell’insegnamento buddhista convivono spunti e contenuti molto densi di filosofia della mente, ma il buddhismo non nasce proprio come speculazione metafisica, anzi è attento a non perdere mai di vista lo scopo finale, anche attraverso una sorta di caratteristico pragmatismo. Pensiamo al Piccolo discorso di Mālunkyāputta. Il monaco Mālunkyāputta, meditando solitario, era tormentato da alcuni dubbi riguardo ad importanti questioni metafisiche, se “il mondo è eterno o non è eterno… ha fine o è senza fine”, se “la vita e il corpo sono la stessa cosa o due cose diverse”, se “il Tathāgata esiste o non esiste dopo la morte”, e, infine, adirato, conclude tra sé: “Se il Beato vorrà spiegarmi…, allora io condurrò vita religiosa; ma se non vorrà spiegarmi queste cose, rinuncerò all’ascesi e tornerò nel mondo“.

È un discorso molto noto e utile a esporre chiaramente la posizione del buddhismo delle origini rispetto alle questioni metafisiche.

Buddha Shakyamuni, in sintesi, risponde così: “… forse ti ho detto mai: <… vieni presso di me e ti spiegherò se il mondo è eterno o non è eterno…?> … In verità, Mālunkyāputta, se qualcuno mi dicesse: <Io non condurrò vita religiosa presso il Beato fino a quando egli non mi avrà spiegato se il mondo è eterno o non è eterno, … il Tathāgata non avrebbe terminato di spiegare tutto ciò, che quest’uomo avrebbe già finito il suo tempo”.

E, subito dopo, il Beato entra nel cuore delle motivazioni del discorso e della sua impostazione, e cioè spiega con un esempio semplice quanto efficace, perché la sua predicazione taccia volutamente sulle questioni prettamente speculative:

 

«O Malunkyaputta, se un uomo fosse colpito da una freccia avvelenata, abbondantemente cosparsa di veleno, e i suoi amici e compagni, parenti e congiunti chiamassero un medico chirurgo ed egli, tuttavia, dicesse: ‘ Non voglio farmi estrarre questa freccia fino a quando non saprò chi mi ha colpito, … qual è il suo nome, qual è la sua gente, … se alto, basso o di media statura, … se nero, bruno o di pelle dorata, … di che mercato, villaggio o città egli sia… fino a quando non saprò quale arco mi ha colpito, se quello piccolo o quello grande, … quale corda mi ha colpito, se di erba seta, di canna, di tendine, di canapa o di fibre vegetali …, fino a quando non saprò quale saetta mi ha colpito, se di canna o di giunco … munita di che penne, di avvoltoio, di airone, di corvo, di pavone o di beccaccia … guarnita di che cuoio, di bue, di bufalo, di cervo o di scimmia, … fino a quando non saprò quale punta mi ha colpito, se dritta, uncinata, attorcigliata, a dente di vitello o a foglia di oleandro ‘; certamente quest’uomo, o Malunkyaputta, non riuscirebbe a sapere tutto ciò, prima di aver già finito il suo tempo. In modo del tutto analogo, o Malunkyaputta, se qualcuno dicesse: ‘ Non condurrò vita religiosa presso il Beato fino a quando egli non mi avrà spiegato se il mondo è eterno o non è eterno, se ha fine o non ha fine, se il Tathagata esiste o non esiste dopo la morte, se esiste e non esiste dopo la morte o se né esiste né non esiste dopo la morte ‘, il Tathagata, o Malunkyaputta, non avrebbe terminato di spiegare tutto ciò, che quest’uomo avrebbe già finito il suo tempo. … Perciò o Malunkyaputta, ciò che da me non è stato spiegato, tenetelo come non spiegato; e ciò che è stato spiegato da me tenetelo come spiegato. Ma che cosa, o Malunkyaputta, non ho spiegato? Che il mondo è eterno, ciò, o Malunkyaputta, non ho spiegato; che il mondo non è eterno, ciò non ho spiegato; che il mondo ha fine, ciò non ho spiegato; che il mondo non ha fine, ciò non ho spiegato; che la vita e corpo sono la stessa cosa, ciò non ho spiegato; che la vita e corpo sono due cose diverse, ciò non ho spiegato; che il Tathagata esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathagata non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathagata esiste e non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathagata né esiste né non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato. E perché, o Malunkyaputta, non ho spiegato tutto questo? Perché, Malunkyaputta, ciò non è salutare, non appartiene ai fondamenti della vita religiosa, non conduce al sereno disincanto, al distacco, alla cessazione, alla pace, alla conoscenza, al risveglio, al nibbana: per tale motivo non ho spiegato tutto ciò. E che cosa, o Malunkyaputta, ho spiegato? ” Questo è il dolore “, o Malunkyaputta, ciò ho spiegato; ” questa è l’origine del dolore “, ciò ho spiegato; ” questa è la cessazione del dolore “, ciò ho spiegato; ” questa è la via che porta alla cessazione del dolore “, ciò ho spiegato. E perché, o Malunkyaputta, l’ho spiegato? Perché ciò, o Malunkyaputta, è salutare, appartiene ai fondamenti della vita religiosa, conduce al sereno disincanto, al distacco, alla cessazione, alla pace, alla conoscenza, al risveglio, al nibbana: per tale motivo lo spiegato».

 

Che cos’è, dunque, il buddhismo? La proposta di un sentiero di liberazione dal dolore. Come tale si offre nella sua pura essenzialità. Il fatto che non affronti, affermando o negando, le grandi questioni metafisiche lo priva della possibilità di definirsi ‘religione’? Alcuni pregiudizi gravano spesso sul buddhismo, riducendolo ingiustamente a una ‘filosofia’ o addirittura equiparandolo a un’espressione di nichilismo. Anche le poche parole esposte fin qui dimostrerebbero il carattere profondamente spirituale e specificamente religioso di questo insegnamento, che non nega il divino né si concentra sulla sua ‘definizione’ per una scelta precisa, indicare il sentiero di liberazione dal dolore, come è ben spiegato nella metafora della freccia. Certamente volendo identificare la ‘religione’ con la dipendenza o la sottomissione al divino, bisognerebbe concludere che il buddhismo non potrebbe rientrare nella categoria, perché non se ne occupa. La complessa storia degli studi di scienze religiose variamente applicati alla ‘religione’ come a un soggetto particolarissimo dimostra come essa nelle culture e nelle regioni più distanti tra loro manifesti un variegato e sfumato ventaglio di tonalità. In questo senso risulta particolarmente illuminante il semplice quanto efficace modello elaborato dallo storico delle religioni Ninian Smart (1927-2001). Rimase particolarmente affascinato dall’opera di Rudolf Otto e dal suo concetto di “Sacro” e lo percepì come un’apertura verso un senso più ampio di ‘religione’, osservando il giusto rispetto per l’‘esperienza’ dell’homo religiosus e per l’afflato mistico. Secondo lo studioso scozzese ogni religione, sia teistica sia non-teistica, manifesta sette fondamentali ambiti: dottrina, mito, etica, riti, esperienza, istituzioni e, infine, materia. Confrontato con questi precisi riferimenti, lo spessore religioso buddhista risalta con chiarezza.

 

    1. Il paragone della zattera

Fedele al monito fondamentale del non attaccamento, l’insegnamento buddhista percepisce se stesso con umiltà. Come si è accennato, anche nelle intenzioni apparentemente più nobili può celarsi una vanità, che, in ultima analisi, conduce all’accrescimento del dolore. L’insegnamento è utile quando serve l’obiettivo ultimo, la liberazione dal dolore, non il suo contrario! Conseguentemente a questa logica, Buddha Sakyamuni spiega che anche l’insegnamento è destinato a traghettare dalla sponda dell’ignoranza e del dolore alla sua cessazione, cioè al nirvana. Così è giustificata la felice e nota metafora della zattera:

«… vi mostrerò come l’insegnamento sia simile a una zattera, la quale è stata costruita allo scopo di traghettare e non di essere afferrata. … E il Beato così disse:”O monaci, immaginate un uomo che durante un viaggio si trovi davanti a una grande distesa d’acqua, la cui riva vicina è pericolosa e suscita paura, mentre la riva lontana appare sicura e non desta timore, ma non c’è né un traghetto né un ponte per passare al di là. L’uomo potrebbe pensare ‘ C’è questa distesa d’acqua, la cui riva vicina è pericolosa…e non c’è né un traghetto né un ponte. Allora, raccoglierò erba e piccolo rami, rami più grandi e foglie, e legherò tutto insieme costruendo una zattera. Dopo di che, trasportato dalla zattera e aiutandomi con le mani e con i piedi, arriverò sano e salvo dall’altra parte, sulla riva lontana ‘. … Giunto sull’altra riva l’uomo potrebbe pensare ‘ Questa zattera mi è stata molto utile … Se ora me la mettessi sulla testa oppure la portassi sulle spalle e andassi dove mi pare? ‘. … “in qual modo l’uomo adopererebbe giustamente la zattera? Giunto dall’altra parte egli potrebbe pensare ‘Questa zattera mi è stata molto utile … Se ora la lasciassi in secco o in acqua e andassi dove mi pare? ‘. … agendo così egli farebbe ciò che è giusto fare con la zattera.

… l’insegnamento è simile a una zattera, la quale è costruita allo scopo di traghettare e non di mantenercisi attaccati. Quando capite che l’insegnamento è simile a una zattera, si tratta di abbandonare l’attaccamento agli stati positivi della mente e, tanto più, a quelli negativi».

La metafora, anch’essa tenuta in grande considerazione da tutte le scuole buddhiste come le precedenti, è di immediata comprensione, a una prima lettura. Sembra quasi scontato che la zattera, giunti a destinazione, si debba abbandonare. Oltre la metafora, però, le interpretazioni possibili sono diverse: l’insegnamento scompare, nel senso che viene compiutamente interiorizzato. Allora il passare da una sponda all’altra può essere un movimento continuo, man mano che l’insegnamento diventa vita. La lettura, però, dipende molto da che cosa si scorga nelle ‘due sponde’: la condizione di chi è preda della disperazione e la liberazione, ma può schiudersi anche a letture sconfinanti il tempo e lo spazio, per sfociare direttamente nella beatitudine del nirvana, e, in tal caso, ciò avviene nella vita o oltre, entrambe le visioni sono possibili, sia nel qui e ora che nel superamento del ciclo delle rinascite. Certamente non era nelle intenzioni di Sakyamuni una struttura complessa, gerarchica dell’insegnamento, proposto come ‘strada’ da percorrere per restituire l’essere umano a un livello più autentico di esistenza.

 

  1. Gli sviluppi
    1. Il buddhismo dopo Buddha, il 1° concilio

Hynayana e Mahayana, letteralmente “piccolo veicolo” e “grande veicolo” sono conosciuti come i più antichi orientamenti, ognuno dei quali successivamente e variamente articolato, all’indomani dell’ingresso di Buddha Sakyamuni nel nirvana. Coerente con lo stile prescelto fino a quel momento, egli non designò successori, ma affidò a chi lo aveva seguito il suo insegnamento.

L’eredità spirituale richiedeva pertanto di codificare i discorsi del Beato. Fu così che all’incirca fra il 483 e il 479 a.C. tutti coloro che avevano seguito Sakyamuni e avevano ascoltato le sue parole si ritrovarono a Rajagrha per un concilio. Questo evento ha consentito al patrimonio buddhista la trasmissione ed è significativo che non vi siano particolari variazioni nelle tradizioni di scuole diverse.

Le divergenze, invece, riguardanti gli stili di vita furono risolte secondo il criterio dell’inclusione ed è legittimo supporre che questo orientamento sia stato consentito dall’assenza di un’autorità centrale.

Quanti rimasero più legati alle origini, quando la dottrina s’identificava soprattutto come sforzo ascetico riservato a chi compisse una scelta radicale, quella della vita monastica, furono detti theravada. Hynayana fu un termine spregiativo associato dall’esterno e relativo a questo gruppo di buddhisti, che concepiscono la via di liberazione come una strada da percorrere in solitario. Sono stati additati come “piccolo” veicolo, perché ritenuti insufficienti a garantire la liberazione per molti, a causa di un atteggiamento di fondo letto come forma di chiusura, ma che, in verità, esprime un certo ideale di salvezza.

Lo arhat o santo, il bodhicitta o spirito del risveglio sono i modelli antropologici di questo buddhismo legato alle preoccupazioni delle origini e rivolto ai monaci.

Con questa ispirazione conviveva e tuttora convive l’ampia corrente mahayana, quella che, giudicando riduttivo identificare l’adesione al buddhadharma con i monasteri, propone una versione laica, intende la salvezza come un sentiero da percorrere insieme e lungo il quale per sperimentare autenticamente la liberazione dal dolore, bisogna immergersi nella compassione e progredire aiutandosi gli uni gli altri. Ed ecco che secondo questa corrente, il modello antropologico di riferimento è il bodhisattva o essenza del risveglio. Tale ‘essenza’ è riconoscibile nella corrispondenza che il soggetto in questione manifesta tra sé e ogni altra forma di vita nell’universo. Si è coinvolti nel guadagnare la liberazione, se ci si adopera attivamente a favore della liberazione altrui. Il bodhisattva è persino disposto a rimanere nel samsara, se la sua esistenza può essere di aiuto affinché qualcun altro sia facilitato nel proseguire nell’ottuplice sentiero.

Non sarebbe corretto comunque intendere i due veicoli, ognuno dei quali al proprio interno si specifica ulteriormente, come privi di continuità o peggio come separati da una sorta di scisma. Entrambi concorrono con stili diversi a comporre il cosiddetto ekayāna, o veicolo unico, che conduce alla liberazione dal dolore.

 

    1. I testi

Al primo concilio è attribuita tradizionalmente l’inizio della definizione del canone buddhista e la sua struttura in tripitaka ossia tre canestri, contenenti i sutra-pitaka o canestro dei discorsi di Buddha, i vinaya-pitaka o canestro delle leggi (della vita monastica), l’abhidhammapitaka o canestro che riguarda il dharma. Il tripitaka è detto anche ‘canone pāli’ e raggruppa i testi più antichi del buddhismo.

La raccolta e la scelta dei testi ha comportato un lavoro lungo, complesso e collettivo. La prima lunghissima fase rimase mnemonica, i testi furono messi per iscritto quattro secoli circa dopo la morte di Sakyamuni, nel I secolo a.C., e seguirono le vicende dell’espansione buddhista. È così che si sono avute in altre lingue le versioni del canone buddhista, originariamente in pāli, in sanscrito, in cinese, in tibetano. Parte del canone cinese e di quello tibetano contengono almeno in parte la traduzione di un canone sanscrito, andato poi perduto per la maggior parte. Le raccolte successive di discorsi, sanscrite, di stampo mahayanico, la cui composizione si protrasse per secoli, si accompagnarono a un nuovo processo di sacralizzazione del testo, a cui si riconosceva sempre di più la funzione di guida lungo il sentiero della liberazione, man mano che la fase della memorizzazione lasciava spazio alla codificazione della dottrina. In tal modo i testi diventano oggetto di grande rispetto e, per il valore stesso che assumono nella vita della comunità, attraversano uno sviluppo di qualificazione sacra. Possono essere omaggiati con fiori, incenso, lampade, ecc. .

 

  1. I riti

Credenze, preghiere, cerimonie occupano nel buddhismo un posto marginale. Inoltre il buddhismo ha mostrato una straordinaria creatività nell’adattamento alle culture dei paesi in cui si è diffuso e le feste cambiano anche in ragione di ciò.

La pratica rituale principe di ogni tipo di buddhismo è la meditazione, che appartiene inequivocabilmente all’esperienza del Buddha storico, che raggiunse il risveglio proprio rimanendo assorto nella posizione del loto. I nomi, i modi, gli interessi specifici delle scuole di meditazione variano enormemente fra loro, sono, però, tutte accomunate da uno slancio ascetico volto alla trasformazione. Fin dalle origini si presenta come impegno arduo e prolungato nel tempo, collegato a chiare scelte di vita. La pace spesso ricercata da molti che intraprendono queste tecniche non giunge dal distacco assoluto né in modo indolore. Richiede un coraggioso percorso interiore pronto a fissare lo sguardo sul dolore, a non risparmiare uno spirito critico nei confronti del proprio stato mentale.

Riguardo, poi, alle feste in senso stretto, la ricorrenza osservata da tutti i buddhisti è Vesak o Giorno di Buddha, in cui si commemora la nascita, il risveglio e il passaggio nel nirvana del Buddha storico.

In genere sono giorni di pratica più intensa tutti i giorni di plenilunio e lo stesso calendario è lunare. Altra festa importante è il capodanno, durante il quale ha luogo la “Festa dell’acqua”, simbolo di purezza.

Vi sono poi dei luoghi cari alla memoria buddhista, divenuti meta di pellegrinaggio: il luogo di nascita del Buddha storico, dove si narra che abbia raggiunto il risveglio, dove pronunciò il suo primo discorso e dove la sua vicenda terrena si è conclusa. Ai quattro luoghi corrispondo altrettanti simboli: il loto, l’albero della bodhi, la ruota del dharma, lo stūpa.

 

  1. La preghiera

Il buddhismo non desidera qualificarsi come niente più che un sentiero di liberazione dal dolore possibile per tutti coloro che lo vogliano. L’intuizione fondamentale, drammatica, quanto illuminante, è che tutto è sottoposto a un perpetuo fluire: quando se ne maturi la chiara consapevolezza, tutto diventa dharma, in tutto è evidente quel principio universale che regge l’universo. Vi sono inevitabilmente anche nel buddhismo scuole, strutture, rituali, luoghi di culto, norme di vita, ma la dimensione imprescindibile per raggiungere il risveglio è la concentrazione, talvolta ricercata attraverso un mantra, ma soprattutto il silenzio, il silenzio riverente osservato in tutti i momenti più intensi. In questi frangenti tutto continua a scorrere, vecchi pensieri cessano, dei nuovi nascono, consentendo gradualmente alla coscienza di squarciare il velo dell’illusione artatamente disteso da costruzioni mentali ingannevoli, per cogliere la leggerezza dell’essere e la pace beata e compassionevole come conquista.

 

 


Cf. G. Van der Leeuw, Phanomenologie der Religion, Tübingen 1933 [tr. it. Fenomenologia della Religione, Torino 1992].

Cf. A.N. Terrin, L’Oriente e noi. Orientalismo e postmoderno, Brescia 2007, 7.

K. Jaspers, Origine e senso della storia, a cura di A. Guadagnin, Milano 1965, 20 [Vom Ursprung und Ziel des Geschichte, Zurigo-München 1949]. Il filosofo tedesco, tra l’altro, scrive: «In questo periodo si concentrano i fatti più straordinari. In Cina vissero Confucio e Lǎozǐ, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mòzǐ, Zhuāng Zǐ, Lìe Yǔkòu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upaniṣad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibilità filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica […]. In Iran Zarathustra propagò l’eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti […]. La Grecia vide Omero, i filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidide e Archimede. Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi contemporaneamente in Cina, in India e nell’Occidente, senza che alcuna di queste regioni sapesse delle altre. La novità di quest’epoca è che in tutti e tre i mondi l’uomo prende coscienza dell’ “Essere” nella sua interezza, di se stesso e dei suoi limiti […]. Pone domande radicali. Di fronte all’abisso anela alla liberazione e alla redenzione. Comprendendo coscientemente i suoi limiti si propone gli obiettivi più alti. Incontra l’assolutezza nella profondità dell’essere-se-stesso e nella chiarezza della trascendenza. Ciò si svolse nella riflessione. La coscienza divenne ancora una volta consapevole di se stessa, il pensiero prese il pensiero ad oggetto».

Una ricca e complessa tradizione di studi si è applicata nella definizione delle date di nascita e di morte di Siddhartha approdando a date distanti anche cento anni. Studiosi indiani (pensiamo a Sarvepalli Radhakrishnan) e occidentali ne circoscrivono la nascita fra il 567 e il 560 a.C. e la morte fra il 487 e il 480.

Numerose leggende circondano in lungo e in largo la sua figura, tanto da rendere arduo il più delle volte distinguerle dalla storia, anche per via di una caratteristica tutta indiana che non demarca un confine netto fra le due. Le leggende sulla vita di Siddhartha sono anche note come vulgata.

Sul racconto dei quattro famosi incontri cf. Digha Nikaya, XIV, 2 sez. 1 133.

Anguttara Nikaya 1, 125.

Yoga è un termine tipico della spiritualità indiana fin dai Veda antichi. Indica l’ “unirsi a”, anche con l’idea di accettare un “giogo”. Da qui deriva il suo scopo di organizzare tecniche meditative, di controllo del respiro, per raggiungere l’unità in sé e con l’universo. Al suo interno comprende una serie di indirizzi diversi.

Shramana significa “sforzo” e indica degli asceti che, nell’India antica, compivano esercizio ascetico a scopo religioso ma in modo autonomo, al di fuori dei sentieri della tradizione.

Detto anche albero della bodhi, cioè del risveglio.

Samyutta Nikāya, 56.11.

Il discorso è stato messo per iscritto in un’epoca di gran lunga successiva, nel I sec. a.C., e assume un grande valore per la memoria storica e la ricostruzione a posteriori dell’identità della comunità. Cf. M.Y. Marassi, Il Buddismo Mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture, Genova 2006, 93-96.

Letteralmente discorso (sutta) della messa in moto (pavatana) della ruota (cakka) del dharma .

Cf. M. Piantelli, Il buddhismo indiano, in G. Filoramo (cur.), Buddhismo, Roma-Bari 2001, 27.

Nel discorso di Benares Buddha Shakyamuni espone una concezione dell’uomo, inteso come insieme di cinque fondamentali aggregati o skandha. Il primo comprende la sfera del corpo, il secondo la sfera emotiva, il terzo la sfera intellettiva, il quarto tutto quanto interviene nella volontà, il quinto il mondo della coscienza, della mente, della memoria.

Nirvana nella dizione sanscrita, nibbana in pāli.

Karma in sanscrito, kamma in pāli, vuol dire letteralmente “azione”.

Mahāsatipatthānasuttanta in Dīgha Nikāya, 22. Si tratta di uno dei testi più importanti del canone pāli. Per la sua traduzione italiana vd. Buddhismo. Testi antichi dal canone pāli, a cura di R. Gnoli, Milano 2004, 97-116.

Ivi.

Cūlamālunkyasutta in Majjhima Nikāya 63.

È uno degli appellativi associati al Buddha storico e successivamente a chi ha condotto il percorso di liberazione. Letteralmente significa “Colui che è così”.

Per la traduzione in italiano cf. Buddhismo. Testi antichi dal canone pāli, 75-78.

La prima redazione è contenuta nella sua opera The Religious Experience of Mankind, Englewood Cliffs, Prentice Hall (New Jersey) 1969. All’epoca lo schema individuava soltanto le succitate prime sei dimensioni, la settima fu aggiunta da Smart alla fine degli anni novanta.

R. Otto, Das Heilige, Göttingen 1917 [tr.it. Il sacro, Milano 2009].

Cf. D. Keown, Buddhismo, Torino 1999, 8 [Buddhism. A very short introduction, Oxford 1996].

In Alagaddūpamasutta in Majjhima Nikāya 22. Per la traduzione in italiano cf. Buddhismo. Testi antichi dal canone pāli, 81-82.

Cf. Marassi, op. cit., 57-65.

‘Rinascita’ è termine più proprio di ‘reincarnazione’, che, nella lettura occidentale induce il facile quanto fallace equivoco che il buddhismo affermi l’esistenza oltre la morte di un principio individuale permanente, mentre soggetti alla rinascita sono gli aggregati che compongono l’individuo empirico e ognuno di essi nel samsara (letteralmente, “perpetuo vagare”) è soggetto al perpetuo fluire. Cf. R.N. Prats, Le religioni del Tibet, in Buddhismo, 174.

L’esempio della zattera è parso tanto appropriato alla natura dell’insegnamento buddhista, da entrare nel nome di due grandi orientamenti conosciuti dal buddhismo.

Significa dottrina degli anziani. Tuttora manifesta una propria vitalità in molti paesi orientali.

Cf. Marassi, op. cit., 124-125.

Cf. M. Raveri, Buddhismo, in Manuale di Storia delle Religioni, Roma-Bari 2004, 352.

Cf. L. Meazza, Le filosofie buddiste, Roma 1998, 41-43.

Nel 2005 l’U.B.I. (Unione Buddhisti Italiani) ha scelto Napoli come città in cui festeggiare Vesak a livello nazionale. Le foto dell’evento sono pubblicate all’indirizzo http://www.vesak.it/Vesak05/vesak05_img.htm. È l’unica festa buddhista riconosciuta dallo Stato Italiano, art. 23, in base alla bozza d’intesa stipulata nel 1999, che attende ancora la ratifica dal Parlamento.

Letteralmente vuol dire crocchia. Inizialmente un cumulo di terra o sassi, poi fu più simile a un contenitore, talvolta simile a un tempietto, con la funzione di reliquiario. Sulle criticità del culto degli stūpa si veda M. Raveri, op. cit., p. 344.

È l’insieme di due parole sanscrite, significa letteralmente “difendere la mente” da tutto ciò che può confonderla, distoglierla, ‘chiuderla’, ecc. L’abitudine di ricorrere a un mantra è più antica del buddhismo in India. A fungere da mantra può essere un suono, come il noto Om (sillaba sanscrita sacra pronunciata all’inizio e alla fine della lettura dei Veda, è considerato un suono primordiale), una frase più articolata, talvolta assegnata al discepolo dal maestro. La ripetizione del mantra si può accompagnare al gesto di sgranare il mala (lett. ghirlanda), catena di grani (108 piccoli e uno grande) all’apparenza simile a un rosario, che ha lo scopo di contare i mantra. Può servire da mantra anche un’immagine di Buddha o un disegno astratto e simbolico come la mandala (lett. centro).

Si pensi alla suggestiva metafora della schiuma trascinata dalla corrente del fiume a cui sono paragonati tutti i fenomeni umanamente esperibili, cf. Phena Sutta in Samyutta Nikaya XXII, 95.

 

 

 

 

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