In Cristo quale umanesimo?

In Cristo quale umanesimo?
Verso il V Convegno nazionale ecclesiale (Firenze, 9/13 novembre 2015)

Nel lontano 1966, a Herrenchiemsee (Germania), il 29 aprile, per il congresso Christliche Humanität und Marxistischer Humanismus – organizzato dalla Paulus-Gesellschaft –, Karl Rahner tenne una conferenza dal titolo molto interessante per i nostri giorni: Umanesimo cristiano (Christlicher Humanismus). Rileggiamo qui il contributo di Karl Rahner come istanza critica per una nuova riflessione sull’umanesimo cristiano, in preparazione al V Convegno ecclesiale di Firenze (9-13 novembre 2015) che ha come traccia In Gesù Cristo il nuovo umanesimo.

1.1. Diverse interpretazioni

Prima ancora di formulare l’ardita e orgogliosa tesi secondo la quale cristianesimo e umanesimo formano un’unità e che l’umanesimo vero, pieno, più completo e cosciente, è appunto il cristianesimo, Rahner s’interrogò sul tipo di rapporto che effettivamente esiste tra cristianesimo e umanesimo, nella consapevolezza di come sia difficile definire sia il cristianesimo sia l’umanesimo. Di fatti, il rapporto tra cristianesimo e umanesimo non è determinabile con precisione. La stessa visione cristiana dell’esistenza e del mondo può essere soggetta a diverse interpretazioni all’interno della Chiesa cattolica e da parte di tutte le comunità cristiane interconfessionali. Così, si deve riconoscere che si hanno, già per l’interpretazione specifica, diverse forme del rapporto tra cristianesimo e umanesimo. Di fatti, la stessa antropologia cristiana ammette enunciati diversi – e a volte anche contraddittori – sulla persona umana, rispetto alle capacità realizzatrici dell’uomo concreto che vive in un contesto storico, sociale, politico, culturale, economico e religioso ben determinato. È certo, per noi come per Rahner, che, «anche all’interno dell’ortodossia ecclesiale, esistono diversissime interpretazioni dell’uomo e, quindi, diversissimi rapporti pratici con l’umanesimo. Agostino, Tommaso, Pascal, Theilhard de Chardin sono certo tutti cristiani. Ma la loro interpretazione cristiana dell’uomo e dell’umanesimo è ben diversa. Per non parlare poi del concetto di umanesimo in se stesso! Oggi ciascuno vuole essere un umanista. Eppure mai come oggi si è discordi nel dire che cosa sia, in realtà, un uomo».
Karl Rahner procede nella sua riflessione rimarcando alcuni dati (o postulati) della fede cristiana che possiamo così brevemente elencare:
– A partire dall’incarnazione del Verbo, nessuno più del cristiano è in grado di prendere tanto seriamente l’uomo;
– il cristianesimo, quindi, riconosce a ciascun uomo concreto un significato e una validità assoluti (ciò vuol dire che ogni persona umana ha l’assoluta necessità di affidarsi a se stessi, ossia di non privarsi di se stesso, cioè di esserci, di custodirsi nel bene);
– questo amore per l’uomo, per il suo “essere persona”, trova la sua massima affermazione nell’amore per il prossimo che porta il credente a dimenticarsi di se stesso e a prendersi cura dell’altro, senza far venir meno la profonda unità tra amore a Dio e amore al prossimo;
– più specificamente, l’amore per il prossimo non può essere solo un’inclinazione sentimentale o un’intercomunicazione privata, deve invece trasformarsi in servizio obiettivo di amore politico rivolto a tutta l’umanità, perché l’uomo è un essere politico.
Dopo queste affermazioni, Karl Rahner definì così il cristianesimo: «è la persona di Gesù Cristo», specificando che solo in Cristo si è realizzata, in forma perfetta e definitiva, l’unità tra amore a Dio e amore al prossimo, e che la salvezza si manifesta non soltanto nella prospettiva esplicitamente religiosa, ma in tutte le dimensioni dell’esistenza umana, quindi anche là dove l’uomo non «interpreta religiosamente in maniera riflessa il suo agire, ma pur vive in assoluta responsabilità, serve altruisticamente l’uomo e accetta le incomprensibilità e le delusioni dell’esistenza senza disperazione, cioè con un ultimo atto di speranza in un significato non compreso». È solo dal mistero dell’incarnazione e della passione, morte e risurrezione del Verbo incarnato – il Figlio di Dio, Gesù Cristo – che si può affermare che il cristianesimo proclama un umanesimo autentico e radicale, ossia che prende sul serio la radicalizzazione della forma di amore per il prossimo attraverso il dono di sé: «si amano gli altri solo quando si riconosce che Dio è l’unico a tenerci lontani dal commettere ingiustizie nei loro confronti, solo quando si comprende che bisogna amare sino alla fine della inutile morte».

1.2. La forma dell’amore: il Cristo crocifisso

Per “umanesimo radicale”, Karl Rahner intende l’amore per i nemici, ossia il dono della vita per il bene del prossimo, un umanesimo capace di aprire alla speranza e di creare futuro con amore creativo, donante, libero. Colui che è in grado di perdere la sua vita per l’altro realizza la forma più piena e autentica – radicale – di cristianesimo, ossia di vero umanesimo. Ogni sapere umano, tecnico e scientifico sulla persona umana non si completa senza l’enunciato teologico: «l’uomo è l’essere che si perde nel mistero di Dio». La persona umana è, per sua natura, orientata a Dio, se pur in maniera non riflessa o cosciente. In questa prospettiva, il cristianesimo non è anzitutto l’elaborazione e la proposta di un umanesimo ben preciso e concreto, bensì un umanesimo che è in grado di instaurare un dialogo con altri umanesimi e che s’incarna di volta in volta nella storia, nella vita politica, sociale, economica e religiosa di un popolo, di una comunità. Certo, il cristianesimo assume nel tempo delle forme concrete dalla sua forma sociale che è la chiesa, potendo generare – in senso negativo – anche un cristianesimo non umano. Con il postulato secondo il quale il cristianesimo è la persona di Gesù Cristo, Rahner riconosce che il cristianesimo non sancisce un proprio umanesimo concreto e che condanna qualsiasi umanesimo che si renda assoluto, che voglia quindi – esplicitamente o implicitamente – chiudere all’uomo qualsiasi apertura per un altro concreto futuro e, quindi, per il futuro assoluto che è Dio.
Per Rahner, il segno del vero cristianesimo, del vero umanesimo, ossia dell’umanesimo cristiano, è il Cristo crocifisso. È nel Cristo morente che si rivela concretamente la forma agapica del cristianesimo e, quindi, del vero umanesimo. Amare, in senso cristiano, è donare la vita: è dire all’altro “Tu non morirai, perché io morirò per te!”. Per il nostro teologo, il cristiano non deve dare un peso eccessivo alla morte del singolo. Il cristiano deve superare una certa allergia alla morte. Non solo perché dovunque e sempre si muore, ma perché in Cristo la morte è stata redenta, avvinta, trasformata. Alla luce della morte di Cristo, scrive Rahner, noi comprendiamo che la morte è uno spazio lasciato libero per nuove vite, per gli altri. «La morte è in primo luogo uno spazio messo a disposizione di nuovi arrivati […]. Essa può quindi essere un radicale atto di amore per il prossimo più lontano, se non altro perché non lascia il posto per questo o per quello, ma per ognuno».

1.3. Creare futuro

Se l’umanesimo è, concretamente, l’uomo stesso con la sua capacità di decidere liberamente quale figurazione dare al suo ambito esistenziale, a sua immagine e somiglianza, ossia come disporre di sé, e la morte è l’atto che relativizza noi stessi, la nostra libertà, il nostro esserci nel mondo – cioè l’evento che relativizza il nostro umanesimo concreto –, allora il cristianesimo è l’umanesimo più autentico e radicale che ci possa essere. Perché l’umanesimo autentico è solo quello che apre la persona – il proprio essere – al futuro. È in questa prospettiva – agapica e pasquale – che il cristianesimo può avanzare dei diritti – delle pretese – su ogni altro umanesimo. Senza anestetizzare il problema del male, della morte e della sofferenza, né cadere in un sorta di cinismo cristiano, Karl Rahner prova a chiarire che il cristianesimo è accettazione della morte di Cristo e prognosi della propria, quindi vive di quell’atto di fede e di speranza – nella pasqua – che si prolunga verso il futuro assoluto di Dio che nessun altro umanesimo può sperare o configurare. La critica che il cristianesimo può svolgere nei confronti di tutta l’umanità e di ogni umanesimo è quello di incitare l’umanità tutta a elaborare attivamente un umanesimo rivolto al futuro, ossia – per usare un linguaggio caro a Moltmann – un umanesimo messianico. «Il cristianesimo ha il compito, appunto perché cristiano, di cogliere questa possibilità».
Per Rahner, l’amore verso il prossimo, l’amore per i nemici, è possibile nella misura in cui impariamo a relativizzare noi stessi e accogliamo il futuro assoluto di Dio che si è manifestato in Cristo. Tuttavia, il cristiano, che si fida del futuro assoluto di Dio, non affronta meno seriamente il futuro che non conosce e, con la sua libertà, diventa capace di dialogare anche con chi si rappresenta un altro futuro areligioso e senza Dio. Il cristianesimo diventa umanesimo autentico nella misura in cui ogni cristiano fa della sua esistenza un appello concreto alla speranza nel futuro assoluto. Il cammino del cristiano verso il futuro consiste nello sforzo costante di attenuare le sue alienazioni interne ed esterne e nel diminuire la distanza fra quello che egli è e quello che deve essere. Il cristiano, partendo dalla speranza che è Cristo morto e risorto, realizza un vero umanesimo che confessa già in Cristo stesso l’inizio irreversibile della venuta di Dio quale futuro assoluto del mondo e della storia, ossia di un umanesimo nuovo, escatologico o anche messianico. Dunque, l’unico umanesimo possibile è quello messianico-escatologico che apre alla speranza di un mondo nuovo già attraverso il nostro impegno oggi, nella storia d’ogni giorno, sull’esempio di Cristo, l’eschaton. Tuttavia, concretamente, ci chiediamo: “In che modo il cristiano è capace di creare futuro?”. La risposta viene dall’ethos cristiano che è ben manifestato nell’esperienza di amore vissuta da Gesù Cristo. Creare futuro, per il cristiano, vuol dire amare senza misura, finanche i nemici. L’amore di Dio che Gesù ha annunciato e incarnato non è l’amore della reciprocità, ma l’amore preveniente e incondizionato. La sua forma più perfetta è quella dell’amore per i nemici. Si tratta dell’amore creativo che ci rende responsabili nei confronti dell’altro, chiunque egli sia. Chi risponde al male con il bene non si limita a reagire, ma produce qualcosa di nuovo. «Quando si amano i nemici non ci si chiede più come difendersi da essi, in che modo scoraggiarli dall’attaccare, quanto invece come toglier loro questi sentimenti di inimicizia […]. Questo modo di amare, dunque, è tutt’altro che etica di sentimenti, ma vera e propria “etica di responsabilità”». Si tratta di fare proprio il criterio cui s’ispira il discorso della montagna, ossia quello della figliolanza, dove Dio fa sorgere il sole suoi buoni e sui cattivi e piovere sui giusti e sugli ingiusti, dando vita e sostentamento a ogni cosa (cf. Mt 5,44-45).
È in questa prospettiva che possiamo e dobbiamo celebrare l’anno della misericordia, evitando due pericoli. Il primo è di ridurre il giubileo a un evento meramente celebrativo, fatto di manifestazioni e di facili entusiasmi, di porte che si aprono ma di cuori che restano chiusi e indifferenti. Da qui il bisogno di un vero discernimento e di una profonda conversione del cuore e della mente, come altresì del modo di essere e di agire, di credere e di pensare, di stare al mondo e di intessere relazioni, recuperando il senso biblico e teologico dell’amore misericordioso. L’agire di Dio è sempre giusto, ossia misericordioso: egli mantiene nel bene, in vita, ogni suo figlio. Dio sa cogliere ciò che di buono c’è in ogni persona. In questa prospettiva, il fondamento cristiano dell’amore è il Cristo crocifisso e risorto che rivela al mondo l’amore del Padre con l’effusione-dono del suo Spirito. L’ethos cristiano è profondamente trinitario, così come pure cristocentrico, pneumatico, ma anche e soprattutto agapico, comunionale, simbolico. Chi ama come Gesù è una persona veramente riconciliata, pacificata, che sa riconciliare e pacificare gli altri, ossia è diventata un vero strumento di pace. Da qui il monito di papa Francesco che non può lasciarci sereni: «La misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia».
Il secondo, invece, è di scadere nel buonismo, dimenticando che siamo stati redenti a caro prezzo e non con una grazia a basso costo. Ciò vuol dire che Cristo è la nostra vera e unica giustizia e che solamente in lui meritiamo il perdono e la misericordia del Padre. Nessuno è giusto davanti al Padre. Nessuno merita niente! La morte di Cristo, l’infame abbandono sulla croce, è il giudizio già avvenuto del Padre: lì sulla croce Cristo è morto non solo al posto di tutti, ma anche e soprattutto al posto mio, di ciascuno di noi. Questa è la vera giustizia! Il perdono, così come la misericordia, è grazia pagata a caro prezzo da Cristo, il Figlio di Dio! Questo vuol dire che l’umanità è di Dio, gli appartiene e che tutto ciò che è pienamente umano è anche pienamente divino. Perché in Gesù Cristo la realtà di Dio è entrata dentro la realtà di questo mondo e, dunque, non esistono più due realtà (Dio e il mondo), ma solo una realtà, e questa è la realtà di Dio nella realtà del mondo divenuta manifesta in Cristo. C’è una fedeltà a Dio e alla terra che non possiamo disattendere, che non deve essere assolutamente tradita. Lì dove il cristiano è segno dell’amore di Dio per il bene del mondo e del prossimo, lì si costituisce concretamente – perché si rende visibile – l’umano simbolico, ossia l’umano relazionale, comunionale, capace sempre di tessere nuove e autentiche relazioni.

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