Sulla sofferenza. Per un «amabile dovere di crescere»

Sulla sofferenza. Per un «amabile dovere di crescereÂ

V.A. Amodio – E. Cesarini, Sulla sofferenza. Per un «amabile dovere di crescere», Intersezioni, Il Segno dei Gabrielli editori 2023, San Pietro in Cariano (Verona) 2023, pp. 109, euro 15.

«Da un lato, la Materia è fardello, la catena, il dolore, il peccato, la minaccia incombente sulle nostre vite […]. È ciò che appesantisce, che soffre, che ferisce, che tenta, che invecchia. Chi ci libererà da questo corpo di morte? Ma nello stesso tempo, la Materia è gioia fisica, il contatto esaltante, lo sforzo virilizzante, la felicità di crescere. È ciò che attrae, che rinnova, che fiorisce, che unisce. Grazie alla Materia siamo nutriti, alleviati, collegati al resto, invasi dalla vita. Chi ci darà un corpo immortale» (p. 87, citazione di Pierre Teilhard de Chardin); «Bisogna fare il possibile per evitare catastrofi e lottare contro le malattie e le sofferenze, ma se tali eventi si verificano vanno accolti come esperienze particolari della complessità del reale, i cui frammenti non sono privi di un senso unitario, nemmeno se si tratta del paradosso i cui due poli sono il vivere e il morire» (p. 91, citazione di Pavel Aleksandrovic Florenskij); «Vivere è soffrire; trovare il senso della sofferenza è super-vivere […]. La vita conserva il suo senso anche quando si svolge in un campo di concentramento, quando non offre quasi più nessuna prospettiva di realizzare dei valori» (pp. 101-103, citazione di Viktor Frankl); «Dolore è il rompersi del guscio che racchiude la vostra intelligenza» (p. 13, citazione di Khalil Gibran); «Dio si è incarnato e ha sofferto per non essere inferiore all’uomo» (p. 67, citazione di Simone Weil).

Attraverso una carrellata di citazioni di poeti, filosofi, letterati, teologi, scienziati e sopravvissuti a sofferenze immani, credenti e non, gli autori di questo piccolo saggio indagano e aiutano “a pensare” il mistero del dolore e della sofferenza in rapporto alle nostre capacità di risposta davanti al problema del male. Il primo autore è medico psichiatra e psicoterapeuta. Il secondo autore è laureato in ingegneria dell’automazione e si occupa di counseling supervisor, in particolare dei problemi circa il rapporto tra identità personale e ruoli lavorativi. Ci sembra di capire che il messaggio centrale del saggio è il seguente: anche se il dolore fisico e la sofferenza morale sono realtà che abbracciano e devastano la persona in tutta la sua complessa realtà psico-somatica e spirituale, ognuno di noi è chiamato a riempire di senso (non solo etico ma proprio valoriale) l’esperienza del male che tocca l’esistenza. In questa prospettiva, ma solo in questo modo, perché in sé e per sé il dolore e la sofferenza non hanno alcun valore e alcun senso, è possibile fare riferimento a un «effetto educativo della sofferenza, se accettata, compresa, “valorizzata”» (p. 7), indipendentemente dalla fede in un Dio che salva, libera e soffre con noi.

«Gli autori sono entrambi cultori del pensiero di Pierre Teilhard de Chardin, forse l’unico che ha saputo offrire all’uomo una spiegazione accettabile – anche se comunque difficile da vivere – del “perché” della sofferenza dopo averla sperimentata nella condizione infernale delle trincee nella Prima Guerra Mondiale […]. Sarebbe presuntuoso ritenere di aver fornito, in queste pagine, risposte “definitive” al tema e agli interrogativi abissali che pone; ma forse qualche lettore potrà trovarvi delle “piccole” risposte» (p. 8).

È, per noi, condivisibile questa breve Presentazione che pone in rilievo la sofferenza come mistero innanzi al quale non è possibile trovare risposte definitive. A volte, però, la proposta affascinante e attualissima di Pierre Teilhard de Chardin appare (o potrebbe sembrare) ingenua, soprattutto quando ci si confronta con il male morale inflitto agli innocenti e si prende atto di certi stadi di sofferenze e di livelli di malattie psico-fisiche che sopraggiungono indebitamente e che di “evolutivo” non hanno un bel niente perché non aprono ad alcuna forma di speranza, di “vita altra” o a un “mondo altro”, ma sollecitano a chiedere la fine della propria esistenza, a “recidere” la trama dell’ordito, in altri termini “a farla finita”. Se è vero che l’’homo faber deve fare i conti con la propria finitezza e allargare gli orizzonti di senso, è altrettanto vero che non è semplice accettare il dolore pensando che l’umanità è in cammino, in evoluzione, verso un fine comune, verso una nuova entità nota come Noosfera. Nella ricerca di senso, del perché della sofferenza, la visione evolutiva esercita un certo fascino nel momento in cui si prende atto dello stato d’incompiutezza nel quale ci troviamo. Certamente, l’approccio biologico-evolutivo non “risolve” il problema morale e non permette di ri-significare il male o il dolore che proviamo, ma forse non ha mai avuto questa pretesa o illusione neanche Teilhard de Chardin.

Il senso d’incompiutezza che sperimentiamo dentro e fuori di noi, nel corpo e nello spirito, nella mente e nella volontà, è solo il punto di partenza della nostra esistenza e non un passo semplicemente da superare: ci offre solo la percezione di essere in cammino, in evoluzione, in cambiamento, verso un dove, però, non lo sappiamo. La Noosfera a volte sembra essere come una panacea adatta per tutti i mali di stagione. Spesso l’homo patiens è smarrito, disorientato, senza meta, privo di punti di riferimento e non vuole neanche essere circondato da consolatori stucchevoli. Tuttavia, porsi delle domande, andare alla ricerca di un perché del dolore, è già un buon punto di partenza che evita di restare passivi innanzi alle prove dell’esistenza e alla sofferenza in tutte le sue forme. Anche la nostra capacità di aprirci a un Tu superiore, all’Altro, facendo leva sulle forze interiori delle nostre relazioni, non permette di risolvere il problema del male e del dolore. È chiaro che, raccontandoci, impegnandoci nel superamento del nostro io, sarà possibile, almeno per un istante, spostare l’attenzione su ciò che è altro da noi, ossia verso tutto il mondo che in realtà non ci circonda ma del quale siamo parte e nel quale ci muoviamo. Può succedere, però, che la ricerca si senso sia, in realtà, un semplice esercizio di sopravvivenza, come quello compiuto dalle vittime del nazismo e del terrorismo e del male inflitto gratuitamente. È il caso della giovane ebrea Etty Hillesum (1914-1943) divenuta guida spirituale per ebrei, cristiani e agnostici, pur dichiarandosi un “gomitolo arrovigliato”, “costipata spiritualmente”, e segnata dalla Shoah attraverso la deportazione ad Auschwitz. Internata ad Auschwitz nel settembre del 1943, Etty muore dopo tre mesi: aveva speso la sua esistenza a consolare, ad ascoltare, a dare speranza, a incoraggiare, senza giudicare quei poveri aguzzini che le avevano rovinato la vita. Innanzi a ogni sentimento di violenza, di vendetta, di risentimento, Etty si difende così: «Penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive […]. Io vivo, vivo pienamente e la vita vale la pena di viverla ora, oggi, in questo momento: e se sapessi di dover morire domani direi: mi dispiace, ma così com’è stato è stato un bene» (pp. 96-97). Etty ci insegna che il dolore è parte della vita, anche quando viene inflitto all’innocente e gratuitamente: la possibilità della morte fu integrata nel pensiero stesso della vita, di voler continuare ad esistere, ad esserci. Perché la vita è sempre bella e ricca di significato: «Arrivo sempre alla stessa conclusione: la vita è bella e credo in Dio. Voglio stare in mezzo ai dolori e dire ugualmente che la vita è bella […]. Ho il coraggio di guardare in faccia ogni dolore» (p. 100).

Gli autori si rendono conto, citando Carl Gustav Jung, che non c’è presa di coscienza senza sofferenza (cf. p. 9) e, per questo, riconoscono che la sofferenza è una componente non eliminabile dalla totalità del reale e nella loro riflessione si coglie un profondo rispetto nei confronti di tutti coloro che hanno in corso una sofferenza interiore, con particolare riferimento ai pazienti incontrati. «Ciascuno porta dentro di sé un dolore che non sempre è dato di esprimere» (p. 11). Questo saggio, secondo noi, prova a far uscire il grido del proprio dolore per mettersi in cammino e cercarne un possibile senso.

[Edoardo Scognamiglio]

 

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