JACQUES DUPUIS E IL PLURALISMO RELIGIOSO —-SECONDA PARTE

SECONDA PARTE

Il NT E LE NAZIONI Gesù e i pagani // La missione storica di Gesù si è rivolta principalmente ed esclusivamente ad Israele. Egli è stato mandato “alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 15,24). Quando ha inviato i Dodici in missione, egli ordina loro di non andare fra i pagani, di non entrare nelle città dei Samaritani, ma di rivolgersi soprattutto “alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,5-6). Nonostante ciò, Gesù ha ammirato la fede del centurione: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande” (Mt 8,10). In tale occasione Gesù che molti, provenienti dall’oriente e dall’occidente, saranno ammessi al Regno dei cieli (Mt 8,11-12). L’ingresso degli ‘altri’ nel Regno non solo escatologico, ma si realizza già nella storia, come attesta la parabola del banchetto (Mt 22,1-14). “1 Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: 2 «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. 3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. 4 Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. 5 Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6 altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7 Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; 9 andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, 12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti»” (Lc 14,15 24).I l Vangelo di Marco fa pronunciare al centurione, ai piedi della croce, una formidabile professione di fede: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). Nell’escursione nella regione siro-fenicia, Gesù è venuto a contatto con persone non appartenenti al popolo eletto. Egli è sbalordito dalla fede dei pagani ed opera per loro miracoli di guarigione che gli richiedono. Gesù guarisce la figlia indemoniata di una donna cananea e si meraviglia per la fede di questa donna: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri” (Mt 15,28). Dupuis puntualizza che i miracoli che Gesù ha operato per gli stranieri, hanno lo stesso significato degli altri suoi miracoli. Essi significano che il Regno di Dio è presente, operante (Mt 11,4-6//). I miracoli di guarigione ed esorcismo a favore degli stranieri sono il segno che il Regno di Dio è operante, poiché ad esso vi accedono tutti coloro che hanno la fede e si convertono (Mc 1,15). Facendo ritorno dalla Giudea, probabilmente dopo aver celebrato la Pasqua a Gerusalemme, Gesù attraversa la Samarìa ed arriva alla città chiamata Sicar (Gv 4,1-6). Gv parla di Gesù che discorre con una donna, episodio che suscita lo stupore dei discepoli, poiché “I giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani” (Gv 4,9). I Samaritani, infatti, erano considerati stranieri, semipagani. Gesù, invece, si stupisce della disponibilità alla fede della donna samaritana, della sua sete di ‘acqua viva’ (Gv 4,7-15). Il culto samaritano sul monte Garizim, contrapposto a quello di Gerusalemme, non viene rigettato da Gesù, ed annuncia alla donna che “è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre (…)”, poiché è giunto il momento in cui “i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,20-23). Il culto, sia giudaico che straniero, viene superato dall’adorazione spirituale. Gesù, nella sua parabola, contrappone – non a caso – l’atteggiamento del buon samaritano a quello del sacerdote e del levita (Lc 10,29-37). “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto” (Lc 10,30). Il sacerdote e il levita passarono oltre, mentre il samaritano ebbe compassione di lui, si prese cura di lui (Lc 10,33-35). Il vangelo si sofferma sui dettagli per evidenziare cosa ha implicato il prendersi cura dell’uomo ferito. La parabola conclude che è stato il samaritano a farsi prossimo dell’uomo incappato nei briganti (Lc 10,36). Gesù lo popone come modello ai giudei: “Và e anche tu fa lo stesso” (Lc 10,37). Per Gesù, la fede salvifica è operante anche nei pagani e negli stranieri, che fin d’ora possono appartenere al Regno di Dio, la cui chiamata si estende oltre i confini del popolo eletto. Tutto ciò sembra in contraddizione con il fatto che Gesù manda i suoi discepoli alle pecore perdute d’Israele. Secondo Jeremias, la chiamata d’Israele e l’incorporazione dei pani nel Regno, sono eventi successivi all’interno dell’unica storia salvifica. Gesù, avendo guarito il figlio del centurione, annuncia che nella fase escatologica del Regno di Dio ci sarà l’ingresso dei pagani, come manifestazione dell’amore gratuito di Dio, della sua azione libera. “Il ‘Regno escatologico’ – rimarca il gesuita belga – che si spalanca ai gentili non va però inteso come se fosse rinviato alla fine dei tempi. Annunciato da Gesù all’inizio della sua predicazione (Mc 1,15), iniziata la sua irruzione nel corso del ministero pubblico (Lc 4,21; Mt 12,28), esso è stabilito da Dio sulla terra nella morte e resurrezione di Gesù (cf Lc 22,16), per essere annunciato dalla chiesa (Mc 16,15…) fino a che non consegua la sua pienezza (Mt 6,10…). Il Regno di Dio cui hanno accesso le nazioni è allo stesso tempo storico ed escatologico”[1].

La chiesa apostolica e le nazioni// Dopo la resurrezione la chiesa ha annunciato che con Gesù è giunto il Regno di Dio (Mc 16,15). La chiesa apostolica, però, solo gradualmente è arrivata alla consapevolezza dell’universalità della propria missione. Dopo la predicazione ai giudei, la buona notizia del Regno, progressivamente, si è diffusa nel mondo giudeo-ellenistico e poi ai greci. Paolo, Barnaba e la chiesa di Antiochia hanno avuto un ruolo determinate nella diffusione del vangelo al di fuori del territorio di Israele. Il NT attesta l’atteggiamento complesso, ambivalente della chiesa apostolica nei confronti dei pagani. Il primo passo venne compiuto da Pietro, quando predicò alla famiglia del centurione Cornelio a Cesarea (At 10,1-44). Luca nota che mentre annunciava la buona notizia, “lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso” (At 10,44). Nel fatto che lo Spirito venisse effuso anche sui pagani (At 10,45) dopo l’annuncio kerygmatico, Pietro ha colto il segno della loro chiamata al Regno di Dio, che anche i gentili possono essere accetti a Dio: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35). L’apertura ai pagani con Paolo si consolida, ma i dati del NT sono complessi. In Rm 1-3 Paolo esprime il suo pessimismo nei confronti dei pagani. L’ira di Dio ricadrà sui pagani, poiché non hanno riconosciuto la sua rivelazione permanente attraverso il cosmo (Rm 1,18-32). Gli ebrei, però, incorrono nella medesima condanna, nonostante i doni particolari che hanno ricevuto (Rm 2-3). La situazione dei gentili e degli ebrei è in effetti parallela, nonostante la diversità dei doni ricevuti, poiché tutti saranno giudicati in base alle loro opere; non ci sono privilegi. “Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo la legge, sono legge a se stessi: essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori (…)” (Rm 2,14-15). I cristiani, secondo Paolo, godono di una posizione privilegiata. La fede abolisce per decreto divino il valore di tutte le religioni (Rm 6,6). Coloro che partecipano in Cristo agli ultimi tempi (2Cor 5,17) si trovano in una situazione privilegiata, che annulla sia la condizione delle nazioni che quella d’Israele. Quella di Paolo però non è una negazione assoluta [cf discorso su Israele]. La predicazione di Paolo a Listra (At 14,8-18) e poi davanti all’Areopago di Atene (At 17,22-31) testimonia un atteggiamento di apertura verso le genti, verso la loro religiosità. A Listra Paolo percepì che l’uomo paralizzato che lo ascoltava “aveva fede di essere risanato” e lo guarì (At 14,8-11). Parlando della religione dei greci, ormai soppiantata dalla fede in Cristo, Paolo osserva: “nelle generazioni passate, [Dio] ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dare prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori” (At 14,16-17). Questo insegnamento corrisponde alla rivelazione di Dio attraverso il cosmo di cui si parla in Rm 1,18-32, alla manifestazione di Dio attraverso la natura, che è già rivelazione divina.

Paolo, nel suo discorso ad Atene (At 17,22-31) loda lo spirito religioso dei greci e annuncia loro il Dio ignoto che essi adorano senza conoscere [si discute della paternità paolina o lucana del discorso]. Il messaggio del discorso è che le religioni delle nazioni che sono prive di un loro valore e trovano in Cristo il loro compimento, sono una preparazione positiva alla fede cristiana. “Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (At 17,22-23). Paolo parla agli ateniesi dell’unico Dio che ha fatto il mondo e ogni cosa in esso contenuta, “dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa”; inoltre “creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni” (At 17,25-27). Questo discorso di Paolo si ricollega con Rm 1 in cui egli parla dell’autorivelazione di Dio a tutti i popoli attraverso il cosmo e per mezzo della quale potevano riconoscerlo. In questo discorso, però, sottolinea anche un altro aspetto, cioè la vicinanza di Dio ad ogni popolo: “Egli infatti non è lontano da ciascuno di noi” (At 17,27). A riprova della sua affermazione, Paolo cita un’espressione del poeta greco Epimenide (VI sec a.C.): “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”. Paolo cita anche il poeta greco Arato (III sec a.C.) che aveva scritto: “ Poiché di lui stirpe noi siamo” (At 17,28). Paolo ricorre ad un espediente retorico e si appella anche alla buona volontà, ed in questo modo riconosce nella tradizione greca (platonica e stoica) una genuina ricerca di Dio. Il dialogo con gli ateniesi, però, s’interrompe bruscamente quando Paolo parla della resurrezione di Gesù (At 17,32). L’approccio di Paolo non è stato un fallimento totale, poiché Luca aggiunge: “alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell’Areopago, una donna di nome Damaris e altri con loro” At 17,34). Dupuis cita Legrand, il quale rifacendosi a At 17 e Rm 1, evidenzia due prospettive, assi, quello della continuità e della discontinuità. L’asse della discontinuità sottolinea la novità radicale di Cristo e della sua resurrezione a cui si contrappone il mondo antico immerso nell’oscurità e schiavo del peccato. L’asse della continuità, invece, evidenzia l’omogeneità della salvezza che si dispiega secondo il disegno di Dio. La religione dei gentili, il mondo greco, secondo At 17, attende il Dio ignoto ed è predisposto ad incontrarlo (cf 72s).

Il teologo belga afferma che bisogna fare un altro passo per quanto riguarda la religione dei gentili nel NT. Occorre sviluppare un discorso più ampio partendo da tutta la storia della salvezza, privilegiando il prologo di Gv. Qui emerge che tutta la storia della salvezza, a partire dalla creazione, è realizzata da Dio per mezzo del Logos. Questa storia è ordinata fin dall’inizio (Gv 1,1) all’incarnazione del Verbo nell’umanità (Gv 1,14). Già da molto prima dell’incarnazione il Verbo era presente nel mondo come fonte di vita (Gv 1,4), come “la luce vera che illumina ogni uomo, venendo nel mondo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui” (Gv 1,9). Si tratta certamente della presenza attiva del Logos non ancora incarnato in tutta la storia dell’umanità. Secondo Giovanni, l’incarnazione del Verbo costituisce il culmine della manifestazione di Dio attraverso il Logos che abbraccia tutta la storia dell’umanità: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). La teologia giovannea del Logos divino si ricollega alla Parola di Dio e alla Sapienza divina dell’AT; come già rilevato, rappresentano l’automanifestazione di Dio, con azioni e parole, nella storia dell’umanità. Gv vede in Gesù il culmine della manifestazione universale di Dio per mezzo del Logos. C’è però una novità: con la sua incarnazione il Logos è rivelato come una persona distinta da Dio, ma che “in principio” (Gv 1,1) era partecipe con lui della vita divina. E’ entrato poi nella storia umana, nella pienezza dei tempi, assumendo una autentica condizione umana. Dupuis conclude che non “vi può essere il benché minimo dubbio che la teologia ‘Logos-Sapienza’ di Giovanni, incorporando al proprio interno l’automanifestazione universale di Dio nel corso della storia, favorisca la più ampia prospettiva neotestamentaria sull’universale coinvolgimento di Dio nelle vicende dell’umanità. E’ questo coinvolgimento universale e continuativo di Dio nella storia umana che rende possibile un approccio positivo alle religioni del mondo”[2]. L’Autore chiarisce che AT e NT non erano interessati alle questioni di teologia delle religioni come risposta all’attuale contesto del pluralismo religioso.“La parola rivelata era principalmente preoccupata di sottolineare, nell’AT, la situazione privilegiata di Israele, e nel Nuovo quella dei cristiani; il confronto faceva svanire sullo sfondo le altre religioni: Eppure, nonostante l’ambiguità determinata dalla compresenza di dati positivi e negativi, nei libri sacri non mancano le tracce di un approccio positivo alle religioni, soprattutto nella fede biblica nel coinvolgimento universale di Dio in un dialogo di salvezza con l’umanità”[3].

EXCURSUS STORICO /VERSO LA NUOVA TEOLOGIA DELLE RELIGIONI – L’Autore belga nel suo excursus storico sull’assioma (cf 115-147) ‘Fuori della chiesa non c’è salvezza’, che risale ai padri della chiesa [ Cipriano, ma ci sono precedenti già in Ignazio di Antiochia] fa riferimento anche al pensiero, con una riserva critica, di Niccolò Cusano (1401-1461), alla sua opera De pace fidei (1454). Il Cusano parla del superamento della teologia del compimento in Cristo delle religioni storiche. Il Cusano afferma che bisogna parlare di ‘finalizzazione intrinseca’; le molteplici religioni conducono alla Verità trascendente, che in esse più o meno si riflette pienamente e che tutte le riassume. La pienezza nel cristianesimo si compirà solo con l’evento escatologico (cf pp144-147). Per Dupuis “la posizione teologica di Niccolò appare indifendibile, si può tuttavia pensare che egli abbia fatto da battistrada  […]. La sua visione teologica fu probabilmente un tentativo incompiuto di proporre nel momento meno opportuno una convergenza universale delle religioni in Cristo, il punto-omega” (147). Dupuis preferisce parlare di complementarità fra le religioni del mondo e il cristianesimo. Le premesse per una teologia delle religioni, anche se ci furono tentativi precedenti,  vengono delineate solo a partire dal Concilio. Negli anni ’60 (del XX secolo)[4] ci fu tutta una letteratura sul ruolo positivo delle altre religioni per la salvezza dei loro membri[5], solo negli anni ’70, a causa della crescente[6] interazioni tra persone di fedi diverse, ci fu un approfondimento decisivo, mettendo in crisi il cristocentrismo. La teologia delle religioni è stata favorita anche dallo sviluppo delle scienze della religione (storia delle religioni, fenomenologia della religione, psicologia della religione, sociologia religiosa) e dalla filosofia della religione: “Ciascuna scienza della religione ha il suo proprio metodo che la distingue dalle altre. Caratteristico della teologia è il fatto che la sua ermeneutica della religione e delle religioni e delle religioni fa formalmente assegnamento sulla rivelazione cristiana contenuta nella Parola di Dio e interpretata dalla tradizione vivente della chiesa”[7]. La teologia della religione si fonda sulla rivelazione biblica e sulla tradizione ecclesiale. E’ Quindi ben diversa dalle scienze della religione, ha un proprio statuto epistemologico.

Una teologia cristiana – Dupuis sottolinea che la sua è una teologia cristiana, non una teologia sincretistica delle religioni come tentano di fare alcuni: “Ogni teologia è, in altri termini, ‘confessionale, nel senso migliore del termine; oppure non è affatto. L’attributo ‘confessionale’ indica qui l’adesione di fede della persona o della comunità religiosa che è il soggetto del fare teologia”[8]. Pur essendo confessionale, però, tale teologia, sottolinea Dupuis, non è provinciale, campanilistica, ma universale: “E’ proprio del dialogo interreligioso nelle sue varie forme scoprire tutto ciò che hanno che i cristiani e i non cristiani possono dire e fare in comune nonostante le loro irriducibili differenze, ed è parte della buona volontà ecumenica fornire l’impulso per questo”[9]. Riprendendo Panikkar[10], l’Autore belga osserva che le fedi religiose differiscono, e anche le rispettive teologie. Non si tratta di fare un’operazione di omologazione, di appianamento delle differenze alla ricerca di un denominatore comune, ma di “schietta ammissione della pluralità e della diversità delle credenze e la reciproca accettazione degli altri proprio nella loro alterità”[11]. Non si tratta di operare la reciproca assimilazione tra le fedi religiose, ma la loro compenetrazione nella diversità, l’apertura reciproca dialogica, poiché “L’adesione personale alla propria fede e l’apertura alla fede degli altri non sono necessariamente reciprocamente esclusive: dovrebbero invece crescere proporzionalmente l’una rispetto all’altra”[12]. La teologia cristiana delle religioni si deve confrontare anche con le altre teologie confessionali delle religioni, ad esempio indù, islamica, ebraica. Un confronto può essere quello della cristologia con la concezione islamica e coranica di Gesù e le varie interpretazioni della sua persona in autori del Rinascimento indù. “Nonostante le divergenze o addirittura le contraddizioni esistenti fra queste interpretazioni del pluralismo religioso – e in particolare della cristologia – e quelle derivanti dalla fede cristiana, le varie teologie confessionali delle religioni vanno viste positivamente come probabili piattaforme ed utili punti di partenza per la conversazione e il dialogo interreligioso”[13].

Una teologia cristiana del pluralismo religioso – La teologia della religione argomenta su cos’è la religione”e tenta di interpretare, alla luce della fede cristiana, l’esperienza religiosa universale dell’umanità; essa studia inoltre la relazione fra rivelazione e fede, fede e religione, fede e salvezza. Tuttavia, siccome la natura dell’essere umano in quanto spirito incarnato e persona in società fa sì che l’esperienza religiosa sia naturalmente inserita in una tradizione religiosa fatta di professione di fede, culto e codice morale, la teologia della religione diventa a sua volta una teologia delle religioni. La teologia cristiana delle religioni studia le varie tradizioni nel contesto della storia della salvezza e nella loro relazione col mistero di Gesù Cristo e con la chiesa cristiana”[14]. La teologia della religione corre spesso il rischio di essere astratta, mentre il teologo gesuita preferisce evidenziare interrogativi che riguardano la realtà concreta dell’esperienza religiosa, come essa è vissuta all’interno di tradizioni religiose, interpretandola alla luce del mistero di Cristo, della fede cristiana. Dupuis rimarca che la sua teologia si interroga sul vissuto (teologia situata, dal basso). Egli cerca di rispondere ai seguenti interrogativi: “in che modo le circostanze in cui le persone vivono la loro vita religiosa rientrano nel disegno di Dio per la salvezza dell’umanità? Quale significato possiede agli occhi di Dio – nella misura in cui possiamo pretendere di penetrarne i segreti – la realtà del pluralismo religioso del mondo, di cui l’umanità – e il cristianesimo al suo interno – ha oggi acquisito una nuova coscienza?”[15] L’interrogativo che si pone Dupuis è se sia possibile sviluppare una teologia delle religioni nel loro complesso oppure se non sia preferibile una teologia delle religioni che le analizza individualmente. In questo caso però, non bisogna soffermarsi sulle religioni mondiali, ma anche su quelle tradizionali dell’Africa, delle Americhe, dell’Asia e dell’Oceania. Bisogna avere cautela anche nella distinzione tra le religioni monoteistiche o profetiche, le religioni del libro, cioè ebraismo, cristianesimo e islam e le religioni orientali o mistiche (particolarmente induismo e buddhismo). Anche le religioni orientali hanno elementi profetici; analogamente elementi mistici si ritrovano anche nelle religioni politeistiche: “Il merito della distinzione – osserva l’Autore belga – è quello di sottolineare il fondamento comune delle tre religioni del libro nella fede di Abramo, riconoscendo d’altra parte la ‘sapienza’ o la ‘gnosi’ caratteristiche delle tradizioni orientali”[16]. Anche se la relazione tra ebraismo e cristianesimo è unica, tuttavia, anche l’islam ha delle affinità con il cristianesimo, in quanto risale alla fede di Abramo, per cui le tre religioni monoteistiche costituiscono una famiglia di religioni. Anche le religioni orientali, però, hanno legami tra di loro. Nonostante il ruolo insostituibile delle teologie cristiane delle varie religioni, di cui quella più affermata è la teologia dell’ebraismo, occorre una teologia generale delle religioni che le abbracci tutte “e che domandi in che modo le altre tradizioni religiose – e le loro parti costitutive – entrano in relazione con il mistero cristiano: con l’evento Gesù Cristo, che è al cuore della fede cristiana, e subordinatamente con la chiesa cristiana costituita da Gesù Cristo come ‘sacramento universale di salvezza’ (LG 48) nel mondo”[17].Questa teologia generale delle religioni, secondo l’Autore, deve precedere quella delle teologie particolari, che si occupano della relazione delle varie tradizioni religiose con la il mistero di Cristo. La teologia generale, invece, analizza degli interrogativi che riguardano tutte le religioni.

La teologia generale delle religioni, però, deve considerare anche le distinzioni fra le varie tradizioni religiose: “Infatti, […], se tutte le religioni rientrano nel disegno complessivo di Dio per la salvezza dell’umanità, non tutte hanno lo stesso posto e la medesima rilevanza all’interno del dispiegamento organico di questo disegno nella storia”[18]. Dupuis sottolinea che bisogna sviluppare particolarmente la teologia della’conversazione’ con l’ebraismo e poi con l’islam e con le varie tradizioni orientali. Recentemente si è sviluppato la teologia dell’incontro fra buddhismo e cristianesimo, che evidenzia il parallelo tra la figura del Buddha (Siddarta Gautama) e Gesù il Cristo. Teologia del pluralismo religioso – Il teologo belga parla di pluralismo religioso e non di pluralismo delle religioni, prospettiva questa ormai superata nell’ambito della teologia delle religioni: “La nuova prospettiva non è più limitata al problema della ‘salvezza’ dei membri delle altre tradizioni religiose, e nemmeno al ruolo di tali tradizioni nella salvezza dei loro membri. Essa ricerca più in profondità, alla luce della fede cristiana, il significato che la pluralità delle fedi viventi e delle tradizioni religiose da cui siamo circondati riveste all’interno del disegno di Dio per l’umanità. In tale disegno le tradizioni religiose del mondo sono forse destinate ad una convergenza universale? Dove, quando e in che modo?”[19]. La teologia delle religioni classica considera il pluralismo religioso come a una realtà storica, ovvia (de facto); esso invece ha una sua ragion d’essere (pluralismo de iure o ‘in linea di principio’). Secondo la nuova prospettiva non basta più interrogarsi sul ruolo che il cristianesimo possa attribuire alle altre tradizioni storiche, “ma nel cercare la radice del pluralismo stesso, il suo significato nel disegno di Dio per l’umanità, la possibilità di una convergenza delle varie tradizioni nel pieno rispetto delle loro differenze, e il loro mutuo arricchimento e la loro fecondazione reciproca”[20]. La teologia delle religioni, diventa in tal mondo una teologia interreligiosa.

Verso la nuova teologia del pluralismo – La nuova prospettiva non deve ignorare la teologia del passato, ma deve superare le argomentazioni ormai non più aderenti alla realtà attuale “e lasciarsi alle spalle gli atteggiamenti negativi che hanno caratterizzato secoli di relazioni cristiane con altre tradizioni”[21]. La teologia del pluralismo religioso deve essere ancorata anche alla tradizione vivente della chiesa, che è una tradizione del passato, rivisitata alla luce della Parola rivelata e della tradizione postbiblica, per poter arrivare a una valutazione positiva del pluralismo, altrimenti rimane ancorata ad una valutazione di disprezzo. Bisogna soprattutto assumere la svolta del Concilio: “L’importanza del nuovo atteggiamento prodotto dal Concilio non è stato forse ancora pienamente apprezzato; né le sue implicazioni teologiche sono state ancora adeguatamente esplicitate. Se anche in quest’ambito resta doverosa una certa continuità con il passato, è altrettanto vero che si richiede una chiara discontinuità, equivalente ad una vera e propria conversione”[22]. L’introduzione alla teologia delle religioni deve tener conto dei profondi cambiamenti che ci sono stati, da cui emerge la correlazione tra l’atteggiamento verso le varie religioni e la valutazione teologica di esse. Si è passati, rileva l’Autore belga, dall’opposizione dialettica, retaggio di un lungo passato, ad un atteggiamento di tolleranza, fino ad arrivare “alla conversazione dialogica dei tempi recenti. Parallelamente, la valutazione teologica è passata dal disprezzo e dal rifiuto che caratterizzano gran parte della tradizione cristiana ad una prudente accettazione ed apertura, fino ad una valutazione favorevole ed al riconoscimento dei valori positivi”[23]. Nel primo quarto del XX secolo c’è stato ancora un atteggiamento apologetico e negativo nei confronti delle altre religioni e la teologia si interrogava sulla questione della salvezza per i membri delle altre religioni, cioè la salvezza degli infedeli. Gli anni che portarono al Concilio registrarono un grande cambiamento: “Nel corso di questo secondo periodo, l’approccio si fece meno difensivo e più positivo: sull’onda del Concilio, la teologia divenne più affermativa e ottimistica riguardo alla salvezza dei membri delle altre religioni; le stesse tradizioni giunsero gradualmente ad essere considerate portatrici di valori positivi, o addirittura caratterizzate da un ruolo positivo nella salvezza dei loro membri”[24]. Il terzo periodo, cominciato con gli inizi degli anni ’80 del XX secolo, è quello che ha portato alla nuova teologia delle religioni, in cui non si tratta più di argomentare attorno alla salvezza di coloro che seguono altre tradizioni religiose, ma di investigare il significato della pluralità delle tradizioni religiose all’interno della storia della salvezza, cioè della relazione di Dio con l’umanità. Nonostante l’evoluzione, l’esclusivismo teologico continua a persistere in certi ambienti (ad esempio con H. van Straelen, che è stato missionario in Giappone) e c’è un vivace dibattito con “un ampio ventaglio di opinioni, ch oscillano dall’integralismo teologico al liberalismo eclettico”[25].

QUESTIONI DI METODO – La nuova teologia delle religioni opera una sintesi fra il metodo deduttivo, che non mette da parte la fede personale, e quello induttivo, dell’incontro con l’altro nella sua concreta esperienza religiosa, adottando il principio della contestualizzazione e del modello teologico ermeneutico. La teologia delle religioni non consiste in un nuovo argomento o soggetto su cui riflettere teologicamente, come la teologia politica o la teologia dell’ecologia: “Tuttavia, quando si tratta della ‘teologia delle religioni’ o del ‘pluralismo interreligioso’, il genitivo non va inteso in senso oggettivo, come se si riferisse ad un oggetto cui riflettere teologicamente. Più che come nuovo tema per la riflessione teologica, la teologia delle religioni va vista come un nuovo modo di fare teologia in un contesto interreligioso: un nuovo metodo per fare teologia in una situazione di pluralismo religioso. Questa teologia ermeneutica ‘interreligiosa’ è un invito ad allargare l’orizzonte del discorso teologico; essa dovrebbe condurre, […], a scoprire più in profondità le dimensione cosmiche del mistero di Dio, di Gesù Cristo e dello Spirito divino”[26]. Dupuis vede un’analogia fra la teologia del pluralismo religioso e la teologia della liberazione, che parte dalla prassi della liberazione socio-politica, per poi sviluppare una riflessione teologica con un una nuova metodologia. La teologia del pluralismo religioso parte dal dialogo interreligioso, “sulla base della quale essa va in cerca di un’interpretazione cristiana della realtà religiosa plurale che la circonda. Anch’essa si presenta come un nuovo modo di fare teologia”[27]. Tale teologia, riflessione sul dialogo e nel dialogo,  dovrebbe interessare particolarmente le chiese dell’Asia e dell’Africa che vivono in un contesto multi religioso. In questi contesti, a causa delle diffusa povertà, accanto al dialogo interreligioso, bisogna promuovere anche una prassi di liberazione; la collaborazione interreligiosa deve portare assieme all’impegno per la liberazione socio-politica, cominciando dalla critica nei confronti della autorità religiose, anche cristiane, quando sono conniventi con sistemi politici ingiusti ed oppressivi.

 ‘Storia ed alleanze: una e molte’  – La storia della salvezza manifesta unità e pluralità, una varietà di automanifestazioni di Dio e l’unità del progetto divino prestabilito. “Il disegno di Dio per l’umanità non è né monolitico né frammentario, ma allo stesso tempo unico e complesso: unico ed universale in vista della volontà di Dio di entrare in comunicazione con l’intera razza umana, indipendentemente dalle situazioni e dalle circostanze storiche in cui vengono a trovarsi gli uomini e le donne; molteplice e variegato nelle forme concrete che l’unitario disegno divino assume nel suo rivelarsi storicamente”[28].  Il concetto di ‘storia della salvezza’ è piuttosto recente, ma nella rivelazione biblica emerge chiaramente da sempre la dimensione storico-salvifica da cui deriva l’autocomprensione del cristianesimo e la comprensione del suo rapporto con la storia del mondo in generale e la storia della religione in particolare. La storia della salvezza consente un discorso positivo sulle altre religioni; permette di cogliere il loro significato specifico all’interno delle relazioni tra Dio e l’umanità, non come fenomeno transeunte ma permanente. Per Dupuis va superato il discorso classico delle religioni come ombra superata dall’automanifestazione biblica di Dio. Le varie religioni non hanno solo una funzione propedeutica ma un significato permanente nell’universale disegno salvifico di Dio per l’umanità. L’Autore belga sviluppa la sua riflessività su tali questioni situandosi nella prospettiva della cristologia trinitaria che costituisce il modello integrale per la teologia del pluralismo religioso, per l’attività universale del Verbo di Dio e dello Spirito di Dio, “nel corso della storia umana, come mezzo dei rapporti personali di Dio con gli esseri umani indipendentemente dalla loro concreta collocazione nella storia”[29]. L’Autore osserva che l’azione universale del Logos e dello Spirito di Dio va sempre considerata nella sua connessione con l’evento storico Gesù Cristo. Le alleanze precristiane, le alleanze che Dio a più riprese ha stipulato con l’umanità e che hanno un’efficacia permanente, vanno sempre considerate nella prospettiva del modello cristologico-trinitario secondo la teologia cristiana. Dupuis analizza il modello ciclico o circolare, lineare e a spirale, di leggere la storia. Secondo Mircea Eliade il modello ciclico è tipico delle culture primitive e si basa sul ritmo ricorrente del cosmo e delle cose viventi. Non ci sono trasformazioni, non si produce nulla di nuovo nel mondo, perché tutto è la ripetizione degli archetipi primordiali. Il modello ciclico lo si ritrova anche nella tradizione ebraico-cristiana, che ha portato ad una visione pessimistica, tipica della filosofia greca. La vita è destinata alla morte e la salvezza consiste nella fuga dalla prigione del corpo.

Il modello a spirale della filosofia indù e delle altre filosofie orientali condivide l’idea di un ritorno senza scopo. I cicli si compongono di vari periodi, ma si susseguono senza un senso definito, “ciascun ciclo cede il passo al seguente in una successione indefinita”[30], e la storia non sembra possedere mai uno scopo preciso, una meta ultima. Il modello lineare si contrappone ai due predenti ed i primi a elaborarlo, afferma Mircea Eliade, furono gli ebrei. La storia procede in modo creativo verso una meta, verso il compimento. “Il tempo è qui strutturato, dinamico, e si muove in avanti; gli eventi hanno significato e valore in quanto tali, in relazione gli uni agli altri e, soprattutto, in relazione alla meta finale della totalità della storia”[31]. Il popolo d’Israele testimonia la fede nell’intervento divino nelle della sua storia, sia dolorose che gioiose, nelle sue sconfitte, punizione per il peccato, e vittorie, liberazione, compassione di Dio (messaggio dei profeti). In base all’esperienza profetica e messianica, Israele è giunto a una nuova interpretazione degli avvenimenti storici, intesi come presenza attiva del Signore, sua teofania. La concezione lineare della storia è stata ripresa e sviluppata dal cristianesimo primitivo e della Tradizione e costituisce una novità assoluta nei confronti della concezione orientale e greca. Il cristianesimo e l’ebraismo sono le religioni dell’uomo moderno, l’uomo storico dotato di libertà personale. La storia è fatta di un passato, un presente e un futuro, manifestazione dell’opera del Dio provvidente, come avviene particolarmente con la liturgia: “Il passato continuava a vivere nel presente che aveva prodotto; e, nel presente, il futuro esisteva già nella speranza. Il culto aveva tre dimensioni: la celebrazione dell’essere-di-Dio-con il suo popolo oggi, come ‘memoriale’ di un evento proto tipico permanente di salvezza, e come anticipazione prolettica del tempo ultimo del compimento finale. Nel caso dell’ebraismo come in quello del cristianesimo, a metà della traiettoria lineare stava un evento prototipico di salvezza che imprimeva direzione e movimento all’intero processo, sia nel passato che nel futuro”[32]. Per gli ebrei l’evento prototipico è l’esodo,in tutta la sua complessità, cioè l’autorivelazione di Dio a Mosè, la liberazione dall’Egitto, l’attraversamento del deserto, l’alleanza e la Legge sul monte Sinai. Per la Chiesa apostolica, per il cristianesimo, l’evento centrale, fondante, prototipico, che dà nuovo senso alla storia, è la vicenda del Cristo che culmina nel suo mistero pasquale. Oscar Cullman (Essere e il tempo, Il Mulino, Bologna 1965) ha sottolineato come tutti gli eventi della storia della salvezza, passati, presenti e futuri, rinviano al’evento Cristo, chiave della storia, per “la particolare densità di significato attribuitagli dalla fede cristiana in quanto irruzione personale di Dio nella storia umana”[33].

Dio e i popoli nella storiaStoria della salvezza, particolare o universale? /  Dupuis asserisce che si deve categoricamente rifiutare l’affermazione secondo cui l storia della salvezza nasca con l vocazione di Abramo, poiché in questo modo viene svalutato in modo aprioristico il coinvolgimento di Dio nella storia dell’umanità, prima e al di fuori della tradizione biblica. In questo modo la storia della salvezza riguarda la discendenza spirituale del patriarca (Rm 4,11). Nella teologia contemporanea alla questione vengono date risposte meno negative (per K. Barth le altre religioni sono soltanto incredulità / le religioni sono vani tentativi di autogiustificazione). Jean Danielou (Il mistero della salvezza delle nazioni, Morcelliana, Brescia 1954) parla  della religione cosmica che precede quella abramitica che appartiene già all’ordine soprannaturale. Dio, però, non si è manifestato personalmente per mezzo di essa, poiché la sua auto rivelazione avviene solo per mezzo del cosmo e costituisce la ‘preistoria della salvezza’, cioè la conoscenza naturale accordata da Dio per mezzo dell’ordine della creazione, aspirazione naturale verso Dio che non è coinvolto personalmente nelle vicende dei popoli. Anche Hans Urs von Balthasar (Teologia della storia. Abbozzo, Morcelliana, Brascia 1969) definisce le altre religioni ‘naturali’. Solo le religioni della rivelazione (ebraismo e cristianesimo) manifestano il volgersi di Dio all’umanità, la sua autodonazione attraverso la storia e la sua Parola. Secondo Dupuis nell’enciclica Ecclesiam suam (1964) di Paolo VI si afferma che la storia della salvezza coincide con la storia del mondo, che agli occhi della fede si rivela come un dialogo di salvezza che Dio ha deliberatamente intrapreso con l’umanità sin dalla creazione e continua nei secoli fino al compimento escatologico. Secondo l’autore belga è da rifiutare anche l’idea della preistoria della salvezza che separa salvezza e rivelazione, e che ha dato origine a due correnti di pensiero: “Secondo la prima, tale preistoria implicava una qualche ‘rivelazione’ naturale di Dio per mezzo della realtà creata, rimanendo tuttavia impenetrabile alla salvezza; secondo l’altra visione, la ‘salvezza’ divina era possibile, durante tale pre-istoria, a singoli individui, ma l’automanifestazione divina o ‘rivelazione (soprannaturale) sarebbe rimasta celata nel futuro fino alla rivelazione di Dio ad Abramo”[34]. Dupuis sottolinea, invece, che storia della salvezza e storia del mondo coincidono, anche se l’oggetto formale è diverso. Hanno la stessa estensione poiché la storia umana, sin dall’inizio è la storia di Dio con l’umanità, che implica l’autorivelazione di Dio e la salvezza, in ogni suo momento. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi (1Tm 2,4): “E l’universale volontà salvifica di Dio non può essere ridotta a una sorta di desiderio o velleità condizionale e inefficace; tale volontà divina non è soggetta ad altra condizione che la libera accettazione da parte di ciascuna persona umana, della gratuita automanifestazione ed auto donazione di Dio”[35]. Secondo la tradizione cristiana il genere umano sin dall’inizio è stato chiamato a partecipare alla vita divina, per l’umanità si è sempre trovata nell’ordine soprannaturale con l’offerta dell’autocomunicazione di Dio mediante la sua grazia.

Karl Rahner  in Storia del mondo e storia della salvezza, Saggi di antropologia trascendentale (Edizioni Paoline, Roma 1965),afferma l’universalità della rivelazione e della salvezza basandosi sull’analisi filosofica e teologica della condizione esistenziale dell’umanità storica, da lui denominata ‘esistenziale soprannaturale’.: L’’esistenziale soprannaturale’ consiste dunque in una trasformazione del concreto ‘orizzonte di coscienza’ mediante il quale ciascuna persona umana è orientata, nell’ordine presente e pieno di grazia della creazione, a un’autorivelazione e a un dono di sé di Dio da ricevere in libertà e gratitudine”[36]. Egli distingue la storia universale o generale della salvezza-rivelazione, denominata trascendentale, dalla storia speciale della salvezza-rivelazione da lui definita ‘categorica’. La storia della salvezza trascendentale prende forma concreta nella storia delle persone, della religione in generale e delle religioni storiche. , che sono volute da Dio, in quanto “danno forma concreta all’offerta divina di grazia universalmente presente ed operante nella storia umana”[37]. La storia speciale della salvezza ha la caratteristica che “la rivelazione-salvezza di Dio diviene ‘tematica e categorica’. Entrano in gioco una consapevolezza e un riconoscimento espliciti di avvenimenti storici come costituenti interventi divini; ciò è garantito da una ‘parola di Dio’ da cui tali avvenimenti sono narrati e interpretati come eventi salvifici”[38]. La storia speciale della salvezza si realizza soprattutto con la tradizione ebraico-cristiana per l’interpretazione profetica di eventi storici. Tuttavia, precisa l’autore, la storia speciale della salvezza con l’interpretazione profetica degli avvenimenti storici come interventi divini nella storia dei popoli, si trova anche in altre tradizioni religiose. Lo stesso AT testimonia l’intervento salvifico di Dio anche a favore di altri popoli, pure dei nemici d’Israele. E’ stata, invece, la tradizione cristiana ad attribuire alla storia d’Israele “la peculiarità unica di prologo storico immediato all’intervento salvifico decisivo di Dio nell’evento-Cristo”[39].

Generale e speciale / Oltre alla storia generale della salvezza e quella speciale occorre considerare anche il periodo precristiano e postcristiano che non coincide con l’altra suddivisione, altrimenti la salvezza generale della salvezza verrebbe a coincidere con il periodo precristiano che vene superato, rimosso, con l’avvento di Cristo. Dupuis formula l’ipotesi che la storia speciale della salvezza racchiude anche quella generale degli altri popoli: “La storia di ciascun popolo  non potrebbe contenere le tracce delle azioni amorose di Dio verso di esso, costituendolo come uno dei popoli di Dio e infondendogli la vita stessa di quest’ultimo?”[40]. Egli cita i vescovi dell’Asia che vedono le grandi tradizioni religiose dei loro popoli come elementi positivi del disegno salvifico di Dio, poiché in esse si riscontrano i frutti dell’azione dello Spirito Santo, come “un senso del sacro, un impegno al perseguimento della pienezza, una sete di autorealizzazione, un gusto per la preghiera e l’impegno, un desiderio di rinunzia, una lotta per la giustizia, un anelito ad una bontà umana di fondo, un coinvolgimento nel servizio, un abbandono totale dell’io a Dio, e un attaccamento al trascendente nei loro simboli, rituali e nella stessa vita, sebbene non manchino la debolezza e il peccato umani”. La valutazione positiva delle altre tradizioni religiose scaturisce dal fatto che il disegno di Dio per l’umanità è uno solo, raggiunge tutti i popoli; è il Regno di Dio con il quale si attua la riconciliazione universale in Cristo (COMMISSIONE TEOLOGICA CONSULTIVA DELLA FEDERAZIONE DELLE CONFERENZE DEI VESCOVI ASIATICI, Theses on Interreligious Dialogue, n. 48). Se in queste tradizioni religiose ci sono i segni dello Spirito Santo, nei loro libri sacri ci sono tracce della parola di Dio rivolta ai vari popoli all’interno della loro storia.

Trinitaria e cristica / Dupuis applica il modello di cristologia trinitaria all’automanifestazione salvifica di Dio nella salvezza-rivelazione all’interno della storia delle nazioni, poiché Cristo è il punto mediano e focale, secondo la comprensione cristiana, dell’unico ed organico disegno di salvezza di Dio per l’umanità. L’evento-Cristo “è il perno attorno a cui ruota l’intera storia del dialogo fra Dio e l’umanità, il principio di intelligibilità del disegno di Dio concretizzato nella storia del mondo. Esso influisce sull’intero processo della storia a guisa di causa finale, è cioè come fine o meta che attrae verso di sé tutto il processo evolutivo: sia la storia ‘precristiana’ che quella ‘postcristiana’ sono attirate dal Cristo-Omega verso di sé”[41]. Il cristocentrismo, spiga il gesuita belga, non va inteso come cristo monismo, poiché la centralità dell’evento-Cristo “non oscura, ma piuttosto presuppone, chiama ed accresce l’universalità dell’attiva presenza del ‘Verbo di Dio’ e dello ‘Spirito di Dio’ nella storia della salvezza e, specificamente nelle tradizioni religiose dell’umanità”[42]. [dissociazione tra il Logos eterno , che svolge un’azione universale, e il Cristo che realizza un’opera limitata!]. La Sapienza-Parola e lo Spirito di Dio della tradizione biblica del Primo Testamento sono mezzi degli interventi personali di Dio anche al di fuori di Israele; sono attributi divini personificati letterariamente. “Il Nuovo Testamento rivelerà poi la vera ‘personalità’ dei ‘mezzi’ del coinvolgimento di Dio nella storia umana, approfondendo progressivamente il carattere personale del Figlio (Logos-Sapienza) e dello Spirito. Da allora in poi, il Logos-Sapienza e lo Spirito, che erano già stati attivi nella storia ‘precristiana’, saranno intesi retroattivamente come due persone distinte all’interno del mistero del Dio uno e trino: il Figlio incarnatosi-in-Gesù Cristo da un lato, e lo Spirito-di-Cristo dall’altra. Diverrà chiaro che le due persone divine erano state presenti ed operanti nell’economia precristiana senza essere riconosciute formalmente come tali”[43]. Rifacendosi a Gv 1,9 Dupuis sottolinea la presenza attiva del Logos già prima dell’incarnazione, anche se è culminata nell’evento-Cristo. Si tratta delle Logofanie secondo sant’Ireneo, che non sono soltanto “le teofanie dell’AnticoTestamento, ma tutte le manifestazioni divine lungo la storia della salvezza fin dalla creazione. L’universale funzione rivelatrice del Logos lo aveva reso presente all’umanità longo tutta la storia, sin dall’inizio, anche se tale presenza operante doveva raggiungere il culmine soltanto con la venuta nella carne in Gesù Cristo”[44]. Riguardo allo Spirito l’Autore cita la Redemptoris Missio (1990) di Giovanni Paolo II e la Dichiarazione della Consultazione ecumenica di Baar (1990), in cui si sottolinea particolarmente la sua azione universale,  non soltanto nelle singole persone, ma anche nelle varie tradizioni religiose. Il gesuita belga sottolinea la correlazione tra l’azione logocentrica, pneumatologica e cristocentrica, poiché non si escludono a vicenda. L’azione “preincarnazionale del Logos è orientata all’evento-Cristo, così come è corretto dire che lo Spirito è lo ‘Spirito di Cristo’ sin dall’inizio della storia della salvezza”[45]. Tra le varie componenti dell’economia della salvezza trinitaria e cristologica esiste una relazione profonda, per cui nessuna di esse può essere enfatizzata a separata dalle altre. L’evento-Cristo non può mai essere separato dal Logos e dallo Spirito, che a loro volta non possono essere dissociati dall’evento-Cristo. Tale discorso richiama il rapporto inclusivo tra tempo e eternità che influenza il rapporto di Dio con l’umanità. Lo sviluppo della storia della salvezza ha un inizio, un centro e un fine, un passato, un presente e un futuro, “nella consapevolezza e conoscenza eterna di Dio, tutto è continuo e coesistente, cosimultaneo e interconnesso. Gesù Cristo è il culmine eternamente ‘pre-fissato’, del coinvolgimento personale di Dio nelle vicende dell’umanità, e l’evento-Cristo è perciò, all’interno della storia, il ‘momento’ puntuale in cui Dio ‘diviene’ Dio-dei-popoli-in-maniera-pienamente-umana. Siccome però l’incarnazione del Logos è eternamente presente nell’intenzione di Dio, la sua realizzazione nel tempo informa la storia plurimillenaria dei rapporti che questi intrattiene con l’umanità”[46]. Secondo AG 4 lo Spirito santo operava nel mondo già prima che Cristo venisse glorificato, analogamente all’azione del Logos prima dell’incarnazione.

I popoli dell’alleanza con DioUna o varie alleanze? / I racconti biblici testimoniano che il  rapporto di Dio con l’umanità si realizza attraverso le alleanze (berith), che scaturiscono dalla sua libera iniziativa, dal suo amore gratuito e richiedono la risposta dell’uomo come adesione e fedeltà. Il termine alleanza non compare nei racconti della creazione (Gn 1-2), anche se in Ger 33,20-26 si parla di un’alleanza cosmica. Nella Genesi si parla di alleanza eterna stipulata da Dio con Noè (Gn 9,1-17); ritorna poi nel ciclo di Abramo (Gn 17,1-14). Nel racconto dell’Esodo si parla dell’alleanza con Mosè (Es 19-24); Ger 31,31-34 annuncia una nuova alleanza che secondo il NT si è realizzata con Cristo morto e risorto (Mt 26,28-29; Lc 22,20; 1Cor 11,25).  Dupuis osserva che secondo gli studiosi la realtà dell’alleanza esiste nel racconto biblico anche al di là della terminologia esplicita, anche se c’è disaccordo tra loro nel determinare il numero di queste alleanze e se esista una correlazione reciproca tra esse. “Esistono alleanze differenti, oppure tutte le alleanze menzionate nella Bibbia fanno riferimento ad un’unica alleanza cosmica, stabilita da Dio con l’umanità nella creazione?”[47]. Secondo alcuni esiste un’unica alleanza, quella originaria con Adamo, e quelle successive sono soltanto la consapevolezza dell’alleanza originaria, anche quella di Abramo. Il cristianesimo radicalizza la consapevolezza ebraica dell’alleanza universale con Adamo. Il cristianesimo, come pure Israele, sono soltanto un segno di tale alleanza primordiale, che è stata rifondata in Cristo (cf. ad es. J.T. Pawlikowski). Il gesuita belga evidenzia però le criticità di una tale tesi, che ha il merito di mettere in luce la continuità fra la creazione e Gesù Cristo passando per Israele, ma dimentica l’alleanza con Noè. Un altro limite è quello di non tener conto della discontinuità fra le varie fasi della storia della salvezza, della novità dell’evento-Cristo, per cui “Il processo della storia della salvezza è ridotto alla restaurazione di uno stato originale, venendo così privato di ogni dinamismo. Israele e il cristianesimo stanno l’uno accanto all’altro come due segni ‘analoghi’ dell’alleanza universale di Dio con l’umanità in Adamo”[48]. Il discorso viene portato avanti anche nell’ambito del dialogo ebraico-cristiano, riguardo alla relazione tra l’alleanza abramitico-mosaico da un lato e quella in Gesù Cristo dall’altra. Se l’alleanza con Israele è permanente si pone la questione teologica di quale sia la relazione fra l’antica [Prima] e la nuova [Seconda] alleanza. La tradizione cristiana ha parlato di 4 alleanze (Ireneo di Lione in Adversus haereses [III,11,8]  e la Dimostrazione di Aphraat [11,11]. Ireneo parte dal significato simbolico del numero 4 afferma che Dio ha parlato in 4 modi diversi: “ai patriarchi prima di Mosè, per mezzo della sua divinità; sotto la Legge per mezzo di un ministero sacerdotale; successivamente, nella sua incarnazione, per mezzo della sua umanità; e, infine, in quanto Signore risorto, per mezzo del dono dello Spirito”[49]. Le quattro alleanze sono quelle in Adamo, Noé, Abramo e Mosè e in Gesù Cristo. Nel succedersi di queste alleanze divine non c’è nulla ce faccia pensare che una di essa abolisca quelle precedenti. Anche i Vangeli sono 4 e nessuno di essi rimpiazza gli altri ma c’è correlazione tra loro, come per le 4 alleanze. Le alleanze sono Logofanie, modalità del coinvolgimento di Dio nelle vicende dell’umanità per mezzo del suo Logos che, per così dire, fa le prove della sua irruzione nella storia umana per mezzo dell’incarnazione di Gesù Cristo. “In quanto tali, esse stanno fra loro nella relazione non del vecchio che diventa obsoleto con l’avvento del nuovo che lo sostituisce, bensì in quella del seme che già contiene, in promessa, la pienezza della pianta che ne scaturirà”[50]. L’alleanza di Dio nella creazione attesta la familiarità di Dio con Adamo, cioè la sua relazione personale con il genere umano. La Bibbia parla anche della familiarità di Dio con Noè (Gn 9,1-17) e l’universalità dell’alleanza eterna conclusa con lui  e con la sua discendenza (Gn 9,16), espressione simbolica “di un impegno personale di Dio nei confronti delle nazioni, ossia dell’universalità dell’intervento divino nella storia dei popoli, di cui le tradizioni religiose dell’umanità sono le testimonianze privilegiate”[51]. Quella di Noè non è una religione naturale: Dio che si manifesta attraverso i fenomeni della natura e della costanza del loro ricorrere, come erroneamente è stato supposto, ma di autentico evento salvifico segnato dalla grazia. L’alleanza con Noè è paradigmatica per la teologia elle religioni, in quanto rivela che Dio ha stipulato un patto con tutti i popoli, immagine del suo amore duraturo per Israele (Is 54,9-10).

Il ritmo trinitario delle alleanze divine / Dio, essendo un mistero, trinitario, nel comunicarsi all’umanità segue questo ritmo trinitario. Fra Trinità immanente (in se stessa) e Trinità economica (che si rivela nell’opera salvifica) c’è profonda correlazione. In ogni alleanza di Dio con l’umanità c’è la sua presenza attiva, del suo Logos e del suo Spirito. Questo ritmo emerge sin dalla creazione: Dio creò per mezzo della sua Parola (Gn 1,3) e nello Spirito (Gn 1,2). Questo ritmo lo si ritrova nella storia di Israele: “in generale, gli interventi di Dio a favore del suo popolo sono realizzati per mezzo del suo Verbo; quanto allo Spirito di Dio, esso si impossessa di singole persone per farne gli strumenti dell’azione di Dio, e dei profeti per dar loro il potere di parlare la parola di Dio”[52]. Le tracce della Trinità non si trovano soltanto nella creazione ma anche nelle tradizioni religiose extrabibliche, in virtù dell’alleanza di Dio con tutti i popoli. L’autocomunicazione di Dio ha sempre un ritmo trinitario. La storia dell’origine di tutte le cose si realizza per mezzo del Verbo e nello Spirito e del loro ritorno a Dio per mezzo del Verbo nello Spirito: pròsodos ed éxodos della creazione divinizzata. “[…] il mondo creato è assunto nel mistero dell’’espansione e della concentrazione della Trinità, dal Deus absconditus per il Verbo allo Spirito e, viceversa dallo Spirito per l’Unigenito al Non-Nato”[53]. Il ritmo trinitario lo si trova espresso in san Paolo (1Cor 8,6; Ef 2,18) ed attesta che Dio assume nella sua compagnia, sia individualmente che collettivamente, l’umanità religiosa extra biblica, donando ad essa la grazia e la speranza.

‘L’alleanza mai revocata’ [titolo del libro di N. Lohfink] / Di essa parlò Giovanni Paolo II nel 1980 in un discorso pronunciato a Mainz (Germania) al “popolo di Dio dell’Antica Alleanza, che non è mai stata revocata” (cf. Rm 11,29). Tra Israele e il cristianesimo c’è un vincolo speciale, ma tale relazione è paradigmatica, emblematica di quella con gli altri popoli. San Paolo afferma che anche con l’avvento di Gesù Cristo Israele continua ad essere il popolo di Dio, l’alleanza mosaica è sempre incessante per l’amore e la fedeltà incrollabile di Dio che non ha ripudiato il suo popolo (Rm 11,1); “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Israele è sempre il popolo i cui membri “possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi” (Rm 9,4). Lohfink osserva che la nuova alleanza non abolisce la prima ma la svela: “La nuova alleanza non è altro che la prima: essa la svela, irradiando lo splendore del Signore che la precedente racchiudeva senza rivelarlo pienamente. La ‘nuova alleanza’ di Ger 31,31-34 non contiene alcun riferimento a due alleanze differenti, ma da una sola, che Dio ristabilirà nonostante l’infedeltà del popolo”[54]. Israele riteneva che la nuova alleanza si fosse realizzata con il ritorno dall’esilio e la ricostruzione del tempio; il NT (Lc 22,20; Rm 9-11) la interpreta invece in senso cristologico ed escatologico. Secondo Lohfink si tratta di una sola alleanza che riguarda gli ebrei e i cristiani, sebbene con differenze, poiché essi percorrono due strade, ma  che fanno parte dell’unica alleanza che rende presente nel mondo la salvezza di Dio. In base alla Lettera ai Romani c’è un solo piano salvifico di Dio che abbraccia gli ebrei e le nazioni;  si tratta di due tempi, uno per gli ebrei e l’altro per i cristiani, che alla fine convergeranno nell’eschaton. G. D’Costa parla invece di molte possibili alleanze, che include le varie religioni mondiali, “all’interno di un’unica storia rivelatoria che raggiunge in Cristo il suo compimento normativo ma prolettico”[55].  Riguardo al dialogo ebraico-cristiano Dupuis sottolinea che bisogna evitare, da una parte, la teoria della sostituzione, secondo cui il compimento in Cristo abbia sostituito le promesse e alleanze con Israele; dall’altra va evitata anche la dualità di due vie parallele, una per gli ebrei e un’altra per i cristiani, che distruggerebbe l’unità del piano salvifico di Dio per l’umanità che ha raggiunto in Gesù Cristo la sua realizzazione escatologica. Il piano salvifico di Dio possiede una sua unità organica, con vari passi tra loro interconnessi e complementari: “Per la fede cristiana, l’evento-Cristo non esiste senza Israele o facendo astrazione da esso; e inversamente Israele non è stato mai prescelto da Dio come quel popolo da cui sarebbe uscito Gesù di Nazaret. Israele e il cristianesimo sono indissolubilmente congiunti, nella storia della salvezza, sotto l’arco dell’alleanza. L’alleanza mediante cui il popolo ebreo otteneva la salvezza nel passato e continua tuttora ad essere salvato è la stessa alleanza mediante cui i cristiani sono chiamati alla salvezza in Gesù Cristo. Non vi è alcuna sostituzione di un ‘nuovo’ popolo di Dio ad un altro popolo dichiarato, d’ora in poi, ‘antico’, bensì un’espansione sino ai confini del mondo dell’unico popolo di Dio, di cui l’elezione di Israele e l’alleanza con Mosè erano e rimangono ‘la radice e la sorgente, il fondamento e la promessa’”[56]. La salvezza giunge agli ebrei attraverso l’alleanza conclusa da Dio con Israele, recata a perfezione in Cristo. L’alleanza con Israele è tuttora una via di salvezza, ma non in modo indipendente dall’evento-Cristo.

Il valore permanente dell’alleanza cosmica / La questione del rapporto tra ebraismo e cristianesimo funge da catalizzatore per ri-orientare il rapporto fra il cristianesimo e le altre religioni, che conservano un valore permanente, simboleggiate nell’alleanza cosmica con Noè, che è giunta alla pienezza in Gesù Cristo, ma conserva un valore permanente. La distinzione fra storia generale della salvezza e storia speciale non va intesa in modo rigido, poiché le tradizioni religiose extra bibliche pure appartengono alla storia speciale della salvezza. Gli eventi della storia dei popoli, come osserva Rahner, sono interpretati come interventi divini dal carisma profetico. Analogamente bisogna superare la dicotomia tra mito, come qualcosa di non vero che riguarda le altre religioni, e storia, prerogativa della tradizione ebraico-cristiana. Il mito, invece, narra una storia sacra, che ha avuto luogo nel tempo primordiale (Mircea Eliade); Dio si è rivelato in dai tempi più antichi nella forma del mito (B. Griffiths). Non è possibile contrapporre, osserva l’autore belga, i racconti extrabiblici, mitici, e quelli biblici, storici. I racconti mitici veicolano un messaggio divino, come emerge dalle stesse Scritture ebraiche. “Il racconto della creazione nel Libro della Genesi è un mito mediante il quale viene rivelato il mistero della creazione degli esseri umani e della loro comunione con Dio. Noè è egli stesso una figura ‘mitica’ o un personaggio ‘leggendario’, e la storia dell’alleanza di Dio con lui ha un carattere mitico; eppure essa comunica la verità di un rapporto di alleanza di tutti i popoli con Dio: Neppure le storie di Abramo e Mosè sono prive di un certo sfondo mitico; eppure esse sono il simbolo per antonomasia dell’azione di Dio nella storia del popolo israelita e costituiscono la pietra angolare della concezione ebraica della rivelazione come intervento personale di Dio nella storia”[57]. L’autore biblico si serve dei racconti mitologici, politeistici (le divinità sono la personificazione delle forze della natura) per veicolare la novità assoluta del monoteismo, la trascendenza di Dio rispetto alle forze naturali, che sono da Lui create. Israele si è allontanato dalla concezione mitologica per arrivare a quella storica mediante il carisma interpretativo dei grandi profeti; questo movimento si è accentuato particolarmente con l’evento-Cristo che è il punto mediano della storia. Questa evoluzione, però, non annulla il fatto che anche le tradizioni religiose extrabibliche, la religione cosmica “comunica un rapporto di alleanza di Dio con i popoli, espresso attraverso la mediazione della storia e della leggenda. E la funzione rivelatrice del mito nella religione extrabiblica non è venuta meno con l’avvento della coscienza storica”[58].

PAROLA DI DIO UNICA ED UNIVERSALE’

Dupuis esamina il fondamento  di una rivelazione biblica non ristretta alla storia biblica, a cui si fa riferimento nel prologo giovanneo. Il Verbo è Colui per mezzo del quale “tutto è stato fatto” (Gv 1,3), che era “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” venendo nel mondo (Gv 1,9). Tutta la storia dei popoli è storia della salvezza, che si realizza con opere e parole, eventi e profezia (DV 2). Dio ha parlato a tutta l’umanità, ha offerto la salvezza a tutti coloro che ne fanno parte. La rivelazione è universale e pure l’offerta della salvezza(G. O’Collins) [relativismo ???]. Il gesuita belga precisa che la rivelazione e la salvezza differisce da una tradizione religiosa all’altra, pur avendo elementi simili. La teologia comparativa delle religioni, però, deve superare la dicotomia tra inclusivismo e pluralismo, ma non deve avere la presunzione di arrivare all’essenza comune delle religioni. Nello stesso tempo “la doverosa attenzione e il dovuto rispetto per le differenze non eliminano il diritto e il dovere, per il credente cristiano, di interpretare i dati delle altre tradizioni a partire dalla prospettiva della propria fede”[59]. Il discorso dell’Autore intende essere una valutazione cristiana, formulata con categorie cristiane, della rivelazione divina nelle altre tradizioni religiose. Il misteri divino, a cui si danno nomi diversi, è rivelato e comunicato definitivamente in Gesù di Nazaret. “Il ‘mistero ultimo’ universalmente presente eppure mai adeguatamente compreso è, per il cristiano, il “Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo’ (2Cor 1,3). Una teologia cristiana del ‘Verbo di Dio’ nella storia sarà dunque necessariamente trinitaria e cristologica – precisa Dupuis -. Essa andrà in cerca dei segni dell’azione di Dio, dei ‘semi del suo Verbo’ e dell’impronta del suo Spirito nelle esperienze e negli eventi fondativi su cui sono state edificate le varie tradizioni religiose, nonché delle tracce dei medesimi nei libri sacri e nelle tradizioni orali che di tali tradizioni costituiscono la testimonianza ufficiale e la memoria vivente”[60].

La rivelazione e le religioni mondiali – La rivelazione viene compresa in modo diversificato dalle varie tradizioni religiose. Per quanto riguarda la teologia della rivelazione cristiana c’è una forte evoluzione, in quanto non viene intesa come un insieme di dottrine, verità divine, ma come eventi che costituiscono l’automanifestazione di Dio.

Dio ‘fuori’ o l’Assoluto ‘dentro’: estasi e ‘instasi’ / Dupuis precisa che bisogna tener presenti alcune fondamentali distinzioni delle diverse tradizioni religiose. E’ consueta la distinzione fra le religioni monoteistiche o profetiche (ebraismo, cristianesimo e islam) e le religioni mistiche originarie dell’Oriente. Anche se queste distinzioni vanno prese con le dovute cautele, tuttavia evidenziano l’origine comune e una somiglianza di famiglia fra le religioni profetiche. Nelle religioni mistiche d’Oriente, pur essendoci varie differenze, hanno dei tratti in comune, come il carattere sapienziale o gnostico che determinano legami reciproci.  Tali religioni, sottolinea l’Autore,vivono l’economia dell’alleanza cosmica e l’esperienza del divino è inerente a tale contesto. Nonostante ciò molte donne e uomini hanno vissuto e vivo una autentica esperienza religiosa, hanno realizzato una relazione personale con il divino, ad esempio, attraverso la preghiera: “La preghiera autentica è sempre un segno del fatto che Dio, in qualche modo segreto e nascosto, ha preso l’iniziativa di accostarsi personalmente agli esseri umani rivelando loro se stesso e venendo da loro accolto nella fede. Quanti si affidano a Dio nella fede e nella carità vengono salvati, per quanto imperfetta possa essere la concezione che hanno del Dio che si è rivelato loro”[61]. Del resto, la salvezza viene donata all’uomo, che è sempre peccatore, quando risponde alla comunicazione personale che è iniziata da Dio. L’esperienza religiosa viene comunicata attraverso il linguaggio, le formulazioni dottrinali, che riescono a farlo solo in modo inadeguato, e questo vale anche per il cristianesimo: Se vogliamo attingere l’esperienza religiosa altrui e scoprire gli elementi di verità e di grazia che vi si trovano celati, saremo obbligati – osserva Dupuis – ad andare al di là dei concetti che la enunciano. Per quanto possibile, dovremo cogliere il nocciolo dell’esperienza per mezzo dei concetti imperfetti mediante cui essa viene espressa”[62]. Nelle tradizioni orientali mistiche l’esperienza religiosa non viene espressa come una relazione personale con Dio. Secondo la mistica advaita indù si tratta del risvegliarsi alla propria identità col Brahman.. Anche il buddhismo, con il suo atteggiamento agnostico, non teistico, non professa alcuna relazione personale con Dio, ma afferma un Assoluto impersonale; per questo motivo i buddhisti parlano di meditazione e contemplazione, ma non di preghiera. Nelle religioni monoteistiche, profetiche, si tratta, invece, nella fede di un rapporto interpersonale con Dio che prende l’iniziativa e l’uomo Gli risponde. “Perciò, mentre le religioni ‘mistiche’ asiatiche coltivano l’’instasi’ (la ricerca di un Assoluto sconosciuto ‘nella grotta del cuore’?, le loro controparti profetiche sono dominate dall’estasi, o incontro col Dio ‘totalmente altro’; le prime enfatizzano l’apofatismo (nirvana, sunyata), le seconde il catafatismo”[63]. Anche se in tali tradizioni religiose l’enunciazione dell’esperienza di Dio è limitata, quando essa [l’esperienza] è autentica è sempre il Dio rivelato in Gesù Cristo  che in maniera misteriosa, segreta, nascosta entra nella vita degli uomini e delle donne: “Se il concetto di Dio rimane incompleto, l’incontro interpersonale fra Dio e l’essere umano è però autentico, poiché è Dio a prendere l’iniziativa, ponendosi in attesa della risposta di fede da parte dell’essere umano”[64]. Secondo il gesuita belga quando gli esseri umani si rivolgono a un Assoluto c’è sempre la fede soprannaturale, non meramente naturale, perché ciò significa che l’Assoluto “indirizza e concede loro se stesso, entra per se stesso in gioco, in risposta ad una rivelazione divina personale […]”[65]. L’Autore rimarca che ogni esperienza religiosa rimanda all’autocomunicazione di Dio che si è realizza in pienezza con Gesù Cristo, perché Dio è uno solo (Shema Israel Dt 6,4; Mc 12,29). E’ sempre lo stesso Dio che compie le opere salvifiche e che parla nel segreto dei cuori degli uomini, è il ‘Totalmente Altro’ e il ‘Fondamento dell’essere’, il trascendente e l’immanente, il Padre di Gesù Cristo e il centro dell’io. Il movimento apofatico lo si riscontra nello stesso cristianesimo (catafatico), l’esperienza di Dio nella propria interiorità, come quella di S. Agostino e la teologia orientale. Dio si è rivelato “molte volte e in diversi modi” (Eb 1,1) e la sua autorivelazione è arrivata al culmine con Cristo. L’esperienza di Dio cosmica e psicologica da un lato, personale e storica dall’altra, la tradizione religiosa mistica e quella profetica, sono complementari poiché sgorgano da un’unica Sorgente che è il Dio trascendente e immanente.

La struttura trinitaria della rivelazione / L’autocomunicazione e autorivelazione di Dio è opera del Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo. Il Concilio Vaticano II ha ripreso il pensiero dei Padri della chiesa  (Giustino, Logos spermatikos) quando parla degli elementi di verità presenti nelle dottrine delle altre tradizioni religiose (NA 2), dei semi del verbo presenti in tali tradizioni (AG 11; 15). Anche se il Concilio non spiega il senso che dà a queste espressioni, secondo Dupuis si fa riferimento alle diversificate partecipazioni degli esseri umani al Logos di Dio (RM 28). Il Verbo, anche prima dell’incarnazione in Gesù, parlava all’umanità, attraverso i loro miti, simboli, riti e culture: “Nonostante il significato universale dell’incarnazione, bisogna lasciare lo spazio per un’azione anticipata del Verbo di Dio all’interno della storia, oltre che per un suo influsso permanente sotto altri simboli”[66]. La presenza attiva dello Spirito è universale, come evidenzia anche il magistero postconciliare; essa opera non soltanto nella vita delle persone ma anche nelle tradizioni religiose. Dopo l’incarnazione del Verbo, lo Spirito opera oltre i confini della chiesa, vivificando ogni cosa, attraverso la rivelazione cosmica. Ogni esperienza religiosa diventa incontro personale con Dio tramite lo Spirito: “Nell’ordine delle relazioni divino-umane, lo Spirito è, in ultima analisi, Dio reso personalmente presente all’essere umano – Dio percepito dall’essere umano nelle profondità del suo cuore”[67]. Lo Spirito opera nelle varie fasi della storia della salvezza, nelle varie alleanze concluse da Dio con la famiglia umana, per cui costituisce “l’agente immediato dell’approccio divino e del suo impegno per la storia umana. Potremmo dire pertanto che lo Spirito Santo presiede al destino divino dell’umanità, nel senso che ciascuna alleanza raggiunge l’umanità nello Spirito […]. Tale mediazione dello Spirito Santo nell’autorivelazione di Dio è operante anche nelle sacre scritture delle altre tradizioni religiose”[68].

La Rivelazione passata e presenteParola di Dio e libri sacri / Per rispondere all’interrogativo se è possibile riconoscere come parola di Dio i testi sacri delle altre tradizioni religiose, Dupuis parte dalla premessa dell’automanifestazione di Dio nella storia delle nazioni come sua rivelazione, anche se ordinata a quella cristocentrica. Occorre anche tener presente che il carisma profetico, inteso come interpretazione degli interventi divini nella storia, della volontà divina, non è prerogativa solo di Israele. L’AT, ad esempio, considera autentica profezia i quattro oracoli di Balaam (Nm 22-24) e l’antichità cristiana gli oracoli della Sibilla. Un caso emblematico è quello di Maometto che è un autentico profeta, anche se per la teologia cristiana, non tutto il Corano è parola di Dio, poiché in esso ci sono errori: “Visto nel suo contesto storico, il messaggio monoteistico di Maometto appare davvero come rivelazione divina mediata dal profeta. Questa rivelazione non è né perfetta né completa: ma non per questo è meno reale”[69]. Per quanto riguarda le sacre scritture della tradizione ebraico-cristiana, esse contengono memorie ed interpretazioni della rivelazione divina sotto uno speciale impulso divino, per cui Dio stesso è l’autore delle scritture. Gli autori umani, però,i compilatori che raccolsero le tradizioni orali o scritte dei libri sacri, hanno conservato in pieno le loro facoltà umane e sono effettivamente gli autori dei loro testi: “Piuttosto, lo status di autore deve essere attribuito sia a Dio che all’essere umano, sebbene a livelli differenti. La sacra scrittura è ‘la parola di Dio nelle parole degli esseri umani’”[70]. La teologia cristiana parla di ispirazione per definire il fatto che Dio e l’essere umano sono coautori di una stessa parola. Il teologo belga evidenzia però  il mite di tale teologia, perché non evidenzia abbastanza l’azione dello Spirito Santo. Karl Ranher ha evidenziato la dimensione ecclesiologica della Sacra Scrittura, che è un elemto costitutivo del mistero della chiesa, su cui si fonda la comunione ecclesiale. La chiesa è convocata, è costituita dalla parola di Dio. L’agiografo, tuttavia, non sempre è consapevole dell’azione dello Spirito santo: “Come sappiamo, il carisma dell’ispirazione scritturistica si estende ben al di là del gruppo degli autori cui sono attribuiti i vari libri: Costoro svolsero spesso la funzione di redattori, o curatori, di tradizioni orali o scritte ricevute da altri”[71]. Per risolvere la questione se i testi sacri delle altre tradizioni religiose vanno considerati parola di Dio, ispirata dallo Spirito Santo, dal momento che in essi ci sono i germi del Verbo, Dupuis ricorre all’argomentazione sulla rivelazione progressiva e al concetto analogico di ispirazione scritturale. L’esperienza religiosa dei sapienti e dei veggenti delle altre tradizioni religiose è dovuta allo Spirito che è entrato nella storia dei popoli e li ha guidati alla realizzazione del progetto divino. Il carattere sociale della sacre scritture delle nazioni è stato voluto da Dio, espressione di una tradizione in divenire, dovuta all’intervento della divina provvidenza. “Esse [le sacre scritture delle nazioni] contengono, nelle parole dei veggenti, parole di Dio agli esseri umani, in quanto riportano sì parole pronunciate segretamente dallo Spirito in cuori che sono umani, ma parole destinate dalla provvidenza divina a condurre altri esseri umani all’esperienza del medesimo Spirito”[72]. Dupuis chiarisce che quanto affermato non significa affatto che l’intero contenuto delle sacre scritture delle nazioni sia parola di Dio nelle parole di esseri umani, poiché nella compilazione dei testi sacri ci possono essere molti elementi che sono soltanto parola dell’uomo su Dio. L’Autore neppure intende sostenere il carattere definitivo del contenuti dei testi sacri delle nazioni: “Ancor meno stiamo suggerendo che le parole di Dio contenute nelle scritture delle nazioni rappresentino la parola decisiva di Dio all’umanità, come se Dio non avesse più nulla da dire che non abbia già detto tramite la mediazione dei profeti delle nazioni”[73]. La personale esperienza di Dio dei veggenti è manifestazione dell’apertura personale di Dio alle nazioni in base alla sua provvidenza. Tramite gli intermediari dovuti alla sua scelta, le sacre scritture delle nazioni sono la parola personale che Dio rivolge alle nazioni e questa parola in senso reale è ‘parola ispirata da Dio’, “a patto – rimarca l’Autore – che non si dia un’interpretazione troppo rigorosa del concetto e che si tenga sufficientemente conto dell’influsso cosmico dello Spirito Santo”[74]. Come affermato nella Dichiarazione finale del ‘Seminario di ricerca sulle scritture non bibliche’ tenuto a Bengalore, in India, all’11 al 17 settembre 1974, che dal punto di vista cristiano è possibile riconoscere nelle scritture dell’India l’opra dello Spirito Santo, manifestazione multiforme dell’unico mistero di Dio. In questi testi, ovviamente, insegnamenti e visioni del mondo, non hanno una ‘totale adeguatezza’. Tali scritture però hanno un’autorità religiosa complessiva, sono mezzi dati da Dio alle comunità per condurle a lui.

La pienezza della rivelazione in Gesù Cristo / La pienezza della rivelazione non è la parola scritta del NT, ma è tutta la persone e l’opera di Gesù Cristo arrivata al culmine con ul suo mistero pasquale. E’ questa la pienezza della rivelazione, la parola decisiva che Dio ha pronunciato al mondo. La DV, infatti, distingue tra la pienezza della rivelazione nell’evento cristologico (DV 4) e la sua trasmissione nel NT che è espressione della tradizione apostolica (DV 7), testimonianza, interpretazione ufficiale, memoriale autentico della rivelazione, che è normativo per la fede della chiesa di tutti i tempi. “Ma questo non significa che costituisca la pienezza della parola di Dio agli esseri umani. Il Nuovo Testamento rende esso stesso testimonianza che questo memoriale riporta soltanto in maniera incompleta l’evento di Gesù Cristo (cfr. Gv 21,25)”[75]. Gesù è personalmente la pienezza della rivelazione, non in senso quantitativo ma qualitativo, per la sua identità personale di Figlio di Dio. Dupuis chiarisce che la consapevolezza che Gesù aveva del suo rapporto con il Padre era una consapevolezza umana: “La sua coscienza umana di essere il Figlio implicava una conoscenza immediata del Padre suo, da lui chiamato col nome di Abbà. La sua rivelazione di Dio aveva perciò come punto di partenza un’esperienza umana unica e insuperabile. Questa esperienza non era in effetti che la trasposizione nella chiave della consapevolezza e della cognizione umana della vita stessa di Dio e delle relazioni trinitarie fra le persone”[76]. La rivelazione è giunta alla pienezza qualitativa in Gesù, il Figlio di incarnato visse umanamente la propria identità di Figlio di Dio, in una coscienza umana, ma questa rivelazione non è assoluta, è relativa, sottolinea l’Autore. La coscienza umana di Gesù, pur essendo quella del Figlio, è pur sempre una coscienza umana, e quindi relativa.Tale coscienza umana ha consentito al Figlio di Dio di tradurre in parole umane, il mistero di Dio, il mistero trinitario, che si è palesato ai discepoli a Pentecoste, quando il Signore effuse su di loro lo Spirito Santo ricevuto dal Padre (Gv 16,7; At 2,33). La pienezza della rivelazione cristologica, tuttavia, non costituisce un ostacolo per la prosecuzione dell’autorivelazione divina per mezzo dei profeti e dei sapienti di altre tradizioni religiose, come, ad esempio, è avvenuto con Maometto. La chiesa, nel frattempo, continua l’approfondimento della rivelazione ricevuta una volta per  tutte per mezzo del Figlio incarnato, contenuta nel NT che è normativo, lasciandosi guidare dallo Spirito che la conduce alla verità tutta intera (Gv 16,13), alla comprensione ecclesiale di Dio e del suo Cristo.

La rivelazione differenziata e complementare / La pienezza della rivelazione cristologica con la testimonianza ufficiale della comunità escatologica che è la chiesa, non esclude il fatto che tuttora continui una teologia ‘aperta’ della rivelazione e delle sacre scritture, nel senso della rivelazione di Dio attraverso le scritture delle nazioni. Dio, prima di rivolgersi ad Israele, ha parlato alle nazioni: “Le sacre scritture delle nazioni rappresentano dunque, assieme all’Antico e al Nuovo Testamento, varie maniere e forme in cui Dio si rivolge agli esseri umani nel processo continuo dell’autorivelazione divina loro indirizzata”[77]. L’autore belga parla di tre fasi dell’autorivelazione di Dio. “Nella prima fase, Dio concede ai cuori dei veggenti di ascoltare una parola segreta, di cui le sacre scritture delle tradizioni religiose contengono quanto meno delle tracce”[78]. Nella seconda fase Dio parla ufficialmente attraverso i profeti d’Israele e il Primo Testamento è la testimonianza di tale rivelazione di Dio e della risposta dell’uomo. La terza fase è quella cristologica, in cui converge la rivelazione delle fasi precedenti, poiché Gesù Cristo è la parola definitiva di Dio, del suo Verbo, come testimoniata nel NT. Le parole iniziali di Dio sono contenute nelle sacre scritture delle nazioni, che non hanno il carattere ufficiale dell’AT e il valore decisivo del NT, ma sono parole divine, poiché Dio le pronuncia tramite lo Spirito divino e i testi che contengono meritano di essere chiamate ‘sacre scritture’. Tradizionalmente tali locuzioni è stata applicata solo alle Scritture Ebraiche e Cristiane, in base a una definizione teologica restrittiva, sottolinea Dupuis,secondo il quale bisogna, invece, affermare una definizione più ampia che includa le scritture delle altre tradizioni religiose, per cui “Parola di Dio, sacra scrittura e ispirazione sono dunque concetti analogici, che si applicano in maniera differente alle varie fasi di una rivelazione progressiva, differenziata”[79]. La storia della salvezza è unica, con cui Dio guida personalmente l’umanità verso la sua meta ultima, è  dovuta all’azione dello Spirito Santo che si manifesta attraverso modalità diversificate. La rivelazione cosmica di Dio è la rivelazione personale di Dio alle nazioni e le loro sacre scritture contengono i semi del Verbo, sono sotto l’influsso universale dello Spirito. Ogni verità viene da Dio e deve essere onorata in quanto tale, qualunque sia il canale attraverso cui raggiunge un popolo. L’autorivelazione di Dio è progressiva e differenziata: “Si può dire persino- senza arrecare pregiudizio alla decisività dell’evento Cristo – che fra la rivelazione all’interno e quella all’esterno della tradizione ebraico-cristiana esiste una vera e propria complementarità. E si può dire, in maniera equivalente, che un’analoga complementarità è rinvenibile fra i libri sacri delle altre tradizioni religiose e il corpus biblico”[80].  Quasi in contraddizione con quanto affermato, Dupuis osserva che occorre però mettere in atto un serio discernimento per distinguere la verità dalla non verità e per il cristiano il criterio per il discernimento è Gesù Cristo che è la Verità (Gv 14,6). Tutto ciò che è in contraddizione con Cristo non può venire da Dio che ha inviato il Logos nel mondo. Nonostante tutto ciò, l’Autore ribadisce che come c’è complementarità fra il Primo e il Secondo Testamento, così avviene fra le Scritture bibliche e quelle non bibliche, che mettono in evidenza aspetti del mistero divino che non emergono neppure nel NT. Si tratta, ad esempio, del senso della maestà e della trascendenza divina, secondo il Corano, della sottomissione dell’essere umano alla santità dei decreti eterni di Dio; la presenza immanente di Dio nel mondo e nei recessi del cuore umano secondo l’induismo. La rivelazione di Dio contenuta nelle sacre scritture extrabiblica non vale solo per i seguaci di tali religioni, ma è parola di Dio anche per i cristiani, nonostante la pienezza e il vertice dell’evento rivelativo cristologico. Dupuis afferma arditamente che nella liturgia cristiana possono essere usate anche le sacre scritture delle altre religioni e precisa in merito: “Questo va fatto, invero, con prudenza e con rispetto per le differenti fasi della storia della rivelazione. Un altro requisito sarà il discernimento necessario ad evitare ogni ambiguità mediante una scelta responsabile dei testi, in armonia col mistero di Gesù Cristo in cui la liturgia della Parola raggiunge il suo culmine. A queste condizioni, potremo gioire della sorprendente scoperta di sbalorditive convergenze fra le parole di Dio e il Verbo divino in Gesù Cristo. Per quanto ciò possa apparire paradossale, un contatto prolungato con le scritture non bibliche può aiutare i cristiani – se praticato all’interno della loro fede – a scoprire in maggior profondità taluni aspetti del mistero divino che essi contemplano svelati loro in Gesù Cristo”[81]. E’ certamente paradossale, o meglio sconcertante, l’affermazione secondo cui in altre tradizioni religiose ci possa essere una rivelazione più profonda di quella cristologica!

 

Lucia Antinucci

 

[1] Ivi 69.

[2] Ivi 74-75.

[3] Ivi 75.

[4] Prima del Concilio, Jean Danielou, si poneva la questione della salvezza dei seguaci di altre religioni e aveva un atteggiamento guardingo nei confronti delle religioni.

[5] Poiché i tempi non erano ancora maturi, vennero pubblicate monografie di portata limitata che mettevano in luce problemi specifici. Cornelis e Maurier si soffermarono sui valori cristiani contenuti nelle altre religioni; De Lubac  e von Balthasar sul valore salvifico presente o assente in esse; Fries e Zaehner sulla loro relazione con il cristianesimo; Nys sulla salvezza senza Vangelo. Schlette, invece, evidenziò delle prospettive teologiche per costruire una teologia delle religioni in relazione alla storia della salvezza; K. Rahner, con il suo progetto di un’antropologia trascendentale, sviluppò la teologia del cristianesimo anonimo.

[6] Il primo studio di una certa ampiezza fu quello di V. Boublik, Teologia delle religioni, pubblicato nel 1973. Lo studio esaustivo non comprende soltanto la teologia delle religioni, ma anche, anzitutto, la teologia della religione, fra le quali c’è correlazione e distinzione.

[7] DUPUIS, Verso una teologia cristiana, 11.

[8] Ivi 13.

[9] Ivi.

[10] Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988 (orig. Inglese 1978).

[11] DUPUIS, Verso una teologia cristiana, 13-14.

[12] Ivi 14.

[13] Ivi.

[14] Ivi 15.

[15] Ivi.

[16] Ivi 16-17.

[17] Ivi 17.

[18] Ivi.

[19] Ivi 19.

[20] Ivi 19-20.

[21] Ivi 20.

[22] Ivi 21.

[23] Ivi.

[24] Ivi 22.

[25] Ivi.

[26] Ivi 29-30.

[27] Ivi 30.

[28] Ivi 285.

[29] Ivi 286.

[30] Ivi 287.

[31] Ivi 287-288.

[32] Ivi 289.

[33] Ivi 290.

[34] Ivi 293.

[35] Ivi 294.

[36] Ivi 295.

[37] Ivi.

[38] Ivi.

[39] Ivi 296.

[40] Ivi 297.

[41] Ivi 298.

[42] Ivi.

[43] Ivi 299.

[44] Ivi.

[45] Ivi 300.

[46] Ivi 301.

[47] Ivi 303.

[48] Ivi 304.

[49] Ivi 305.

[50] Ivi.

[51] Ivi 306.

[52] Ivi 307.

[53] Ivi 308.

[54] Ivi 312.

[55] Ivi 314.

[56] Ivi.

[57] Ivi 316.

[58] Ivi 317.

[59] Ivi 320.

[60] Ivi 321.

[61] Ivi 325.

[62] Ivi 326.

[63] Ivi.

[64] Ivi.

[65] Ivi 327.

[66] Ivi 330.

[67] Ivi.

[68] Ivi 331.

[69] Ivi 333.

[70] Ivi.

[71] Ivi 334.

[72] Ivi 335.

[73] Ivi.

[74] Ivi.

[75] Ivi 337.

[76] Ivi.

[77] Ivi 339.

[78] Ivi.

[79] Ivi 340.

[80] Ivi 340-341.

[81] Ivi 342-343.

SECONDA PARTE

Il NT E LE NAZIONI Gesù e i pagani // La missione storica di Gesù si è rivolta principalmente ed esclusivamente ad Israele. Egli è stato mandato “alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 15,24). Quando ha inviato i Dodici in missione, egli ordina loro di non andare fra i pagani, di non entrare nelle città dei Samaritani, ma di rivolgersi soprattutto “alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,5-6). Nonostante ciò, Gesù ha ammirato la fede del centurione: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande” (Mt 8,10). In tale occasione Gesù che molti, provenienti dall’oriente e dall’occidente, saranno ammessi al Regno dei cieli (Mt 8,11-12). L’ingresso degli ‘altri’ nel Regno non solo escatologico, ma si realizza già nella storia, come attesta la parabola del banchetto (Mt 22,1-14). “1 Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: 2 «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. 3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. 4 Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. 5 Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6 altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7 Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; 9 andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, 12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti»” (Lc 14,15 24).I l Vangelo di Marco fa pronunciare al centurione, ai piedi della croce, una formidabile professione di fede: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). Nell’escursione nella regione siro-fenicia, Gesù è venuto a contatto con persone non appartenenti al popolo eletto. Egli è sbalordito dalla fede dei pagani ed opera per loro miracoli di guarigione che gli richiedono. Gesù guarisce la figlia indemoniata di una donna cananea e si meraviglia per la fede di questa donna: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri” (Mt 15,28). Dupuis puntualizza che i miracoli che Gesù ha operato per gli stranieri, hanno lo stesso significato degli altri suoi miracoli. Essi significano che il Regno di Dio è presente, operante (Mt 11,4-6//). I miracoli di guarigione ed esorcismo a favore degli stranieri sono il segno che il Regno di Dio è operante, poiché ad esso vi accedono tutti coloro che hanno la fede e si convertono (Mc 1,15). Facendo ritorno dalla Giudea, probabilmente dopo aver celebrato la Pasqua a Gerusalemme, Gesù attraversa la Samarìa ed arriva alla città chiamata Sicar (Gv 4,1-6). Gv parla di Gesù che discorre con una donna, episodio che suscita lo stupore dei discepoli, poiché “I giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani” (Gv 4,9). I Samaritani, infatti, erano considerati stranieri, semipagani. Gesù, invece, si stupisce della disponibilità alla fede della donna samaritana, della sua sete di ‘acqua viva’ (Gv 4,7-15). Il culto samaritano sul monte Garizim, contrapposto a quello di Gerusalemme, non viene rigettato da Gesù, ed annuncia alla donna che “è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre (…)”, poiché è giunto il momento in cui “i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,20-23). Il culto, sia giudaico che straniero, viene superato dall’adorazione spirituale. Gesù, nella sua parabola, contrappone – non a caso – l’atteggiamento del buon samaritano a quello del sacerdote e del levita (Lc 10,29-37). “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto” (Lc 10,30). Il sacerdote e il levita passarono oltre, mentre il samaritano ebbe compassione di lui, si prese cura di lui (Lc 10,33-35). Il vangelo si sofferma sui dettagli per evidenziare cosa ha implicato il prendersi cura dell’uomo ferito. La parabola conclude che è stato il samaritano a farsi prossimo dell’uomo incappato nei briganti (Lc 10,36). Gesù lo popone come modello ai giudei: “Và e anche tu fa lo stesso” (Lc 10,37). Per Gesù, la fede salvifica è operante anche nei pagani e negli stranieri, che fin d’ora possono appartenere al Regno di Dio, la cui chiamata si estende oltre i confini del popolo eletto. Tutto ciò sembra in contraddizione con il fatto che Gesù manda i suoi discepoli alle pecore perdute d’Israele. Secondo Jeremias, la chiamata d’Israele e l’incorporazione dei pani nel Regno, sono eventi successivi all’interno dell’unica storia salvifica. Gesù, avendo guarito il figlio del centurione, annuncia che nella fase escatologica del Regno di Dio ci sarà l’ingresso dei pagani, come manifestazione dell’amore gratuito di Dio, della sua azione libera. “Il ‘Regno escatologico’ – rimarca il gesuita belga – che si spalanca ai gentili non va però inteso come se fosse rinviato alla fine dei tempi. Annunciato da Gesù all’inizio della sua predicazione (Mc 1,15), iniziata la sua irruzione nel corso del ministero pubblico (Lc 4,21; Mt 12,28), esso è stabilito da Dio sulla terra nella morte e resurrezione di Gesù (cf Lc 22,16), per essere annunciato dalla chiesa (Mc 16,15…) fino a che non consegua la sua pienezza (Mt 6,10…). Il Regno di Dio cui hanno accesso le nazioni è allo stesso tempo storico ed escatologico”[1].

La chiesa apostolica e le nazioni// Dopo la resurrezione la chiesa ha annunciato che con Gesù è giunto il Regno di Dio (Mc 16,15). La chiesa apostolica, però, solo gradualmente è arrivata alla consapevolezza dell’universalità della propria missione. Dopo la predicazione ai giudei, la buona notizia del Regno, progressivamente, si è diffusa nel mondo giudeo-ellenistico e poi ai greci. Paolo, Barnaba e la chiesa di Antiochia hanno avuto un ruolo determinate nella diffusione del vangelo al di fuori del territorio di Israele. Il NT attesta l’atteggiamento complesso, ambivalente della chiesa apostolica nei confronti dei pagani. Il primo passo venne compiuto da Pietro, quando predicò alla famiglia del centurione Cornelio a Cesarea (At 10,1-44). Luca nota che mentre annunciava la buona notizia, “lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso” (At 10,44). Nel fatto che lo Spirito venisse effuso anche sui pagani (At 10,45) dopo l’annuncio kerygmatico, Pietro ha colto il segno della loro chiamata al Regno di Dio, che anche i gentili possono essere accetti a Dio: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35). L’apertura ai pagani con Paolo si consolida, ma i dati del NT sono complessi. In Rm 1-3 Paolo esprime il suo pessimismo nei confronti dei pagani. L’ira di Dio ricadrà sui pagani, poiché non hanno riconosciuto la sua rivelazione permanente attraverso il cosmo (Rm 1,18-32). Gli ebrei, però, incorrono nella medesima condanna, nonostante i doni particolari che hanno ricevuto (Rm 2-3). La situazione dei gentili e degli ebrei è in effetti parallela, nonostante la diversità dei doni ricevuti, poiché tutti saranno giudicati in base alle loro opere; non ci sono privilegi. “Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo la legge, sono legge a se stessi: essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori (…)” (Rm 2,14-15). I cristiani, secondo Paolo, godono di una posizione privilegiata. La fede abolisce per decreto divino il valore di tutte le religioni (Rm 6,6). Coloro che partecipano in Cristo agli ultimi tempi (2Cor 5,17) si trovano in una situazione privilegiata, che annulla sia la condizione delle nazioni che quella d’Israele. Quella di Paolo però non è una negazione assoluta [cf discorso su Israele]. La predicazione di Paolo a Listra (At 14,8-18) e poi davanti all’Areopago di Atene (At 17,22-31) testimonia un atteggiamento di apertura verso le genti, verso la loro religiosità. A Listra Paolo percepì che l’uomo paralizzato che lo ascoltava “aveva fede di essere risanato” e lo guarì (At 14,8-11). Parlando della religione dei greci, ormai soppiantata dalla fede in Cristo, Paolo osserva: “nelle generazioni passate, [Dio] ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dare prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori” (At 14,16-17). Questo insegnamento corrisponde alla rivelazione di Dio attraverso il cosmo di cui si parla in Rm 1,18-32, alla manifestazione di Dio attraverso la natura, che è già rivelazione divina.

Paolo, nel suo discorso ad Atene (At 17,22-31) loda lo spirito religioso dei greci e annuncia loro il Dio ignoto che essi adorano senza conoscere [si discute della paternità paolina o lucana del discorso]. Il messaggio del discorso è che le religioni delle nazioni che sono prive di un loro valore e trovano in Cristo il loro compimento, sono una preparazione positiva alla fede cristiana. “Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (At 17,22-23). Paolo parla agli ateniesi dell’unico Dio che ha fatto il mondo e ogni cosa in esso contenuta, “dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa”; inoltre “creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni” (At 17,25-27). Questo discorso di Paolo si ricollega con Rm 1 in cui egli parla dell’autorivelazione di Dio a tutti i popoli attraverso il cosmo e per mezzo della quale potevano riconoscerlo. In questo discorso, però, sottolinea anche un altro aspetto, cioè la vicinanza di Dio ad ogni popolo: “Egli infatti non è lontano da ciascuno di noi” (At 17,27). A riprova della sua affermazione, Paolo cita un’espressione del poeta greco Epimenide (VI sec a.C.): “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”. Paolo cita anche il poeta greco Arato (III sec a.C.) che aveva scritto: “ Poiché di lui stirpe noi siamo” (At 17,28). Paolo ricorre ad un espediente retorico e si appella anche alla buona volontà, ed in questo modo riconosce nella tradizione greca (platonica e stoica) una genuina ricerca di Dio. Il dialogo con gli ateniesi, però, s’interrompe bruscamente quando Paolo parla della resurrezione di Gesù (At 17,32). L’approccio di Paolo non è stato un fallimento totale, poiché Luca aggiunge: “alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell’Areopago, una donna di nome Damaris e altri con loro” At 17,34). Dupuis cita Legrand, il quale rifacendosi a At 17 e Rm 1, evidenzia due prospettive, assi, quello della continuità e della discontinuità. L’asse della discontinuità sottolinea la novità radicale di Cristo e della sua resurrezione a cui si contrappone il mondo antico immerso nell’oscurità e schiavo del peccato. L’asse della continuità, invece, evidenzia l’omogeneità della salvezza che si dispiega secondo il disegno di Dio. La religione dei gentili, il mondo greco, secondo At 17, attende il Dio ignoto ed è predisposto ad incontrarlo (cf 72s).

Il teologo belga afferma che bisogna fare un altro passo per quanto riguarda la religione dei gentili nel NT. Occorre sviluppare un discorso più ampio partendo da tutta la storia della salvezza, privilegiando il prologo di Gv. Qui emerge che tutta la storia della salvezza, a partire dalla creazione, è realizzata da Dio per mezzo del Logos. Questa storia è ordinata fin dall’inizio (Gv 1,1) all’incarnazione del Verbo nell’umanità (Gv 1,14). Già da molto prima dell’incarnazione il Verbo era presente nel mondo come fonte di vita (Gv 1,4), come “la luce vera che illumina ogni uomo, venendo nel mondo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui” (Gv 1,9). Si tratta certamente della presenza attiva del Logos non ancora incarnato in tutta la storia dell’umanità. Secondo Giovanni, l’incarnazione del Verbo costituisce il culmine della manifestazione di Dio attraverso il Logos che abbraccia tutta la storia dell’umanità: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). La teologia giovannea del Logos divino si ricollega alla Parola di Dio e alla Sapienza divina dell’AT; come già rilevato, rappresentano l’automanifestazione di Dio, con azioni e parole, nella storia dell’umanità. Gv vede in Gesù il culmine della manifestazione universale di Dio per mezzo del Logos. C’è però una novità: con la sua incarnazione il Logos è rivelato come una persona distinta da Dio, ma che “in principio” (Gv 1,1) era partecipe con lui della vita divina. E’ entrato poi nella storia umana, nella pienezza dei tempi, assumendo una autentica condizione umana. Dupuis conclude che non “vi può essere il benché minimo dubbio che la teologia ‘Logos-Sapienza’ di Giovanni, incorporando al proprio interno l’automanifestazione universale di Dio nel corso della storia, favorisca la più ampia prospettiva neotestamentaria sull’universale coinvolgimento di Dio nelle vicende dell’umanità. E’ questo coinvolgimento universale e continuativo di Dio nella storia umana che rende possibile un approccio positivo alle religioni del mondo”[2]. L’Autore chiarisce che AT e NT non erano interessati alle questioni di teologia delle religioni come risposta all’attuale contesto del pluralismo religioso.“La parola rivelata era principalmente preoccupata di sottolineare, nell’AT, la situazione privilegiata di Israele, e nel Nuovo quella dei cristiani; il confronto faceva svanire sullo sfondo le altre religioni: Eppure, nonostante l’ambiguità determinata dalla compresenza di dati positivi e negativi, nei libri sacri non mancano le tracce di un approccio positivo alle religioni, soprattutto nella fede biblica nel coinvolgimento universale di Dio in un dialogo di salvezza con l’umanità”[3].

EXCURSUS STORICO /VERSO LA NUOVA TEOLOGIA DELLE RELIGIONI – L’Autore belga nel suo excursus storico sull’assioma (cf 115-147) ‘Fuori della chiesa non c’è salvezza’, che risale ai padri della chiesa [ Cipriano, ma ci sono precedenti già in Ignazio di Antiochia] fa riferimento anche al pensiero, con una riserva critica, di Niccolò Cusano (1401-1461), alla sua opera De pace fidei (1454). Il Cusano parla del superamento della teologia del compimento in Cristo delle religioni storiche. Il Cusano afferma che bisogna parlare di ‘finalizzazione intrinseca’; le molteplici religioni conducono alla Verità trascendente, che in esse più o meno si riflette pienamente e che tutte le riassume. La pienezza nel cristianesimo si compirà solo con l’evento escatologico (cf pp144-147). Per Dupuis “la posizione teologica di Niccolò appare indifendibile, si può tuttavia pensare che egli abbia fatto da battistrada  […]. La sua visione teologica fu probabilmente un tentativo incompiuto di proporre nel momento meno opportuno una convergenza universale delle religioni in Cristo, il punto-omega” (147). Dupuis preferisce parlare di complementarità fra le religioni del mondo e il cristianesimo. Le premesse per una teologia delle religioni, anche se ci furono tentativi precedenti,  vengono delineate solo a partire dal Concilio. Negli anni ’60 (del XX secolo)[4] ci fu tutta una letteratura sul ruolo positivo delle altre religioni per la salvezza dei loro membri[5], solo negli anni ’70, a causa della crescente[6] interazioni tra persone di fedi diverse, ci fu un approfondimento decisivo, mettendo in crisi il cristocentrismo. La teologia delle religioni è stata favorita anche dallo sviluppo delle scienze della religione (storia delle religioni, fenomenologia della religione, psicologia della religione, sociologia religiosa) e dalla filosofia della religione: “Ciascuna scienza della religione ha il suo proprio metodo che la distingue dalle altre. Caratteristico della teologia è il fatto che la sua ermeneutica della religione e delle religioni e delle religioni fa formalmente assegnamento sulla rivelazione cristiana contenuta nella Parola di Dio e interpretata dalla tradizione vivente della chiesa”[7]. La teologia della religione si fonda sulla rivelazione biblica e sulla tradizione ecclesiale. E’ Quindi ben diversa dalle scienze della religione, ha un proprio statuto epistemologico.

Una teologia cristiana – Dupuis sottolinea che la sua è una teologia cristiana, non una teologia sincretistica delle religioni come tentano di fare alcuni: “Ogni teologia è, in altri termini, ‘confessionale, nel senso migliore del termine; oppure non è affatto. L’attributo ‘confessionale’ indica qui l’adesione di fede della persona o della comunità religiosa che è il soggetto del fare teologia”[8]. Pur essendo confessionale, però, tale teologia, sottolinea Dupuis, non è provinciale, campanilistica, ma universale: “E’ proprio del dialogo interreligioso nelle sue varie forme scoprire tutto ciò che hanno che i cristiani e i non cristiani possono dire e fare in comune nonostante le loro irriducibili differenze, ed è parte della buona volontà ecumenica fornire l’impulso per questo”[9]. Riprendendo Panikkar[10], l’Autore belga osserva che le fedi religiose differiscono, e anche le rispettive teologie. Non si tratta di fare un’operazione di omologazione, di appianamento delle differenze alla ricerca di un denominatore comune, ma di “schietta ammissione della pluralità e della diversità delle credenze e la reciproca accettazione degli altri proprio nella loro alterità”[11]. Non si tratta di operare la reciproca assimilazione tra le fedi religiose, ma la loro compenetrazione nella diversità, l’apertura reciproca dialogica, poiché “L’adesione personale alla propria fede e l’apertura alla fede degli altri non sono necessariamente reciprocamente esclusive: dovrebbero invece crescere proporzionalmente l’una rispetto all’altra”[12]. La teologia cristiana delle religioni si deve confrontare anche con le altre teologie confessionali delle religioni, ad esempio indù, islamica, ebraica. Un confronto può essere quello della cristologia con la concezione islamica e coranica di Gesù e le varie interpretazioni della sua persona in autori del Rinascimento indù. “Nonostante le divergenze o addirittura le contraddizioni esistenti fra queste interpretazioni del pluralismo religioso – e in particolare della cristologia – e quelle derivanti dalla fede cristiana, le varie teologie confessionali delle religioni vanno viste positivamente come probabili piattaforme ed utili punti di partenza per la conversazione e il dialogo interreligioso”[13].

Una teologia cristiana del pluralismo religioso – La teologia della religione argomenta su cos’è la religione”e tenta di interpretare, alla luce della fede cristiana, l’esperienza religiosa universale dell’umanità; essa studia inoltre la relazione fra rivelazione e fede, fede e religione, fede e salvezza. Tuttavia, siccome la natura dell’essere umano in quanto spirito incarnato e persona in società fa sì che l’esperienza religiosa sia naturalmente inserita in una tradizione religiosa fatta di professione di fede, culto e codice morale, la teologia della religione diventa a sua volta una teologia delle religioni. La teologia cristiana delle religioni studia le varie tradizioni nel contesto della storia della salvezza e nella loro relazione col mistero di Gesù Cristo e con la chiesa cristiana”[14]. La teologia della religione corre spesso il rischio di essere astratta, mentre il teologo gesuita preferisce evidenziare interrogativi che riguardano la realtà concreta dell’esperienza religiosa, come essa è vissuta all’interno di tradizioni religiose, interpretandola alla luce del mistero di Cristo, della fede cristiana. Dupuis rimarca che la sua teologia si interroga sul vissuto (teologia situata, dal basso). Egli cerca di rispondere ai seguenti interrogativi: “in che modo le circostanze in cui le persone vivono la loro vita religiosa rientrano nel disegno di Dio per la salvezza dell’umanità? Quale significato possiede agli occhi di Dio – nella misura in cui possiamo pretendere di penetrarne i segreti – la realtà del pluralismo religioso del mondo, di cui l’umanità – e il cristianesimo al suo interno – ha oggi acquisito una nuova coscienza?”[15] L’interrogativo che si pone Dupuis è se sia possibile sviluppare una teologia delle religioni nel loro complesso oppure se non sia preferibile una teologia delle religioni che le analizza individualmente. In questo caso però, non bisogna soffermarsi sulle religioni mondiali, ma anche su quelle tradizionali dell’Africa, delle Americhe, dell’Asia e dell’Oceania. Bisogna avere cautela anche nella distinzione tra le religioni monoteistiche o profetiche, le religioni del libro, cioè ebraismo, cristianesimo e islam e le religioni orientali o mistiche (particolarmente induismo e buddhismo). Anche le religioni orientali hanno elementi profetici; analogamente elementi mistici si ritrovano anche nelle religioni politeistiche: “Il merito della distinzione – osserva l’Autore belga – è quello di sottolineare il fondamento comune delle tre religioni del libro nella fede di Abramo, riconoscendo d’altra parte la ‘sapienza’ o la ‘gnosi’ caratteristiche delle tradizioni orientali”[16]. Anche se la relazione tra ebraismo e cristianesimo è unica, tuttavia, anche l’islam ha delle affinità con il cristianesimo, in quanto risale alla fede di Abramo, per cui le tre religioni monoteistiche costituiscono una famiglia di religioni. Anche le religioni orientali, però, hanno legami tra di loro. Nonostante il ruolo insostituibile delle teologie cristiane delle varie religioni, di cui quella più affermata è la teologia dell’ebraismo, occorre una teologia generale delle religioni che le abbracci tutte “e che domandi in che modo le altre tradizioni religiose – e le loro parti costitutive – entrano in relazione con il mistero cristiano: con l’evento Gesù Cristo, che è al cuore della fede cristiana, e subordinatamente con la chiesa cristiana costituita da Gesù Cristo come ‘sacramento universale di salvezza’ (LG 48) nel mondo”[17].Questa teologia generale delle religioni, secondo l’Autore, deve precedere quella delle teologie particolari, che si occupano della relazione delle varie tradizioni religiose con la il mistero di Cristo. La teologia generale, invece, analizza degli interrogativi che riguardano tutte le religioni.

La teologia generale delle religioni, però, deve considerare anche le distinzioni fra le varie tradizioni religiose: “Infatti, […], se tutte le religioni rientrano nel disegno complessivo di Dio per la salvezza dell’umanità, non tutte hanno lo stesso posto e la medesima rilevanza all’interno del dispiegamento organico di questo disegno nella storia”[18]. Dupuis sottolinea che bisogna sviluppare particolarmente la teologia della’conversazione’ con l’ebraismo e poi con l’islam e con le varie tradizioni orientali. Recentemente si è sviluppato la teologia dell’incontro fra buddhismo e cristianesimo, che evidenzia il parallelo tra la figura del Buddha (Siddarta Gautama) e Gesù il Cristo. Teologia del pluralismo religioso – Il teologo belga parla di pluralismo religioso e non di pluralismo delle religioni, prospettiva questa ormai superata nell’ambito della teologia delle religioni: “La nuova prospettiva non è più limitata al problema della ‘salvezza’ dei membri delle altre tradizioni religiose, e nemmeno al ruolo di tali tradizioni nella salvezza dei loro membri. Essa ricerca più in profondità, alla luce della fede cristiana, il significato che la pluralità delle fedi viventi e delle tradizioni religiose da cui siamo circondati riveste all’interno del disegno di Dio per l’umanità. In tale disegno le tradizioni religiose del mondo sono forse destinate ad una convergenza universale? Dove, quando e in che modo?”[19]. La teologia delle religioni classica considera il pluralismo religioso come a una realtà storica, ovvia (de facto); esso invece ha una sua ragion d’essere (pluralismo de iure o ‘in linea di principio’). Secondo la nuova prospettiva non basta più interrogarsi sul ruolo che il cristianesimo possa attribuire alle altre tradizioni storiche, “ma nel cercare la radice del pluralismo stesso, il suo significato nel disegno di Dio per l’umanità, la possibilità di una convergenza delle varie tradizioni nel pieno rispetto delle loro differenze, e il loro mutuo arricchimento e la loro fecondazione reciproca”[20]. La teologia delle religioni, diventa in tal mondo una teologia interreligiosa.

Verso la nuova teologia del pluralismo – La nuova prospettiva non deve ignorare la teologia del passato, ma deve superare le argomentazioni ormai non più aderenti alla realtà attuale “e lasciarsi alle spalle gli atteggiamenti negativi che hanno caratterizzato secoli di relazioni cristiane con altre tradizioni”[21]. La teologia del pluralismo religioso deve essere ancorata anche alla tradizione vivente della chiesa, che è una tradizione del passato, rivisitata alla luce della Parola rivelata e della tradizione postbiblica, per poter arrivare a una valutazione positiva del pluralismo, altrimenti rimane ancorata ad una valutazione di disprezzo. Bisogna soprattutto assumere la svolta del Concilio: “L’importanza del nuovo atteggiamento prodotto dal Concilio non è stato forse ancora pienamente apprezzato; né le sue implicazioni teologiche sono state ancora adeguatamente esplicitate. Se anche in quest’ambito resta doverosa una certa continuità con il passato, è altrettanto vero che si richiede una chiara discontinuità, equivalente ad una vera e propria conversione”[22]. L’introduzione alla teologia delle religioni deve tener conto dei profondi cambiamenti che ci sono stati, da cui emerge la correlazione tra l’atteggiamento verso le varie religioni e la valutazione teologica di esse. Si è passati, rileva l’Autore belga, dall’opposizione dialettica, retaggio di un lungo passato, ad un atteggiamento di tolleranza, fino ad arrivare “alla conversazione dialogica dei tempi recenti. Parallelamente, la valutazione teologica è passata dal disprezzo e dal rifiuto che caratterizzano gran parte della tradizione cristiana ad una prudente accettazione ed apertura, fino ad una valutazione favorevole ed al riconoscimento dei valori positivi”[23]. Nel primo quarto del XX secolo c’è stato ancora un atteggiamento apologetico e negativo nei confronti delle altre religioni e la teologia si interrogava sulla questione della salvezza per i membri delle altre religioni, cioè la salvezza degli infedeli. Gli anni che portarono al Concilio registrarono un grande cambiamento: “Nel corso di questo secondo periodo, l’approccio si fece meno difensivo e più positivo: sull’onda del Concilio, la teologia divenne più affermativa e ottimistica riguardo alla salvezza dei membri delle altre religioni; le stesse tradizioni giunsero gradualmente ad essere considerate portatrici di valori positivi, o addirittura caratterizzate da un ruolo positivo nella salvezza dei loro membri”[24]. Il terzo periodo, cominciato con gli inizi degli anni ’80 del XX secolo, è quello che ha portato alla nuova teologia delle religioni, in cui non si tratta più di argomentare attorno alla salvezza di coloro che seguono altre tradizioni religiose, ma di investigare il significato della pluralità delle tradizioni religiose all’interno della storia della salvezza, cioè della relazione di Dio con l’umanità. Nonostante l’evoluzione, l’esclusivismo teologico continua a persistere in certi ambienti (ad esempio con H. van Straelen, che è stato missionario in Giappone) e c’è un vivace dibattito con “un ampio ventaglio di opinioni, ch oscillano dall’integralismo teologico al liberalismo eclettico”[25].

QUESTIONI DI METODO – La nuova teologia delle religioni opera una sintesi fra il metodo deduttivo, che non mette da parte la fede personale, e quello induttivo, dell’incontro con l’altro nella sua concreta esperienza religiosa, adottando il principio della contestualizzazione e del modello teologico ermeneutico. La teologia delle religioni non consiste in un nuovo argomento o soggetto su cui riflettere teologicamente, come la teologia politica o la teologia dell’ecologia: “Tuttavia, quando si tratta della ‘teologia delle religioni’ o del ‘pluralismo interreligioso’, il genitivo non va inteso in senso oggettivo, come se si riferisse ad un oggetto cui riflettere teologicamente. Più che come nuovo tema per la riflessione teologica, la teologia delle religioni va vista come un nuovo modo di fare teologia in un contesto interreligioso: un nuovo metodo per fare teologia in una situazione di pluralismo religioso. Questa teologia ermeneutica ‘interreligiosa’ è un invito ad allargare l’orizzonte del discorso teologico; essa dovrebbe condurre, […], a scoprire più in profondità le dimensione cosmiche del mistero di Dio, di Gesù Cristo e dello Spirito divino”[26]. Dupuis vede un’analogia fra la teologia del pluralismo religioso e la teologia della liberazione, che parte dalla prassi della liberazione socio-politica, per poi sviluppare una riflessione teologica con un una nuova metodologia. La teologia del pluralismo religioso parte dal dialogo interreligioso, “sulla base della quale essa va in cerca di un’interpretazione cristiana della realtà religiosa plurale che la circonda. Anch’essa si presenta come un nuovo modo di fare teologia”[27]. Tale teologia, riflessione sul dialogo e nel dialogo,  dovrebbe interessare particolarmente le chiese dell’Asia e dell’Africa che vivono in un contesto multi religioso. In questi contesti, a causa delle diffusa povertà, accanto al dialogo interreligioso, bisogna promuovere anche una prassi di liberazione; la collaborazione interreligiosa deve portare assieme all’impegno per la liberazione socio-politica, cominciando dalla critica nei confronti della autorità religiose, anche cristiane, quando sono conniventi con sistemi politici ingiusti ed oppressivi.

 ‘Storia ed alleanze: una e molte’  – La storia della salvezza manifesta unità e pluralità, una varietà di automanifestazioni di Dio e l’unità del progetto divino prestabilito. “Il disegno di Dio per l’umanità non è né monolitico né frammentario, ma allo stesso tempo unico e complesso: unico ed universale in vista della volontà di Dio di entrare in comunicazione con l’intera razza umana, indipendentemente dalle situazioni e dalle circostanze storiche in cui vengono a trovarsi gli uomini e le donne; molteplice e variegato nelle forme concrete che l’unitario disegno divino assume nel suo rivelarsi storicamente”[28].  Il concetto di ‘storia della salvezza’ è piuttosto recente, ma nella rivelazione biblica emerge chiaramente da sempre la dimensione storico-salvifica da cui deriva l’autocomprensione del cristianesimo e la comprensione del suo rapporto con la storia del mondo in generale e la storia della religione in particolare. La storia della salvezza consente un discorso positivo sulle altre religioni; permette di cogliere il loro significato specifico all’interno delle relazioni tra Dio e l’umanità, non come fenomeno transeunte ma permanente. Per Dupuis va superato il discorso classico delle religioni come ombra superata dall’automanifestazione biblica di Dio. Le varie religioni non hanno solo una funzione propedeutica ma un significato permanente nell’universale disegno salvifico di Dio per l’umanità. L’Autore belga sviluppa la sua riflessività su tali questioni situandosi nella prospettiva della cristologia trinitaria che costituisce il modello integrale per la teologia del pluralismo religioso, per l’attività universale del Verbo di Dio e dello Spirito di Dio, “nel corso della storia umana, come mezzo dei rapporti personali di Dio con gli esseri umani indipendentemente dalla loro concreta collocazione nella storia”[29]. L’Autore osserva che l’azione universale del Logos e dello Spirito di Dio va sempre considerata nella sua connessione con l’evento storico Gesù Cristo. Le alleanze precristiane, le alleanze che Dio a più riprese ha stipulato con l’umanità e che hanno un’efficacia permanente, vanno sempre considerate nella prospettiva del modello cristologico-trinitario secondo la teologia cristiana. Dupuis analizza il modello ciclico o circolare, lineare e a spirale, di leggere la storia. Secondo Mircea Eliade il modello ciclico è tipico delle culture primitive e si basa sul ritmo ricorrente del cosmo e delle cose viventi. Non ci sono trasformazioni, non si produce nulla di nuovo nel mondo, perché tutto è la ripetizione degli archetipi primordiali. Il modello ciclico lo si ritrova anche nella tradizione ebraico-cristiana, che ha portato ad una visione pessimistica, tipica della filosofia greca. La vita è destinata alla morte e la salvezza consiste nella fuga dalla prigione del corpo.

Il modello a spirale della filosofia indù e delle altre filosofie orientali condivide l’idea di un ritorno senza scopo. I cicli si compongono di vari periodi, ma si susseguono senza un senso definito, “ciascun ciclo cede il passo al seguente in una successione indefinita”[30], e la storia non sembra possedere mai uno scopo preciso, una meta ultima. Il modello lineare si contrappone ai due predenti ed i primi a elaborarlo, afferma Mircea Eliade, furono gli ebrei. La storia procede in modo creativo verso una meta, verso il compimento. “Il tempo è qui strutturato, dinamico, e si muove in avanti; gli eventi hanno significato e valore in quanto tali, in relazione gli uni agli altri e, soprattutto, in relazione alla meta finale della totalità della storia”[31]. Il popolo d’Israele testimonia la fede nell’intervento divino nelle della sua storia, sia dolorose che gioiose, nelle sue sconfitte, punizione per il peccato, e vittorie, liberazione, compassione di Dio (messaggio dei profeti). In base all’esperienza profetica e messianica, Israele è giunto a una nuova interpretazione degli avvenimenti storici, intesi come presenza attiva del Signore, sua teofania. La concezione lineare della storia è stata ripresa e sviluppata dal cristianesimo primitivo e della Tradizione e costituisce una novità assoluta nei confronti della concezione orientale e greca. Il cristianesimo e l’ebraismo sono le religioni dell’uomo moderno, l’uomo storico dotato di libertà personale. La storia è fatta di un passato, un presente e un futuro, manifestazione dell’opera del Dio provvidente, come avviene particolarmente con la liturgia: “Il passato continuava a vivere nel presente che aveva prodotto; e, nel presente, il futuro esisteva già nella speranza. Il culto aveva tre dimensioni: la celebrazione dell’essere-di-Dio-con il suo popolo oggi, come ‘memoriale’ di un evento proto tipico permanente di salvezza, e come anticipazione prolettica del tempo ultimo del compimento finale. Nel caso dell’ebraismo come in quello del cristianesimo, a metà della traiettoria lineare stava un evento prototipico di salvezza che imprimeva direzione e movimento all’intero processo, sia nel passato che nel futuro”[32]. Per gli ebrei l’evento prototipico è l’esodo,in tutta la sua complessità, cioè l’autorivelazione di Dio a Mosè, la liberazione dall’Egitto, l’attraversamento del deserto, l’alleanza e la Legge sul monte Sinai. Per la Chiesa apostolica, per il cristianesimo, l’evento centrale, fondante, prototipico, che dà nuovo senso alla storia, è la vicenda del Cristo che culmina nel suo mistero pasquale. Oscar Cullman (Essere e il tempo, Il Mulino, Bologna 1965) ha sottolineato come tutti gli eventi della storia della salvezza, passati, presenti e futuri, rinviano al’evento Cristo, chiave della storia, per “la particolare densità di significato attribuitagli dalla fede cristiana in quanto irruzione personale di Dio nella storia umana”[33].

Dio e i popoli nella storiaStoria della salvezza, particolare o universale? /  Dupuis asserisce che si deve categoricamente rifiutare l’affermazione secondo cui l storia della salvezza nasca con l vocazione di Abramo, poiché in questo modo viene svalutato in modo aprioristico il coinvolgimento di Dio nella storia dell’umanità, prima e al di fuori della tradizione biblica. In questo modo la storia della salvezza riguarda la discendenza spirituale del patriarca (Rm 4,11). Nella teologia contemporanea alla questione vengono date risposte meno negative (per K. Barth le altre religioni sono soltanto incredulità / le religioni sono vani tentativi di autogiustificazione). Jean Danielou (Il mistero della salvezza delle nazioni, Morcelliana, Brescia 1954) parla  della religione cosmica che precede quella abramitica che appartiene già all’ordine soprannaturale. Dio, però, non si è manifestato personalmente per mezzo di essa, poiché la sua auto rivelazione avviene solo per mezzo del cosmo e costituisce la ‘preistoria della salvezza’, cioè la conoscenza naturale accordata da Dio per mezzo dell’ordine della creazione, aspirazione naturale verso Dio che non è coinvolto personalmente nelle vicende dei popoli. Anche Hans Urs von Balthasar (Teologia della storia. Abbozzo, Morcelliana, Brascia 1969) definisce le altre religioni ‘naturali’. Solo le religioni della rivelazione (ebraismo e cristianesimo) manifestano il volgersi di Dio all’umanità, la sua autodonazione attraverso la storia e la sua Parola. Secondo Dupuis nell’enciclica Ecclesiam suam (1964) di Paolo VI si afferma che la storia della salvezza coincide con la storia del mondo, che agli occhi della fede si rivela come un dialogo di salvezza che Dio ha deliberatamente intrapreso con l’umanità sin dalla creazione e continua nei secoli fino al compimento escatologico. Secondo l’autore belga è da rifiutare anche l’idea della preistoria della salvezza che separa salvezza e rivelazione, e che ha dato origine a due correnti di pensiero: “Secondo la prima, tale preistoria implicava una qualche ‘rivelazione’ naturale di Dio per mezzo della realtà creata, rimanendo tuttavia impenetrabile alla salvezza; secondo l’altra visione, la ‘salvezza’ divina era possibile, durante tale pre-istoria, a singoli individui, ma l’automanifestazione divina o ‘rivelazione (soprannaturale) sarebbe rimasta celata nel futuro fino alla rivelazione di Dio ad Abramo”[34]. Dupuis sottolinea, invece, che storia della salvezza e storia del mondo coincidono, anche se l’oggetto formale è diverso. Hanno la stessa estensione poiché la storia umana, sin dall’inizio è la storia di Dio con l’umanità, che implica l’autorivelazione di Dio e la salvezza, in ogni suo momento. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi (1Tm 2,4): “E l’universale volontà salvifica di Dio non può essere ridotta a una sorta di desiderio o velleità condizionale e inefficace; tale volontà divina non è soggetta ad altra condizione che la libera accettazione da parte di ciascuna persona umana, della gratuita automanifestazione ed auto donazione di Dio”[35]. Secondo la tradizione cristiana il genere umano sin dall’inizio è stato chiamato a partecipare alla vita divina, per l’umanità si è sempre trovata nell’ordine soprannaturale con l’offerta dell’autocomunicazione di Dio mediante la sua grazia.

Karl Rahner  in Storia del mondo e storia della salvezza, Saggi di antropologia trascendentale (Edizioni Paoline, Roma 1965),afferma l’universalità della rivelazione e della salvezza basandosi sull’analisi filosofica e teologica della condizione esistenziale dell’umanità storica, da lui denominata ‘esistenziale soprannaturale’.: L’’esistenziale soprannaturale’ consiste dunque in una trasformazione del concreto ‘orizzonte di coscienza’ mediante il quale ciascuna persona umana è orientata, nell’ordine presente e pieno di grazia della creazione, a un’autorivelazione e a un dono di sé di Dio da ricevere in libertà e gratitudine”[36]. Egli distingue la storia universale o generale della salvezza-rivelazione, denominata trascendentale, dalla storia speciale della salvezza-rivelazione da lui definita ‘categorica’. La storia della salvezza trascendentale prende forma concreta nella storia delle persone, della religione in generale e delle religioni storiche. , che sono volute da Dio, in quanto “danno forma concreta all’offerta divina di grazia universalmente presente ed operante nella storia umana”[37]. La storia speciale della salvezza ha la caratteristica che “la rivelazione-salvezza di Dio diviene ‘tematica e categorica’. Entrano in gioco una consapevolezza e un riconoscimento espliciti di avvenimenti storici come costituenti interventi divini; ciò è garantito da una ‘parola di Dio’ da cui tali avvenimenti sono narrati e interpretati come eventi salvifici”[38]. La storia speciale della salvezza si realizza soprattutto con la tradizione ebraico-cristiana per l’interpretazione profetica di eventi storici. Tuttavia, precisa l’autore, la storia speciale della salvezza con l’interpretazione profetica degli avvenimenti storici come interventi divini nella storia dei popoli, si trova anche in altre tradizioni religiose. Lo stesso AT testimonia l’intervento salvifico di Dio anche a favore di altri popoli, pure dei nemici d’Israele. E’ stata, invece, la tradizione cristiana ad attribuire alla storia d’Israele “la peculiarità unica di prologo storico immediato all’intervento salvifico decisivo di Dio nell’evento-Cristo”[39].

Generale e speciale / Oltre alla storia generale della salvezza e quella speciale occorre considerare anche il periodo precristiano e postcristiano che non coincide con l’altra suddivisione, altrimenti la salvezza generale della salvezza verrebbe a coincidere con il periodo precristiano che vene superato, rimosso, con l’avvento di Cristo. Dupuis formula l’ipotesi che la storia speciale della salvezza racchiude anche quella generale degli altri popoli: “La storia di ciascun popolo  non potrebbe contenere le tracce delle azioni amorose di Dio verso di esso, costituendolo come uno dei popoli di Dio e infondendogli la vita stessa di quest’ultimo?”[40]. Egli cita i vescovi dell’Asia che vedono le grandi tradizioni religiose dei loro popoli come elementi positivi del disegno salvifico di Dio, poiché in esse si riscontrano i frutti dell’azione dello Spirito Santo, come “un senso del sacro, un impegno al perseguimento della pienezza, una sete di autorealizzazione, un gusto per la preghiera e l’impegno, un desiderio di rinunzia, una lotta per la giustizia, un anelito ad una bontà umana di fondo, un coinvolgimento nel servizio, un abbandono totale dell’io a Dio, e un attaccamento al trascendente nei loro simboli, rituali e nella stessa vita, sebbene non manchino la debolezza e il peccato umani”. La valutazione positiva delle altre tradizioni religiose scaturisce dal fatto che il disegno di Dio per l’umanità è uno solo, raggiunge tutti i popoli; è il Regno di Dio con il quale si attua la riconciliazione universale in Cristo (COMMISSIONE TEOLOGICA CONSULTIVA DELLA FEDERAZIONE DELLE CONFERENZE DEI VESCOVI ASIATICI, Theses on Interreligious Dialogue, n. 48). Se in queste tradizioni religiose ci sono i segni dello Spirito Santo, nei loro libri sacri ci sono tracce della parola di Dio rivolta ai vari popoli all’interno della loro storia.

Trinitaria e cristica / Dupuis applica il modello di cristologia trinitaria all’automanifestazione salvifica di Dio nella salvezza-rivelazione all’interno della storia delle nazioni, poiché Cristo è il punto mediano e focale, secondo la comprensione cristiana, dell’unico ed organico disegno di salvezza di Dio per l’umanità. L’evento-Cristo “è il perno attorno a cui ruota l’intera storia del dialogo fra Dio e l’umanità, il principio di intelligibilità del disegno di Dio concretizzato nella storia del mondo. Esso influisce sull’intero processo della storia a guisa di causa finale, è cioè come fine o meta che attrae verso di sé tutto il processo evolutivo: sia la storia ‘precristiana’ che quella ‘postcristiana’ sono attirate dal Cristo-Omega verso di sé”[41]. Il cristocentrismo, spiga il gesuita belga, non va inteso come cristo monismo, poiché la centralità dell’evento-Cristo “non oscura, ma piuttosto presuppone, chiama ed accresce l’universalità dell’attiva presenza del ‘Verbo di Dio’ e dello ‘Spirito di Dio’ nella storia della salvezza e, specificamente nelle tradizioni religiose dell’umanità”[42]. [dissociazione tra il Logos eterno , che svolge un’azione universale, e il Cristo che realizza un’opera limitata!]. La Sapienza-Parola e lo Spirito di Dio della tradizione biblica del Primo Testamento sono mezzi degli interventi personali di Dio anche al di fuori di Israele; sono attributi divini personificati letterariamente. “Il Nuovo Testamento rivelerà poi la vera ‘personalità’ dei ‘mezzi’ del coinvolgimento di Dio nella storia umana, approfondendo progressivamente il carattere personale del Figlio (Logos-Sapienza) e dello Spirito. Da allora in poi, il Logos-Sapienza e lo Spirito, che erano già stati attivi nella storia ‘precristiana’, saranno intesi retroattivamente come due persone distinte all’interno del mistero del Dio uno e trino: il Figlio incarnatosi-in-Gesù Cristo da un lato, e lo Spirito-di-Cristo dall’altra. Diverrà chiaro che le due persone divine erano state presenti ed operanti nell’economia precristiana senza essere riconosciute formalmente come tali”[43]. Rifacendosi a Gv 1,9 Dupuis sottolinea la presenza attiva del Logos già prima dell’incarnazione, anche se è culminata nell’evento-Cristo. Si tratta delle Logofanie secondo sant’Ireneo, che non sono soltanto “le teofanie dell’AnticoTestamento, ma tutte le manifestazioni divine lungo la storia della salvezza fin dalla creazione. L’universale funzione rivelatrice del Logos lo aveva reso presente all’umanità longo tutta la storia, sin dall’inizio, anche se tale presenza operante doveva raggiungere il culmine soltanto con la venuta nella carne in Gesù Cristo”[44]. Riguardo allo Spirito l’Autore cita la Redemptoris Missio (1990) di Giovanni Paolo II e la Dichiarazione della Consultazione ecumenica di Baar (1990), in cui si sottolinea particolarmente la sua azione universale,  non soltanto nelle singole persone, ma anche nelle varie tradizioni religiose. Il gesuita belga sottolinea la correlazione tra l’azione logocentrica, pneumatologica e cristocentrica, poiché non si escludono a vicenda. L’azione “preincarnazionale del Logos è orientata all’evento-Cristo, così come è corretto dire che lo Spirito è lo ‘Spirito di Cristo’ sin dall’inizio della storia della salvezza”[45]. Tra le varie componenti dell’economia della salvezza trinitaria e cristologica esiste una relazione profonda, per cui nessuna di esse può essere enfatizzata a separata dalle altre. L’evento-Cristo non può mai essere separato dal Logos e dallo Spirito, che a loro volta non possono essere dissociati dall’evento-Cristo. Tale discorso richiama il rapporto inclusivo tra tempo e eternità che influenza il rapporto di Dio con l’umanità. Lo sviluppo della storia della salvezza ha un inizio, un centro e un fine, un passato, un presente e un futuro, “nella consapevolezza e conoscenza eterna di Dio, tutto è continuo e coesistente, cosimultaneo e interconnesso. Gesù Cristo è il culmine eternamente ‘pre-fissato’, del coinvolgimento personale di Dio nelle vicende dell’umanità, e l’evento-Cristo è perciò, all’interno della storia, il ‘momento’ puntuale in cui Dio ‘diviene’ Dio-dei-popoli-in-maniera-pienamente-umana. Siccome però l’incarnazione del Logos è eternamente presente nell’intenzione di Dio, la sua realizzazione nel tempo informa la storia plurimillenaria dei rapporti che questi intrattiene con l’umanità”[46]. Secondo AG 4 lo Spirito santo operava nel mondo già prima che Cristo venisse glorificato, analogamente all’azione del Logos prima dell’incarnazione.

I popoli dell’alleanza con DioUna o varie alleanze? / I racconti biblici testimoniano che il  rapporto di Dio con l’umanità si realizza attraverso le alleanze (berith), che scaturiscono dalla sua libera iniziativa, dal suo amore gratuito e richiedono la risposta dell’uomo come adesione e fedeltà. Il termine alleanza non compare nei racconti della creazione (Gn 1-2), anche se in Ger 33,20-26 si parla di un’alleanza cosmica. Nella Genesi si parla di alleanza eterna stipulata da Dio con Noè (Gn 9,1-17); ritorna poi nel ciclo di Abramo (Gn 17,1-14). Nel racconto dell’Esodo si parla dell’alleanza con Mosè (Es 19-24); Ger 31,31-34 annuncia una nuova alleanza che secondo il NT si è realizzata con Cristo morto e risorto (Mt 26,28-29; Lc 22,20; 1Cor 11,25).  Dupuis osserva che secondo gli studiosi la realtà dell’alleanza esiste nel racconto biblico anche al di là della terminologia esplicita, anche se c’è disaccordo tra loro nel determinare il numero di queste alleanze e se esista una correlazione reciproca tra esse. “Esistono alleanze differenti, oppure tutte le alleanze menzionate nella Bibbia fanno riferimento ad un’unica alleanza cosmica, stabilita da Dio con l’umanità nella creazione?”[47]. Secondo alcuni esiste un’unica alleanza, quella originaria con Adamo, e quelle successive sono soltanto la consapevolezza dell’alleanza originaria, anche quella di Abramo. Il cristianesimo radicalizza la consapevolezza ebraica dell’alleanza universale con Adamo. Il cristianesimo, come pure Israele, sono soltanto un segno di tale alleanza primordiale, che è stata rifondata in Cristo (cf. ad es. J.T. Pawlikowski). Il gesuita belga evidenzia però le criticità di una tale tesi, che ha il merito di mettere in luce la continuità fra la creazione e Gesù Cristo passando per Israele, ma dimentica l’alleanza con Noè. Un altro limite è quello di non tener conto della discontinuità fra le varie fasi della storia della salvezza, della novità dell’evento-Cristo, per cui “Il processo della storia della salvezza è ridotto alla restaurazione di uno stato originale, venendo così privato di ogni dinamismo. Israele e il cristianesimo stanno l’uno accanto all’altro come due segni ‘analoghi’ dell’alleanza universale di Dio con l’umanità in Adamo”[48]. Il discorso viene portato avanti anche nell’ambito del dialogo ebraico-cristiano, riguardo alla relazione tra l’alleanza abramitico-mosaico da un lato e quella in Gesù Cristo dall’altra. Se l’alleanza con Israele è permanente si pone la questione teologica di quale sia la relazione fra l’antica [Prima] e la nuova [Seconda] alleanza. La tradizione cristiana ha parlato di 4 alleanze (Ireneo di Lione in Adversus haereses [III,11,8]  e la Dimostrazione di Aphraat [11,11]. Ireneo parte dal significato simbolico del numero 4 afferma che Dio ha parlato in 4 modi diversi: “ai patriarchi prima di Mosè, per mezzo della sua divinità; sotto la Legge per mezzo di un ministero sacerdotale; successivamente, nella sua incarnazione, per mezzo della sua umanità; e, infine, in quanto Signore risorto, per mezzo del dono dello Spirito”[49]. Le quattro alleanze sono quelle in Adamo, Noé, Abramo e Mosè e in Gesù Cristo. Nel succedersi di queste alleanze divine non c’è nulla ce faccia pensare che una di essa abolisca quelle precedenti. Anche i Vangeli sono 4 e nessuno di essi rimpiazza gli altri ma c’è correlazione tra loro, come per le 4 alleanze. Le alleanze sono Logofanie, modalità del coinvolgimento di Dio nelle vicende dell’umanità per mezzo del suo Logos che, per così dire, fa le prove della sua irruzione nella storia umana per mezzo dell’incarnazione di Gesù Cristo. “In quanto tali, esse stanno fra loro nella relazione non del vecchio che diventa obsoleto con l’avvento del nuovo che lo sostituisce, bensì in quella del seme che già contiene, in promessa, la pienezza della pianta che ne scaturirà”[50]. L’alleanza di Dio nella creazione attesta la familiarità di Dio con Adamo, cioè la sua relazione personale con il genere umano. La Bibbia parla anche della familiarità di Dio con Noè (Gn 9,1-17) e l’universalità dell’alleanza eterna conclusa con lui  e con la sua discendenza (Gn 9,16), espressione simbolica “di un impegno personale di Dio nei confronti delle nazioni, ossia dell’universalità dell’intervento divino nella storia dei popoli, di cui le tradizioni religiose dell’umanità sono le testimonianze privilegiate”[51]. Quella di Noè non è una religione naturale: Dio che si manifesta attraverso i fenomeni della natura e della costanza del loro ricorrere, come erroneamente è stato supposto, ma di autentico evento salvifico segnato dalla grazia. L’alleanza con Noè è paradigmatica per la teologia elle religioni, in quanto rivela che Dio ha stipulato un patto con tutti i popoli, immagine del suo amore duraturo per Israele (Is 54,9-10).

Il ritmo trinitario delle alleanze divine / Dio, essendo un mistero, trinitario, nel comunicarsi all’umanità segue questo ritmo trinitario. Fra Trinità immanente (in se stessa) e Trinità economica (che si rivela nell’opera salvifica) c’è profonda correlazione. In ogni alleanza di Dio con l’umanità c’è la sua presenza attiva, del suo Logos e del suo Spirito. Questo ritmo emerge sin dalla creazione: Dio creò per mezzo della sua Parola (Gn 1,3) e nello Spirito (Gn 1,2). Questo ritmo lo si ritrova nella storia di Israele: “in generale, gli interventi di Dio a favore del suo popolo sono realizzati per mezzo del suo Verbo; quanto allo Spirito di Dio, esso si impossessa di singole persone per farne gli strumenti dell’azione di Dio, e dei profeti per dar loro il potere di parlare la parola di Dio”[52]. Le tracce della Trinità non si trovano soltanto nella creazione ma anche nelle tradizioni religiose extrabibliche, in virtù dell’alleanza di Dio con tutti i popoli. L’autocomunicazione di Dio ha sempre un ritmo trinitario. La storia dell’origine di tutte le cose si realizza per mezzo del Verbo e nello Spirito e del loro ritorno a Dio per mezzo del Verbo nello Spirito: pròsodos ed éxodos della creazione divinizzata. “[…] il mondo creato è assunto nel mistero dell’’espansione e della concentrazione della Trinità, dal Deus absconditus per il Verbo allo Spirito e, viceversa dallo Spirito per l’Unigenito al Non-Nato”[53]. Il ritmo trinitario lo si trova espresso in san Paolo (1Cor 8,6; Ef 2,18) ed attesta che Dio assume nella sua compagnia, sia individualmente che collettivamente, l’umanità religiosa extra biblica, donando ad essa la grazia e la speranza.

‘L’alleanza mai revocata’ [titolo del libro di N. Lohfink] / Di essa parlò Giovanni Paolo II nel 1980 in un discorso pronunciato a Mainz (Germania) al “popolo di Dio dell’Antica Alleanza, che non è mai stata revocata” (cf. Rm 11,29). Tra Israele e il cristianesimo c’è un vincolo speciale, ma tale relazione è paradigmatica, emblematica di quella con gli altri popoli. San Paolo afferma che anche con l’avvento di Gesù Cristo Israele continua ad essere il popolo di Dio, l’alleanza mosaica è sempre incessante per l’amore e la fedeltà incrollabile di Dio che non ha ripudiato il suo popolo (Rm 11,1); “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Israele è sempre il popolo i cui membri “possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi” (Rm 9,4). Lohfink osserva che la nuova alleanza non abolisce la prima ma la svela: “La nuova alleanza non è altro che la prima: essa la svela, irradiando lo splendore del Signore che la precedente racchiudeva senza rivelarlo pienamente. La ‘nuova alleanza’ di Ger 31,31-34 non contiene alcun riferimento a due alleanze differenti, ma da una sola, che Dio ristabilirà nonostante l’infedeltà del popolo”[54]. Israele riteneva che la nuova alleanza si fosse realizzata con il ritorno dall’esilio e la ricostruzione del tempio; il NT (Lc 22,20; Rm 9-11) la interpreta invece in senso cristologico ed escatologico. Secondo Lohfink si tratta di una sola alleanza che riguarda gli ebrei e i cristiani, sebbene con differenze, poiché essi percorrono due strade, ma  che fanno parte dell’unica alleanza che rende presente nel mondo la salvezza di Dio. In base alla Lettera ai Romani c’è un solo piano salvifico di Dio che abbraccia gli ebrei e le nazioni;  si tratta di due tempi, uno per gli ebrei e l’altro per i cristiani, che alla fine convergeranno nell’eschaton. G. D’Costa parla invece di molte possibili alleanze, che include le varie religioni mondiali, “all’interno di un’unica storia rivelatoria che raggiunge in Cristo il suo compimento normativo ma prolettico”[55].  Riguardo al dialogo ebraico-cristiano Dupuis sottolinea che bisogna evitare, da una parte, la teoria della sostituzione, secondo cui il compimento in Cristo abbia sostituito le promesse e alleanze con Israele; dall’altra va evitata anche la dualità di due vie parallele, una per gli ebrei e un’altra per i cristiani, che distruggerebbe l’unità del piano salvifico di Dio per l’umanità che ha raggiunto in Gesù Cristo la sua realizzazione escatologica. Il piano salvifico di Dio possiede una sua unità organica, con vari passi tra loro interconnessi e complementari: “Per la fede cristiana, l’evento-Cristo non esiste senza Israele o facendo astrazione da esso; e inversamente Israele non è stato mai prescelto da Dio come quel popolo da cui sarebbe uscito Gesù di Nazaret. Israele e il cristianesimo sono indissolubilmente congiunti, nella storia della salvezza, sotto l’arco dell’alleanza. L’alleanza mediante cui il popolo ebreo otteneva la salvezza nel passato e continua tuttora ad essere salvato è la stessa alleanza mediante cui i cristiani sono chiamati alla salvezza in Gesù Cristo. Non vi è alcuna sostituzione di un ‘nuovo’ popolo di Dio ad un altro popolo dichiarato, d’ora in poi, ‘antico’, bensì un’espansione sino ai confini del mondo dell’unico popolo di Dio, di cui l’elezione di Israele e l’alleanza con Mosè erano e rimangono ‘la radice e la sorgente, il fondamento e la promessa’”[56]. La salvezza giunge agli ebrei attraverso l’alleanza conclusa da Dio con Israele, recata a perfezione in Cristo. L’alleanza con Israele è tuttora una via di salvezza, ma non in modo indipendente dall’evento-Cristo.

Il valore permanente dell’alleanza cosmica / La questione del rapporto tra ebraismo e cristianesimo funge da catalizzatore per ri-orientare il rapporto fra il cristianesimo e le altre religioni, che conservano un valore permanente, simboleggiate nell’alleanza cosmica con Noè, che è giunta alla pienezza in Gesù Cristo, ma conserva un valore permanente. La distinzione fra storia generale della salvezza e storia speciale non va intesa in modo rigido, poiché le tradizioni religiose extra bibliche pure appartengono alla storia speciale della salvezza. Gli eventi della storia dei popoli, come osserva Rahner, sono interpretati come interventi divini dal carisma profetico. Analogamente bisogna superare la dicotomia tra mito, come qualcosa di non vero che riguarda le altre religioni, e storia, prerogativa della tradizione ebraico-cristiana. Il mito, invece, narra una storia sacra, che ha avuto luogo nel tempo primordiale (Mircea Eliade); Dio si è rivelato in dai tempi più antichi nella forma del mito (B. Griffiths). Non è possibile contrapporre, osserva l’autore belga, i racconti extrabiblici, mitici, e quelli biblici, storici. I racconti mitici veicolano un messaggio divino, come emerge dalle stesse Scritture ebraiche. “Il racconto della creazione nel Libro della Genesi è un mito mediante il quale viene rivelato il mistero della creazione degli esseri umani e della loro comunione con Dio. Noè è egli stesso una figura ‘mitica’ o un personaggio ‘leggendario’, e la storia dell’alleanza di Dio con lui ha un carattere mitico; eppure essa comunica la verità di un rapporto di alleanza di tutti i popoli con Dio: Neppure le storie di Abramo e Mosè sono prive di un certo sfondo mitico; eppure esse sono il simbolo per antonomasia dell’azione di Dio nella storia del popolo israelita e costituiscono la pietra angolare della concezione ebraica della rivelazione come intervento personale di Dio nella storia”[57]. L’autore biblico si serve dei racconti mitologici, politeistici (le divinità sono la personificazione delle forze della natura) per veicolare la novità assoluta del monoteismo, la trascendenza di Dio rispetto alle forze naturali, che sono da Lui create. Israele si è allontanato dalla concezione mitologica per arrivare a quella storica mediante il carisma interpretativo dei grandi profeti; questo movimento si è accentuato particolarmente con l’evento-Cristo che è il punto mediano della storia. Questa evoluzione, però, non annulla il fatto che anche le tradizioni religiose extrabibliche, la religione cosmica “comunica un rapporto di alleanza di Dio con i popoli, espresso attraverso la mediazione della storia e della leggenda. E la funzione rivelatrice del mito nella religione extrabiblica non è venuta meno con l’avvento della coscienza storica”[58].

PAROLA DI DIO UNICA ED UNIVERSALE’

Dupuis esamina il fondamento  di una rivelazione biblica non ristretta alla storia biblica, a cui si fa riferimento nel prologo giovanneo. Il Verbo è Colui per mezzo del quale “tutto è stato fatto” (Gv 1,3), che era “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” venendo nel mondo (Gv 1,9). Tutta la storia dei popoli è storia della salvezza, che si realizza con opere e parole, eventi e profezia (DV 2). Dio ha parlato a tutta l’umanità, ha offerto la salvezza a tutti coloro che ne fanno parte. La rivelazione è universale e pure l’offerta della salvezza(G. O’Collins) [relativismo ???]. Il gesuita belga precisa che la rivelazione e la salvezza differisce da una tradizione religiosa all’altra, pur avendo elementi simili. La teologia comparativa delle religioni, però, deve superare la dicotomia tra inclusivismo e pluralismo, ma non deve avere la presunzione di arrivare all’essenza comune delle religioni. Nello stesso tempo “la doverosa attenzione e il dovuto rispetto per le differenze non eliminano il diritto e il dovere, per il credente cristiano, di interpretare i dati delle altre tradizioni a partire dalla prospettiva della propria fede”[59]. Il discorso dell’Autore intende essere una valutazione cristiana, formulata con categorie cristiane, della rivelazione divina nelle altre tradizioni religiose. Il misteri divino, a cui si danno nomi diversi, è rivelato e comunicato definitivamente in Gesù di Nazaret. “Il ‘mistero ultimo’ universalmente presente eppure mai adeguatamente compreso è, per il cristiano, il “Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo’ (2Cor 1,3). Una teologia cristiana del ‘Verbo di Dio’ nella storia sarà dunque necessariamente trinitaria e cristologica – precisa Dupuis -. Essa andrà in cerca dei segni dell’azione di Dio, dei ‘semi del suo Verbo’ e dell’impronta del suo Spirito nelle esperienze e negli eventi fondativi su cui sono state edificate le varie tradizioni religiose, nonché delle tracce dei medesimi nei libri sacri e nelle tradizioni orali che di tali tradizioni costituiscono la testimonianza ufficiale e la memoria vivente”[60].

La rivelazione e le religioni mondiali – La rivelazione viene compresa in modo diversificato dalle varie tradizioni religiose. Per quanto riguarda la teologia della rivelazione cristiana c’è una forte evoluzione, in quanto non viene intesa come un insieme di dottrine, verità divine, ma come eventi che costituiscono l’automanifestazione di Dio.

Dio ‘fuori’ o l’Assoluto ‘dentro’: estasi e ‘instasi’ / Dupuis precisa che bisogna tener presenti alcune fondamentali distinzioni delle diverse tradizioni religiose. E’ consueta la distinzione fra le religioni monoteistiche o profetiche (ebraismo, cristianesimo e islam) e le religioni mistiche originarie dell’Oriente. Anche se queste distinzioni vanno prese con le dovute cautele, tuttavia evidenziano l’origine comune e una somiglianza di famiglia fra le religioni profetiche. Nelle religioni mistiche d’Oriente, pur essendoci varie differenze, hanno dei tratti in comune, come il carattere sapienziale o gnostico che determinano legami reciproci.  Tali religioni, sottolinea l’Autore,vivono l’economia dell’alleanza cosmica e l’esperienza del divino è inerente a tale contesto. Nonostante ciò molte donne e uomini hanno vissuto e vivo una autentica esperienza religiosa, hanno realizzato una relazione personale con il divino, ad esempio, attraverso la preghiera: “La preghiera autentica è sempre un segno del fatto che Dio, in qualche modo segreto e nascosto, ha preso l’iniziativa di accostarsi personalmente agli esseri umani rivelando loro se stesso e venendo da loro accolto nella fede. Quanti si affidano a Dio nella fede e nella carità vengono salvati, per quanto imperfetta possa essere la concezione che hanno del Dio che si è rivelato loro”[61]. Del resto, la salvezza viene donata all’uomo, che è sempre peccatore, quando risponde alla comunicazione personale che è iniziata da Dio. L’esperienza religiosa viene comunicata attraverso il linguaggio, le formulazioni dottrinali, che riescono a farlo solo in modo inadeguato, e questo vale anche per il cristianesimo: Se vogliamo attingere l’esperienza religiosa altrui e scoprire gli elementi di verità e di grazia che vi si trovano celati, saremo obbligati – osserva Dupuis – ad andare al di là dei concetti che la enunciano. Per quanto possibile, dovremo cogliere il nocciolo dell’esperienza per mezzo dei concetti imperfetti mediante cui essa viene espressa”[62]. Nelle tradizioni orientali mistiche l’esperienza religiosa non viene espressa come una relazione personale con Dio. Secondo la mistica advaita indù si tratta del risvegliarsi alla propria identità col Brahman.. Anche il buddhismo, con il suo atteggiamento agnostico, non teistico, non professa alcuna relazione personale con Dio, ma afferma un Assoluto impersonale; per questo motivo i buddhisti parlano di meditazione e contemplazione, ma non di preghiera. Nelle religioni monoteistiche, profetiche, si tratta, invece, nella fede di un rapporto interpersonale con Dio che prende l’iniziativa e l’uomo Gli risponde. “Perciò, mentre le religioni ‘mistiche’ asiatiche coltivano l’’instasi’ (la ricerca di un Assoluto sconosciuto ‘nella grotta del cuore’?, le loro controparti profetiche sono dominate dall’estasi, o incontro col Dio ‘totalmente altro’; le prime enfatizzano l’apofatismo (nirvana, sunyata), le seconde il catafatismo”[63]. Anche se in tali tradizioni religiose l’enunciazione dell’esperienza di Dio è limitata, quando essa [l’esperienza] è autentica è sempre il Dio rivelato in Gesù Cristo  che in maniera misteriosa, segreta, nascosta entra nella vita degli uomini e delle donne: “Se il concetto di Dio rimane incompleto, l’incontro interpersonale fra Dio e l’essere umano è però autentico, poiché è Dio a prendere l’iniziativa, ponendosi in attesa della risposta di fede da parte dell’essere umano”[64]. Secondo il gesuita belga quando gli esseri umani si rivolgono a un Assoluto c’è sempre la fede soprannaturale, non meramente naturale, perché ciò significa che l’Assoluto “indirizza e concede loro se stesso, entra per se stesso in gioco, in risposta ad una rivelazione divina personale […]”[65]. L’Autore rimarca che ogni esperienza religiosa rimanda all’autocomunicazione di Dio che si è realizza in pienezza con Gesù Cristo, perché Dio è uno solo (Shema Israel Dt 6,4; Mc 12,29). E’ sempre lo stesso Dio che compie le opere salvifiche e che parla nel segreto dei cuori degli uomini, è il ‘Totalmente Altro’ e il ‘Fondamento dell’essere’, il trascendente e l’immanente, il Padre di Gesù Cristo e il centro dell’io. Il movimento apofatico lo si riscontra nello stesso cristianesimo (catafatico), l’esperienza di Dio nella propria interiorità, come quella di S. Agostino e la teologia orientale. Dio si è rivelato “molte volte e in diversi modi” (Eb 1,1) e la sua autorivelazione è arrivata al culmine con Cristo. L’esperienza di Dio cosmica e psicologica da un lato, personale e storica dall’altra, la tradizione religiosa mistica e quella profetica, sono complementari poiché sgorgano da un’unica Sorgente che è il Dio trascendente e immanente.

La struttura trinitaria della rivelazione / L’autocomunicazione e autorivelazione di Dio è opera del Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo. Il Concilio Vaticano II ha ripreso il pensiero dei Padri della chiesa  (Giustino, Logos spermatikos) quando parla degli elementi di verità presenti nelle dottrine delle altre tradizioni religiose (NA 2), dei semi del verbo presenti in tali tradizioni (AG 11; 15). Anche se il Concilio non spiega il senso che dà a queste espressioni, secondo Dupuis si fa riferimento alle diversificate partecipazioni degli esseri umani al Logos di Dio (RM 28). Il Verbo, anche prima dell’incarnazione in Gesù, parlava all’umanità, attraverso i loro miti, simboli, riti e culture: “Nonostante il significato universale dell’incarnazione, bisogna lasciare lo spazio per un’azione anticipata del Verbo di Dio all’interno della storia, oltre che per un suo influsso permanente sotto altri simboli”[66]. La presenza attiva dello Spirito è universale, come evidenzia anche il magistero postconciliare; essa opera non soltanto nella vita delle persone ma anche nelle tradizioni religiose. Dopo l’incarnazione del Verbo, lo Spirito opera oltre i confini della chiesa, vivificando ogni cosa, attraverso la rivelazione cosmica. Ogni esperienza religiosa diventa incontro personale con Dio tramite lo Spirito: “Nell’ordine delle relazioni divino-umane, lo Spirito è, in ultima analisi, Dio reso personalmente presente all’essere umano – Dio percepito dall’essere umano nelle profondità del suo cuore”[67]. Lo Spirito opera nelle varie fasi della storia della salvezza, nelle varie alleanze concluse da Dio con la famiglia umana, per cui costituisce “l’agente immediato dell’approccio divino e del suo impegno per la storia umana. Potremmo dire pertanto che lo Spirito Santo presiede al destino divino dell’umanità, nel senso che ciascuna alleanza raggiunge l’umanità nello Spirito […]. Tale mediazione dello Spirito Santo nell’autorivelazione di Dio è operante anche nelle sacre scritture delle altre tradizioni religiose”[68].

La Rivelazione passata e presenteParola di Dio e libri sacri / Per rispondere all’interrogativo se è possibile riconoscere come parola di Dio i testi sacri delle altre tradizioni religiose, Dupuis parte dalla premessa dell’automanifestazione di Dio nella storia delle nazioni come sua rivelazione, anche se ordinata a quella cristocentrica. Occorre anche tener presente che il carisma profetico, inteso come interpretazione degli interventi divini nella storia, della volontà divina, non è prerogativa solo di Israele. L’AT, ad esempio, considera autentica profezia i quattro oracoli di Balaam (Nm 22-24) e l’antichità cristiana gli oracoli della Sibilla. Un caso emblematico è quello di Maometto che è un autentico profeta, anche se per la teologia cristiana, non tutto il Corano è parola di Dio, poiché in esso ci sono errori: “Visto nel suo contesto storico, il messaggio monoteistico di Maometto appare davvero come rivelazione divina mediata dal profeta. Questa rivelazione non è né perfetta né completa: ma non per questo è meno reale”[69]. Per quanto riguarda le sacre scritture della tradizione ebraico-cristiana, esse contengono memorie ed interpretazioni della rivelazione divina sotto uno speciale impulso divino, per cui Dio stesso è l’autore delle scritture. Gli autori umani, però,i compilatori che raccolsero le tradizioni orali o scritte dei libri sacri, hanno conservato in pieno le loro facoltà umane e sono effettivamente gli autori dei loro testi: “Piuttosto, lo status di autore deve essere attribuito sia a Dio che all’essere umano, sebbene a livelli differenti. La sacra scrittura è ‘la parola di Dio nelle parole degli esseri umani’”[70]. La teologia cristiana parla di ispirazione per definire il fatto che Dio e l’essere umano sono coautori di una stessa parola. Il teologo belga evidenzia però  il mite di tale teologia, perché non evidenzia abbastanza l’azione dello Spirito Santo. Karl Ranher ha evidenziato la dimensione ecclesiologica della Sacra Scrittura, che è un elemto costitutivo del mistero della chiesa, su cui si fonda la comunione ecclesiale. La chiesa è convocata, è costituita dalla parola di Dio. L’agiografo, tuttavia, non sempre è consapevole dell’azione dello Spirito santo: “Come sappiamo, il carisma dell’ispirazione scritturistica si estende ben al di là del gruppo degli autori cui sono attribuiti i vari libri: Costoro svolsero spesso la funzione di redattori, o curatori, di tradizioni orali o scritte ricevute da altri”[71]. Per risolvere la questione se i testi sacri delle altre tradizioni religiose vanno considerati parola di Dio, ispirata dallo Spirito Santo, dal momento che in essi ci sono i germi del Verbo, Dupuis ricorre all’argomentazione sulla rivelazione progressiva e al concetto analogico di ispirazione scritturale. L’esperienza religiosa dei sapienti e dei veggenti delle altre tradizioni religiose è dovuta allo Spirito che è entrato nella storia dei popoli e li ha guidati alla realizzazione del progetto divino. Il carattere sociale della sacre scritture delle nazioni è stato voluto da Dio, espressione di una tradizione in divenire, dovuta all’intervento della divina provvidenza. “Esse [le sacre scritture delle nazioni] contengono, nelle parole dei veggenti, parole di Dio agli esseri umani, in quanto riportano sì parole pronunciate segretamente dallo Spirito in cuori che sono umani, ma parole destinate dalla provvidenza divina a condurre altri esseri umani all’esperienza del medesimo Spirito”[72]. Dupuis chiarisce che quanto affermato non significa affatto che l’intero contenuto delle sacre scritture delle nazioni sia parola di Dio nelle parole di esseri umani, poiché nella compilazione dei testi sacri ci possono essere molti elementi che sono soltanto parola dell’uomo su Dio. L’Autore neppure intende sostenere il carattere definitivo del contenuti dei testi sacri delle nazioni: “Ancor meno stiamo suggerendo che le parole di Dio contenute nelle scritture delle nazioni rappresentino la parola decisiva di Dio all’umanità, come se Dio non avesse più nulla da dire che non abbia già detto tramite la mediazione dei profeti delle nazioni”[73]. La personale esperienza di Dio dei veggenti è manifestazione dell’apertura personale di Dio alle nazioni in base alla sua provvidenza. Tramite gli intermediari dovuti alla sua scelta, le sacre scritture delle nazioni sono la parola personale che Dio rivolge alle nazioni e questa parola in senso reale è ‘parola ispirata da Dio’, “a patto – rimarca l’Autore – che non si dia un’interpretazione troppo rigorosa del concetto e che si tenga sufficientemente conto dell’influsso cosmico dello Spirito Santo”[74]. Come affermato nella Dichiarazione finale del ‘Seminario di ricerca sulle scritture non bibliche’ tenuto a Bengalore, in India, all’11 al 17 settembre 1974, che dal punto di vista cristiano è possibile riconoscere nelle scritture dell’India l’opra dello Spirito Santo, manifestazione multiforme dell’unico mistero di Dio. In questi testi, ovviamente, insegnamenti e visioni del mondo, non hanno una ‘totale adeguatezza’. Tali scritture però hanno un’autorità religiosa complessiva, sono mezzi dati da Dio alle comunità per condurle a lui.

La pienezza della rivelazione in Gesù Cristo / La pienezza della rivelazione non è la parola scritta del NT, ma è tutta la persone e l’opera di Gesù Cristo arrivata al culmine con ul suo mistero pasquale. E’ questa la pienezza della rivelazione, la parola decisiva che Dio ha pronunciato al mondo. La DV, infatti, distingue tra la pienezza della rivelazione nell’evento cristologico (DV 4) e la sua trasmissione nel NT che è espressione della tradizione apostolica (DV 7), testimonianza, interpretazione ufficiale, memoriale autentico della rivelazione, che è normativo per la fede della chiesa di tutti i tempi. “Ma questo non significa che costituisca la pienezza della parola di Dio agli esseri umani. Il Nuovo Testamento rende esso stesso testimonianza che questo memoriale riporta soltanto in maniera incompleta l’evento di Gesù Cristo (cfr. Gv 21,25)”[75]. Gesù è personalmente la pienezza della rivelazione, non in senso quantitativo ma qualitativo, per la sua identità personale di Figlio di Dio. Dupuis chiarisce che la consapevolezza che Gesù aveva del suo rapporto con il Padre era una consapevolezza umana: “La sua coscienza umana di essere il Figlio implicava una conoscenza immediata del Padre suo, da lui chiamato col nome di Abbà. La sua rivelazione di Dio aveva perciò come punto di partenza un’esperienza umana unica e insuperabile. Questa esperienza non era in effetti che la trasposizione nella chiave della consapevolezza e della cognizione umana della vita stessa di Dio e delle relazioni trinitarie fra le persone”[76]. La rivelazione è giunta alla pienezza qualitativa in Gesù, il Figlio di incarnato visse umanamente la propria identità di Figlio di Dio, in una coscienza umana, ma questa rivelazione non è assoluta, è relativa, sottolinea l’Autore. La coscienza umana di Gesù, pur essendo quella del Figlio, è pur sempre una coscienza umana, e quindi relativa.Tale coscienza umana ha consentito al Figlio di Dio di tradurre in parole umane, il mistero di Dio, il mistero trinitario, che si è palesato ai discepoli a Pentecoste, quando il Signore effuse su di loro lo Spirito Santo ricevuto dal Padre (Gv 16,7; At 2,33). La pienezza della rivelazione cristologica, tuttavia, non costituisce un ostacolo per la prosecuzione dell’autorivelazione divina per mezzo dei profeti e dei sapienti di altre tradizioni religiose, come, ad esempio, è avvenuto con Maometto. La chiesa, nel frattempo, continua l’approfondimento della rivelazione ricevuta una volta per  tutte per mezzo del Figlio incarnato, contenuta nel NT che è normativo, lasciandosi guidare dallo Spirito che la conduce alla verità tutta intera (Gv 16,13), alla comprensione ecclesiale di Dio e del suo Cristo.

La rivelazione differenziata e complementare / La pienezza della rivelazione cristologica con la testimonianza ufficiale della comunità escatologica che è la chiesa, non esclude il fatto che tuttora continui una teologia ‘aperta’ della rivelazione e delle sacre scritture, nel senso della rivelazione di Dio attraverso le scritture delle nazioni. Dio, prima di rivolgersi ad Israele, ha parlato alle nazioni: “Le sacre scritture delle nazioni rappresentano dunque, assieme all’Antico e al Nuovo Testamento, varie maniere e forme in cui Dio si rivolge agli esseri umani nel processo continuo dell’autorivelazione divina loro indirizzata”[77]. L’autore belga parla di tre fasi dell’autorivelazione di Dio. “Nella prima fase, Dio concede ai cuori dei veggenti di ascoltare una parola segreta, di cui le sacre scritture delle tradizioni religiose contengono quanto meno delle tracce”[78]. Nella seconda fase Dio parla ufficialmente attraverso i profeti d’Israele e il Primo Testamento è la testimonianza di tale rivelazione di Dio e della risposta dell’uomo. La terza fase è quella cristologica, in cui converge la rivelazione delle fasi precedenti, poiché Gesù Cristo è la parola definitiva di Dio, del suo Verbo, come testimoniata nel NT. Le parole iniziali di Dio sono contenute nelle sacre scritture delle nazioni, che non hanno il carattere ufficiale dell’AT e il valore decisivo del NT, ma sono parole divine, poiché Dio le pronuncia tramite lo Spirito divino e i testi che contengono meritano di essere chiamate ‘sacre scritture’. Tradizionalmente tali locuzioni è stata applicata solo alle Scritture Ebraiche e Cristiane, in base a una definizione teologica restrittiva, sottolinea Dupuis,secondo il quale bisogna, invece, affermare una definizione più ampia che includa le scritture delle altre tradizioni religiose, per cui “Parola di Dio, sacra scrittura e ispirazione sono dunque concetti analogici, che si applicano in maniera differente alle varie fasi di una rivelazione progressiva, differenziata”[79]. La storia della salvezza è unica, con cui Dio guida personalmente l’umanità verso la sua meta ultima, è  dovuta all’azione dello Spirito Santo che si manifesta attraverso modalità diversificate. La rivelazione cosmica di Dio è la rivelazione personale di Dio alle nazioni e le loro sacre scritture contengono i semi del Verbo, sono sotto l’influsso universale dello Spirito. Ogni verità viene da Dio e deve essere onorata in quanto tale, qualunque sia il canale attraverso cui raggiunge un popolo. L’autorivelazione di Dio è progressiva e differenziata: “Si può dire persino- senza arrecare pregiudizio alla decisività dell’evento Cristo – che fra la rivelazione all’interno e quella all’esterno della tradizione ebraico-cristiana esiste una vera e propria complementarità. E si può dire, in maniera equivalente, che un’analoga complementarità è rinvenibile fra i libri sacri delle altre tradizioni religiose e il corpus biblico”[80].  Quasi in contraddizione con quanto affermato, Dupuis osserva che occorre però mettere in atto un serio discernimento per distinguere la verità dalla non verità e per il cristiano il criterio per il discernimento è Gesù Cristo che è la Verità (Gv 14,6). Tutto ciò che è in contraddizione con Cristo non può venire da Dio che ha inviato il Logos nel mondo. Nonostante tutto ciò, l’Autore ribadisce che come c’è complementarità fra il Primo e il Secondo Testamento, così avviene fra le Scritture bibliche e quelle non bibliche, che mettono in evidenza aspetti del mistero divino che non emergono neppure nel NT. Si tratta, ad esempio, del senso della maestà e della trascendenza divina, secondo il Corano, della sottomissione dell’essere umano alla santità dei decreti eterni di Dio; la presenza immanente di Dio nel mondo e nei recessi del cuore umano secondo l’induismo. La rivelazione di Dio contenuta nelle sacre scritture extrabiblica non vale solo per i seguaci di tali religioni, ma è parola di Dio anche per i cristiani, nonostante la pienezza e il vertice dell’evento rivelativo cristologico. Dupuis afferma arditamente che nella liturgia cristiana possono essere usate anche le sacre scritture delle altre religioni e precisa in merito: “Questo va fatto, invero, con prudenza e con rispetto per le differenti fasi della storia della rivelazione. Un altro requisito sarà il discernimento necessario ad evitare ogni ambiguità mediante una scelta responsabile dei testi, in armonia col mistero di Gesù Cristo in cui la liturgia della Parola raggiunge il suo culmine. A queste condizioni, potremo gioire della sorprendente scoperta di sbalorditive convergenze fra le parole di Dio e il Verbo divino in Gesù Cristo. Per quanto ciò possa apparire paradossale, un contatto prolungato con le scritture non bibliche può aiutare i cristiani – se praticato all’interno della loro fede – a scoprire in maggior profondità taluni aspetti del mistero divino che essi contemplano svelati loro in Gesù Cristo”[81]. E’ certamente paradossale, o meglio sconcertante, l’affermazione secondo cui in altre tradizioni religiose ci possa essere una rivelazione più profonda di quella cristologica!

 

Lucia Antinucci

 

[1] Ivi 69.

[2] Ivi 74-75.

[3] Ivi 75.

[4] Prima del Concilio, Jean Danielou, si poneva la questione della salvezza dei seguaci di altre religioni e aveva un atteggiamento guardingo nei confronti delle religioni.

[5] Poiché i tempi non erano ancora maturi, vennero pubblicate monografie di portata limitata che mettevano in luce problemi specifici. Cornelis e Maurier si soffermarono sui valori cristiani contenuti nelle altre religioni; De Lubac  e von Balthasar sul valore salvifico presente o assente in esse; Fries e Zaehner sulla loro relazione con il cristianesimo; Nys sulla salvezza senza Vangelo. Schlette, invece, evidenziò delle prospettive teologiche per costruire una teologia delle religioni in relazione alla storia della salvezza; K. Rahner, con il suo progetto di un’antropologia trascendentale, sviluppò la teologia del cristianesimo anonimo.

[6] Il primo studio di una certa ampiezza fu quello di V. Boublik, Teologia delle religioni, pubblicato nel 1973. Lo studio esaustivo non comprende soltanto la teologia delle religioni, ma anche, anzitutto, la teologia della religione, fra le quali c’è correlazione e distinzione.

[7] DUPUIS, Verso una teologia cristiana, 11.

[8] Ivi 13.

[9] Ivi.

[10] Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988 (orig. Inglese 1978).

[11] DUPUIS, Verso una teologia cristiana, 13-14.

[12] Ivi 14.

[13] Ivi.

[14] Ivi 15.

[15] Ivi.

[16] Ivi 16-17.

[17] Ivi 17.

[18] Ivi.

[19] Ivi 19.

[20] Ivi 19-20.

[21] Ivi 20.

[22] Ivi 21.

[23] Ivi.

[24] Ivi 22.

[25] Ivi.

[26] Ivi 29-30.

[27] Ivi 30.

[28] Ivi 285.

[29] Ivi 286.

[30] Ivi 287.

[31] Ivi 287-288.

[32] Ivi 289.

[33] Ivi 290.

[34] Ivi 293.

[35] Ivi 294.

[36] Ivi 295.

[37] Ivi.

[38] Ivi.

[39] Ivi 296.

[40] Ivi 297.

[41] Ivi 298.

[42] Ivi.

[43] Ivi 299.

[44] Ivi.

[45] Ivi 300.

[46] Ivi 301.

[47] Ivi 303.

[48] Ivi 304.

[49] Ivi 305.

[50] Ivi.

[51] Ivi 306.

[52] Ivi 307.

[53] Ivi 308.

[54] Ivi 312.

[55] Ivi 314.

[56] Ivi.

[57] Ivi 316.

[58] Ivi 317.

[59] Ivi 320.

[60] Ivi 321.

[61] Ivi 325.

[62] Ivi 326.

[63] Ivi.

[64] Ivi.

[65] Ivi 327.

[66] Ivi 330.

[67] Ivi.

[68] Ivi 331.

[69] Ivi 333.

[70] Ivi.

[71] Ivi 334.

[72] Ivi 335.

[73] Ivi.

[74] Ivi.

[75] Ivi 337.

[76] Ivi.

[77] Ivi 339.

[78] Ivi.

[79] Ivi 340.

[80] Ivi 340-341.

[81] Ivi 342-343.

 

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