La monnezza di Napoli è politica? Etica? Sociale? Civiltà? Benessere oppure degrado?

La monnezza di Napoli

Dobbiamo riconoscere che si dà una dimensione tutta nostra, napoletana, del problema rifiuti, che ci si appiccica addosso come un’ulteriore connotazione negativa di un’immagine già ampiamente compromessa.

Napoli è una città relativamente povera e con un’economia fragile, ma questo non vuol dire che non abbia conosciuto un suo sviluppo. Pertanto, è una città che consuma il necessario per vivere, come il superfluo, e produce in misura proporzionale spazzatura. Del resto, i rifiuti sono il prodotto collaterale del benessere, il rovescio dello sviluppo economico e tecnologico. Si moltiplicano i beni di consumo, ma anche i prodotti di scarto. Conseguentemente, cumuli di sostanze sgradevoli e nocive si accrescono e non si sa dove disseminarle.

D’accordo, ci vorrebbe una maggiore sobrietà e un maggiore senso ecologico, ma questo, penso, non sia un difetto addebitabile solo ai Napoletani.  

Quello che, semmai, pare caratteristico è che da noi i problemi si amplificano in ragione di un atavico fatalismo e di un modo disincantato e compassato di guardare alla vita. Così, le emergenze diventano normalità e si perde non solo la capacità di indignarsi e di reagire, ma anche quella di sorprendersi.

Se poi volessimo andare ancora più a fondo, allora troveremmo un mal digerito senso della democrazia e, prima ancora, una maturità civile che forse non è mai arrivata. La responsabilità di quello che succede è, infatti, collettiva e insieme individuale.

E’ collettiva per l’uso distorto della democrazia che si è fatto nel nostro contesto sociale e politico. I rifiuti evidenziano, sotto questo aspetto, una gestione viziosa della cosa pubblica, in quanto si mira, e si è mirato, a perseguire il vantaggio proprio o del proprio gruppo, a scapito di quello della collettività. Richiamano scelte quasi mai fatte nel segno della trasparenza e della partecipazione dei cittadini e gestite peggio, nell’illegalità. Incarnano tangibilmente cosa comporta una mentalità che eleva la furbizia a virtù, in luogo dell’intelligenza, e che porta a perseguire un tornaconto facile e immediato, in luogo di una progettualità nel tempo e di una promozione globale della società.

Ma la responsabilità è anche individuale, per via di quella diffusa mentalità che ci porta ad aspettare la soluzione dei problemi da parte delle autorità, senza che ci facciamo carico delle nostre personali responsabilità, rimboccandoci le maniche e dandoci da fare. E, poi, le autorità sono l’immagine speculare di quello che siamo o che, almeno, sappiamo esprimere a livello politico. 

I rifiuti evidenziano allora un più profondo e radicato disordine morale. Esso è quello di una società in cui non solo le contraddizioni esplodono, ma anche i rapporti umani si incrinano. Nel marasma generale che ha colpito tutti i valori, infatti, non ci sono più le regole condivise, tacitamente sottoscritte che c’erano un tempo.

La nostra è una società sfrangiata, dove non c’è più ombra di bene comune. Nessuno, infatti, vuole la monnezza. Ognuno la dirotta sotto la casa dell’altro o nel comune vicino o nella provincia vicina con furbizia malevola. Manca il senso della condivisione, perché manca la solidarietà. Conseguentemente, siamo come irretiti nel problema, condannati dalla mancanza di prospettive, vinti dal nichilismo dei nostri beni andate a male, delle nostre speranze accumulate come rifiuti in quei vicoli oltraggiati, che un tempo erano i palcoscenici della napoletanità.

Sporca e caotica, la città implode nel suo stesso disordine, affoga nel suo stesso marasma indifferenziato. Si insudicia, alla fine, non solo l’immagine che altri possono farsi di noi, ma anche l’immagine che possiamo avere di noi stessi.  

Dobbiamo riconoscere, se vogliamo evitare una visione nostalgica, che i tratti caratterizzanti di una societá povera, contraddittoria e problematica non sono mancati nel passato. La fame, la fatica, la subordinazione morale e sociale, la precarietá esistenziale, l’elementaritá degli orizzonti e dei bisogni convivevano allora con attivitá parassitarie ed illecite. Napoli era una città affollata di diseredati in cui l’emarginazione e la miseria erano pesanti. Ma nei vicoli brulicanti di gente, ricchi di voci e di risonanze, c’era un palcoscenico naturale all’aperto, una fucina di genialità e creatività.

Innanzitutto, c’era una grande capacità di sorridere alla vita, che si esprimeva o nell’arte di arrangiarsi, inventandosi mille modi diversi di sbarcario il lunario, o nell’allegria, che faceva parte, a torto o a ragione, dello stereotipo del napoletano. C’era l’estroversione tipica o, se preferite, la teatralità, quella stessa che ha prodotto autentici geni come Eduardo e Totò, e unitamente un’emotività incontenibile, vulcanica. C’era la capacità comunicativa di un popolo abituato a vivere a stretto contatto di umanità, che si esprimeva nelle canzoni esaltanti il sole, il mare e gli affetti semplici e immediati, che sanno condire la vita di significato, o a livelli intellettulmente più raffinati nelle ardue e profonde riflessioni dei suoi filosofi, giuristi e storici. C’era, per chi sa guardare in profondità, un diffuso senso di solidarietà, una capacità di accoglienza che superava con generosità quasi istintiva differenze e pregiudizi. Era il grande cuore dei Napoletani!

Nella città moderna, disordinata e frenetica, tutto questo pare non esserci più. Prevale, piuttosto, un modo cupo di guardare all’esistenza, rassegnato e stanco. Quanto ai rapporti umani, essi sembrano inquinati dalla furbizia e dalla prevaricazione, per cui la diffidenza ha preso il posto della confidenza, la chiusura nel proprio dell’apertura e dell’attenzione verso l’altro. Oggi si corre, a Napoli come altrove, con la complicazione della rete stradale indaguata e del traffico sempre caotico. Ma si corre anche perché non si ha tempo per gli altri né per Dio. Trattiamo il tempo, la natura, le cose, come se ci appartenessero e ne potessimo disporre a piacere. Ciò ci rende distratti ed indisponibili.

Esasperati, depressi e sfiduciati, siamo diventati, alla fine, aggressivi e arrabbiati, polemici a tempo perso, scontenti sempre. Tutto si poteva dire un tempo dei Napoletani, tranne che non fossero simpatici. Oggi, siamo diventati senz’altro antipatici!

 

Clemente Sparaco


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