“ESPULSIONI E GHETTI”

Storia dell’ebraismo 6. Gli ebrei in Italia nel XVI secolo

In seguito all’espulsione dalla Spagna nel settembre del 1942 giunse a Napoli don Izchaq Abravanel, che apparteneva a una famiglia di amministratori del pubblico erario e di finanziatori di imprese regie. Egli si era anche presentato da Ferdinando e Isabella per cercare di far revocare l’editto di espulsione, ma invano. “Abranavel venne ben accolto alla corte napoletana e in seguito diede un contributo non irrilevante alla politica estera di Venezia. Uomo di vasti interessi intellettuali e autore di importanti commenti biblici, fu padre di Jehudà, noto con l’epiteto di Leone l’Ebreo (ca. 1460-1523), medico, poeta e filosofo platonizzante, autore dei Dialoghi sull’amore scritti in italiano” (P. Stefani, Introduzione all’ebraismo, 51). In effetti, la vicenda di Abravanel non fu un caso isolato in Italia, poiché l’umanesimo-rinascimemtale era stato particolarmente aperto verso la cultura ebraica. Sono da ricordare, per il loro apporto alla cultura italiana, anche il drammaturgo e poeta, che scriveva in ebraico e in italiano, Leone dei Sommi (detto anche Portaleone, 1527-1592), Azaria de’ Rossi (ca. 1511-1578), il cui figlio Salomone fu un importante musicista alla corte dei Gonzaga.
Anche in Italia però ci fu un brusco cambiamento. Gli ebrei furono espulsi dai territori spagnoli della Sardegna e della Sicilia già nel 1492. Il regno di Napoli passò al dominio spagnolo e gli ebrei vennero espulsi anche da questa regione (tra il 1510 e il 1516). La Repubblica di Venezia per prima istituì il ghetto (1516), per un certo periodo riservato ai soli ebrei di origine tedesca. La situazione divenne più drammatica con il clima della Controriforma, che portò alla promulgazione di varie bolle da parte dei pontefici.
La prima bolla antigiudaica fu quella di Paolo IV (1555), intitolata Cum nimis absurdum, in cui si legge nel preambolo: “Poiché è assurdo e sconveniente al massimo grado che gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di essere protetti dall’amore cristiano e tollerati nella loro coartazione in mezzo a noi, mostrare tale ingratitudine verso i cristiani da oltraggiarli per la loro misericordia (…)”. Per evitare la paventata commistione, venne istituito il ghetto entro i confini dello Stato pontificio. Agli ebrei venne consentito come attività commerciale l’apertura del banco dei pegni (il cui interesse venne diminuito al 12%), degli abiti usati e delle robe vecchie. Vennero inasprite le misure vessatorie e nel 1569 Pio IV con una bolla consentiva agli ebrei di abitare solo nel ghetto di Roma e di Ancona.
Temporaneamente le misure vessatorie vennero addolcite, per diventare poi nuovamente molto restrittive. Clemente VIII, alla fine del XVI secolo, promulgò delle bolle con cui condannava il Talmud, e venne nuovamente imposto agli ebrei l’obbligo di risiedere nei ghetti. “Progressivamente il ghetto fu esteso anche alle zone d’Italia non direttamente controllate dal papa. Tale misura restrittiva fu imposta, in maniera più o meno rigida, anche in altri paesi fino a quando la Rivoluzione francese e in modo pressoché definitivo le rivoluzioni del 1848 non ne decretarono l’abolizione (il ghetto che ebbe la vita più lunga fu proprio quello di Roma abolito solo nel 1870 dopo la breccia di Porta Pia)” (Stefani, 52).
“Nel 1555 sale al soglio pontificio il cardinale Caraffa col nome di Paolo IV: è il più feroce e accanito persecutore degli Ebrei e degli eretici in genere.
Ha solo quattro anni di pontificato (1555-1559); diviene papa all’età di 79 anni, avendo già un nipote cardinale.
Subito dopo la sua elezione, e precisamente il 14 luglio 1555 egli emana la bolla antiebraica: Cum nimis absurdum…, i cui punti principali sono: segregazione degli Ebrei (ghetto); segno giudaico; divieto assoluto di trattare e parlare con Cristiani se non per necessità di lavoro; proibizione di avere beni stabili; proibizione di tenere banco aperto nei giorni festivi cristiani; proibizione ai medici ebrei di curare Cristiani, anche se chiamati e pregati; disposizioni riguardanti i prestiti e il computo degli interessi; proibizione di tenere le scritturazioni nei libri dei prestiti in caratteri ebraici, in modo che questi siano sempre soggetti a controllo (ed è appunto da questo momento che gli Ebrei perdono l’abitudine di scrivere italiano con caratteri ebraici e cominciano a servirsi dei caratteri latini); permesso di esercitare il solo mestiere di cenciaiuoli; limitazione a una sola sinagoga per città; e, naturalmente, proibizione di tenere nutrici e domestici cristiani.
Siamo cosi a una svolta della nostra storia: mai finora c’era stata una così dura repressione antiebraica; dopo un periodo di relativa tolleranza, si precipita nella più cupa reazione. E più della metà degli Ebrei d’Italia vive in questo tempo entro i confini dello Stato pontificio (Campania, Lazio, Umbria, Marche, Romagna). La Comunità di Roma che si compone di 1500 anime, la maggiore d’Italia – offre 40 mila scudi per fare abrogare questa bolla; ma invano.
Entra subito in vigore l’obbligo del segno giudaico, e si dà inizio alla costruzione delle mura del ghetto; naturalmente, a spese degli Ebrei. Uguale provvedimento viene esteso anche a Bologna, dove sono ben undici sinagoghe, e la Corporazione ebraica dei cambiavalute; gli Ebrei bolognesi sono rinchiusi nel ghetto l’8 maggio 1556 (4); e ben presto tale provvedimento viene esteso a tutte le altre città dello Stato pontificio. Sempre in forza della stessa bolla, entro sei mesi gli Ebrei devono vendere le loro proprietà, che sono cedute a condizioni disastrose; e siccome non potevano possedere neanche le case del ghetto, nelle quali pure dovevano abitare, perché non fossero soggetti a continui ricatti, viene fissata una legge, detta, con espressione ibrida, Jus hazakkà, che regolava i rapporti fra i proprietari delle case del ghetto e gli inquilini ebrei.
Naturali conseguenze di queste persecuzioni sono abiure e fughe verso terre più ospitali, specialmente presso i Duchi di Urbino e i Signori di Ferrara. Ma il caso più triste di queste persecuzioni avviene ad Ancona, dove un gruppo di marrani portoghesi, fra i quali si trovava il famoso medico Amato Lusitano, aveva trovato rifugio ottenendo garanzia di protezione da parte dei papi.
Paolo IV annulla senza preavviso la concessione dei suoi predecessori (1556): 24 marrani, tra cui una donna, vengono bruciati vivi in uno spaventoso auto da fè in una piazza della città; gli altri sono imprigionati. Di questi, uno si uccide in carcere, 27 sono inviati alle galere a Malta, 30 riescono a evadere corrompendo il commissario pontificio. Pochi altri si rifugiano a Pesaro, per invito del Duca di Urbino; tra questi c’era Amato Lusitano, che poi riparò a Salonicco, dove morì di peste”.
Cf. www.morasha.t/ebrei_italia04.html 

di Lucia Antinucci

Commenta per primo

Lascia un commento