Gesù è davvero risorto?

Indagando nel sepolcro vuoto
I Vangeli non descrivono la resurrezione, che non ha avuto testimoni, ma il rinvenimento del sepolcro vuoto ad opera delle discepole all’alba del 1o giorno dopo il sabato.
Tomba in Palestina del periodo di Gesù
Ma la prova del sepolcro vuoto, sin dall’inizio, si presentò come debole. Perciò, già nel vangelo di Matteo, compare traccia di un’accusa da parte ebraica ai discepoli di sottrazione del cadavere per simularne la risurrezione: “…alcuni della guardia giunsero in città e annunziarono ai sommi sacerdoti quanto era accaduto. Questi si riunirono allora con gli anziani e deliberarono di dare una buona somma di denaro ai soldati dicendo: ’Dichiarate: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa verrà all’orecchio del governatore noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni noia’. Quelli, preso il denaro, fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi” (Mt 28,10-15).
Il fino ad oggi rinvia a prima del 70, in quanto Matteo scrive prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme. Giustino (nel secolo II) riporta la stessa diceria: “È sorta un’eresia senza Dio e senza Legge da un certo Gesù, impostore Galileo; dopo che noi lo avevamo crocifisso, i suoi discepoli lo trafugarono nottetempo dalla tomba ove lo si era sepolto dopo averlo calato dalla croce, ed ingannano gli uomini dicendo che è risorto dai morti e asceso al cielo” (Dialogo con Trifone). Matteo risponde all’accusa, scrivendo che una guardia di sorveglianza al sepolcro era stata assicurata su richiesta dello stesso Sinedrio (Mt 27,62-66).
Ora, senza entrare nel merito di complesse questioni esegetiche e storiche, dalla polemica emerge un dato: ai tempi di Matteo la tomba era ritenuta da tutti vuota. Gli Ebrei lo spiegarono col trafugamento, i cristiani con la resurrezione, ma non sarebbero stati credibili né gli uni né gli altri, se nella tomba ci fosse stato il cadavere di Gesù ed è impensabile che non lo si sia verificato. E appare improbabile che l’asportazione del cadavere sia riconducibile ai sacerdoti, in quanto proprio loro avevano richiesto la guardia al sepolcro (Mt 27,64-66). Né possono essere stati i discepoli, che, colpevoli del trafugamento, davanti a chi li torturava, hanno preferito essere lapidati (Stefano), crocifissi a testa in giù (Pietro), bruciati vivi (Lorenzo), piuttosto che confessare.
 
Il racconto del IV Vangelo
Scrivendo anni dopo i Sinottici, Giovanni dà del rinvenimento della tomba vuota una versione più ampia, soffermandosi, in particolare, su quanto visto all’interno.
Il racconto evangelico inizia, in accordo con i Sinottici, dal momento in cui Maria di Magdala si reca di buon mattino alla tomba: “Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, “e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: ‘Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!’” (Gv, 20,1-2).
Si noti che, indicando giorno e ora, Giovanni vuole rimarcare che quanto sta descrivendo è effettivamente avvenuto. Quindi, si apprezzi una conferma rispetto ai Sinottici: una donna, Maria di Magdala, che fu tra le poche presenti alla crocifissione, è la prima testimone della tomba vuota. E dalle parole da lei rivolte a Pietro si capisce che non era sola: «…e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Ma cosa vanno a fare le donne al sepolcro?
Vi si recano per il cordoglio. Esso doveva durare 3 giorni e comportava portare aromi e spargerli sulla tomba. Era invece assolutamente vietato riaprire la tomba di un cadavere in piena putrefazione. Sono, quindi, le donne “le prime in quell’alba del giorno dopo il sabato a vivere l’esperienza sconvolgente del sepolcro vuoto…” (G. Ravasi, I Vangeli della passione). Ed è questo un elemento di veridicità, perché “difficilmente un racconto com’è questo della sepoltura e risurrezione di Gesù, composto per motivi catechistici o apologetici, avrebbe messo in scena delle donne come testimoni della tomba vuota di Gesù (Rinaldo Fabris, Gesù di Nazareth). Nell’Israele antico, infatti, la testimonianza della donna aveva poco, se non nullo, valore giuridico.
Ma né la tomba vuota né la scomparsa del corpo sono segni inequivocabili, tant’è che le donne restano incerte: “entrate non trovarono il corpo del Signore. Mentre erano incerte per questo…” (Lc, 24,4). Tutte le supposizioni erano autorizzate, a cominciare dal furto, come pensa Maria di Magdala e come sosterranno i detrattori della resurrezione.
Affreschi Bizantini della Cripta di San Vito Vecchio, Gravina in Puglia
Alla notizia della Maddalena Pietro e Giovanni corrono insieme al sepolcro, ma Giovanni, più giovane, arriva per primo: “Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò” (Gv 20,3-5).
Il “chinatosi” è un frammento di ricordo diretto. L’archeologia ha confermato infatti che, come tutte quelle dei notabili d’Israele, anche la tomba di Giuseppe d’Arimatea era scavata nella roccia. L’apertura era più bassa della statura di un uomo, cosicché, per entrarvi, o anche solo per guardarvi dentro, occorreva “chinarsi“; proprio come raccontano Luca e Giovanni.
Giovanni, dunque, guarda senza entrare, attendendo Pietro, per una forma di riguardo e, al contempo, perché resta bloccato da quanto intravede.
Pietro entra per primo nel sepolcro e vede, ma non comprende. Invece Giovanni entrando “e vide e credette”: “Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro e vide e credette” (Gv 20,6-8)
Ma perché l’altro discepolo (così Giovanni si nomina) credette, a differenza di Pietro che, pur vedendo, “tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto” (Lc 24,12), non avendo ancora “compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (Gv 20,9)?
Dal contesto si evince che “credette” non si riferisce alla tomba vuota, ma a qualcosa di visto là dentro, che lo indusse di colpo a credere. Cosa?
La versione CEI del vangelo, ricalcando la Vulgata di San Girolamo, traduce indifferentemente con vedere i 3 diversi verbi greci usati da Giovanni (blépei, theórei, eíden). Si perde così una sfumatura importante, con la quale l’evangelista sembra aver voluto indicare una progressione: dal primo constatare con perplessità al contemplare successivo, per arrivare al vedere pienamente, avendone ormai piena contezza. Eiden (vide) è, quindi, immediatamente collegato a episteusen (credette). Giovanni “e vide e credette”, ossia credette nel momento stesso in cui vide. Questa simultaneità esprime cosa avviene nella coscienza di Giovanni, che non inizia a fare supposizioni o riflessioni teologiche, ma in modo fulmineo crede.
Giovanni è l’apostolo prediletto, “colui che Gesù amava” (Gv 21,20), colui che nell’ultima cena “stava adagiato sul suo petto” (Gv 13,23). Gli è rimasto vicino fin sotto la croce e Gesù gli ha affidato Maria, cosicché “da quell’ora la prese con sé” (Gv 19,26-27). Egli, che ha espresso un amore profondo per il suo rabbi, fra tanti che entrano nel sepolcro, è il solo che non resta frastornato, ma crede. Perché?
Per rispondere, bisogna prima interrogarsi su: “che valore ha quest’attenzione così minuziosa alle fasce di lino che legavano mento, piedi e braccia di Gesù e al sudario che gli copriva il volto? Perché questa descrizione accurata della loro posizione all’interno della camera sepolcrale? Perché i lini diventano un simbolo della risurrezione di Cristo?” (Gianfranco Ravasi, I Vangeli della passione).
Sono tutti particolari che rimandano alle tecniche, agli usi, ai costumi funerari, dell’Israele antico. Occorrerà, quindi, esplorare in questa direzione.
 
La sepoltura di Gesù
Gesù morì, stando ai Sinottici, all’ora nona (3 del pomeriggio), ma le operazioni per la sepoltura iniziarono più tardi, quando, “venuta la sera” (Mt, 27,57; Mc, 15,42), occorreva non attardarsi per il sopraggiungere del sabato. Ciononostante la preparazione del corpo fu accurata e completa (non affrettata e provvisoria).
L’uomo della Sindone
Giovanni, usando il verbo entafiazo, che significa esattamente ‘preparare un cadavere per la sepoltura’ e non semplicemente ‘seppellire’, descrive con precisione come essa di fatto avvenne” (Antonio Persili, Sulle tracce della resurrezione).
La preparazione dovette iniziare con l’acquisto del lenzuolo da parte di Giuseppe d’Arimatea: “egli, allora, comprato un lenzuolo...” (Mc 15,46). Da esso (un rotolo di tela di alcuni metri) fu ricavato la sindone, in cui il Gesù fu avvolto, come specificano i Sinottici: “lo avvolse in un lenzuolo” (Mc. 15,46; Mt. 27,59; Lc. 23,53). Sindón che, in senso secondario, significa “lenzuolo” (vela, vessillo ecc.), in senso primario è “tessuto di lino”, “tela“. Non c’erano lenzuoli funerari da comprare: i morti erano sepolti dagli Ebrei con le loro vesti. Gesù invece era completamente nudo (tranne, forse, uno straccio alle reni), poiché le sue vesti, come per ogni condannato a morte, erano state spartite fra i soldati.
 Giovanni riferisce dell’uso degli unguenti per la preparazione del cadavere e, dando per scontato il previo avvolgimento nella sindone, descrive la fase successiva dell’imbalsamazione: “Presero dunque il corpo di Gesù e lo legarono con panni di lino (othonia in greco) insieme con aromi, come è usanza di seppellire presso i Giudei” (Gv. 19,40). Ai panni di lino fa un breve cenno anche Luca raccontando di Pietro che accorre al sepolcro vuoto dopo l’annuncio delle donne (Lc 24,12).
Le othonia erano le grosse fasce con le quali fu avvolto il corpo di Gesù, escludendo la testa. Furono ricavate dallo stesso rotolo di tela da cui era stata ricavata la sindone. Non erano semplici bende, perché per indicare queste Giovanni, descrivendo quelle che legavano il cadavere di Lazzaro, usa il termine keiria (Gv 11,44).
Messe tutt’intorno al corpo sino a coprire interamente il lenzuolo e usate per legarlo, le fasce avevano anche la funzione di impedire una rapida evaporazione del liquido aromatico (la “mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre” portata da Nicodemo – Gv 19,39), che si sarebbe verificata se la sindone fosse stata a contatto con l’aria. Un’altra parte del liquido fu versata sulla pietra sepolcrale a preparare un letto di profumi e un’altra servì per ungere le pareti interne della tomba
Coordinando i particolari dei Sinottici e giovannei, se ne ricava che il corpo del Crocifisso deve essere stato interamente avvolto in una grande tela: la sindone. Tale avvolgimento previo era necessario per evitare di toccare direttamente il cadavere onde non incorrere in una grave impurità e per obbedire ad una specifica prescrizione della Legge, che imponeva di seppellire il defunto di morte violenta con il suo “sangue di vita“, senza detergerlo (mishna Rabba). Perciò il corpo non venne lavato, ma avvolto semplicemente.
L’operazione di avvolgimento e legamento fu preceduta e seguita dall’applicazione di 2 sudari: il primo, all’interno della sindone, con funzione di mentoniera (per impedire che la bocca si spalancasse per il cedimento dei muscoli della mandibola), il secondo, all’esterno, per completare l’avvolgimento e il legamento.
Quando tutto fu finito, il corpo fu trasportato all’interno, sul banco scavato nella roccia e “fu rotolata una grande pietra sulla porta del sepolcro” (Mt 27,60).
 
La resurrezione vista da Giovanni
Per capire cosa vide Giovanni e perché credette subito nella risurrezione bisogna leggere il testo originale greco (lo faremo traslitterando in caratteri latini): “…kai parakupsas blepei keimena ta othonia, u mentoi eiselthen”. (Gv. 20,5).
La Bibbia CEI traduce: “Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò”. Ma uno studioso, don Antonio Persili, già parroco a Tivoli per molti anni, morto nel 2011, che dedicò una vita allo studio di quei versetti ha offerto una diversa traduzione: “Chinatosi, scorse le fasce distese, ma non entrò”.
Il punto è dirimente, tant’è che l’evangelista, in ciascuno dei due versetti seguenti (6 e 7), torna a farvi riferimento. Che cosa ha voluto comunicarci Giovanni, ripetendo 3 volte in 3 versetti successivi keímena tà othónia?
Se traduciamo keímena (participio del verbo keimai, corrispondente al latino jacere) con distese, piuttosto che per terra, e othónia con fasce, piuttosto che con bende, equivalenti ad una copertura completa sino al collo, ecco che vediamo configurarsi l’immagine che Giovanni si trovò di fronte quel giorno in quella tomba vuota. Così commenta il Persili: “Il significato che Giovanni vuol dare a questo verbo è far risaltare che prima le fasce erano rialzate (…), perché all’interno c’era il corpo; dopo la Risurrezione, invece, le fasce erano abbassate, distese (…), giacendo nel medesimo posto in cui si trovavano quando contenevano il cadavere di Gesù”.
Keimai significa, dunque, giacere, essere disteso, seduto, steso, in orizzontale, e “si dice di una cosa bassa in opposizione ad una elevata, eretta, come per esempio il mare calmo rispetto al mare agitato” (così nel vocabolario greco-italiano Bonazzi). Si aggiunga che Girolamo nella Vulgata traduce keímena tà othónia con linteamina posita, dove il participio posita (=messe giù) rende l’idea delle fasce distese e vuote.
Perciò – conclude Persili – le due parole keímena tà othónia si devono tradurre come ‘le fasce distese’, ma intatte, non manomesse, non disciolte (…). Esse costituiscono la prima traccia della Risurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce; semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere quelle fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera”. (Sulle tracce del Risorto).
Ma una seconda traccia della resurrezione Giovanni riscontrò nella posizione del sudario.
Risulta, infatti, così sorprendente la posizione del sudario, quello che stava a diretto contatto del corpo, che Giovanni usa un intero versetto di 20 parole per descriverlo: “…kai to sudarion, o en epi tes kefales autu, u meta ton othonion keimenon alla khoris entetuligmenon ei sena topon” (Gv. 20,7). E anche in questo caso abbiamo una diversa traduzione:
e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte” (CEI)
e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto in una posizione unica” (Persili).
Il sudario era “non per terra con le bende”, appiattito sulla pietra sepolcrale, ma in una posizione rialzata e, per questo, singolare, unica, sorprendente. Persistendo in posizione rialzata, continuava, infatti, a conservare la forma ovale del capo intorno a cui era stato legato. Così commenta un biblista argentino: “La prima frase, in greco, non recita che ‘non era insieme al lenzuolo’, ma che ‘non era disteso come il lenzuolo’. La seconda parola, poi, non significa ‘piegato’ bensì ‘arrotolato’. (…) il sudario che prima era stato legato intorno al capo di Gesù non era più disteso, liscio, come il lenzuolo. (…) continuava ad essere arrotolato e a conservare la sua forma ovale, come se si ostinasse a circondare ancora il volto del Signore, che in realtà non c’era più e che sembrava che si fosse smaterializzato(A. A.Valdés, Cosa sappiamo della Bibbia?).
 
Il segno della resurrezione
Volto dell’uomo della Sindone
Il segno della resurrezione non sono le apparizioni, riservate ai discepoli (non a “farisei e sadducei”) né la tomba vuota, che non rappresenta un argomento credibile di per sé, in quanto la semplice scomparsa del cadavere autorizzava diverse supposizioni, a cominciare dal furto.
Fasce e sudario rimasti intatti nell’assenza del corpo che avvolgevano costituiscono invece il segno che induce Giovanni a credere. “La mancanza di ogni segno di effrazione e di manomissione nelle tele, dalle quali nessuno poteva essere uscito o essere stato estratto, e quella posizione “incomparabile” del sudario, ancora alzato, ma sul vuoto del lenzuolo sottostante distesosi sulla pietra del sepolcro; giustificherebbe l’immediato comprendere di Giovanni e il suo arrendersi – per primo nella storia – alla realtà di una risurrezione che aveva lasciato tracce mute ma così eloquenti”. (V. Messori, Dicono che è risorto).
 
 
di Clemente Sparaco

Commenta per primo

Lascia un commento