Elie Wiesel e la crisi della fraternità: La Shoah

Eliezer Wiesel, detto Elie, nato a Sighetu (Transilvania) il 30 settembre 1928 e morto a New York il 2 luglio 2016 , scrittore, giornalista, saggista, premio nobel per la pace nel 1986. Il 6 maggio 1944 venne deportato ad Auschwitz con la sua famiglia. Qui venne subito separato dalla madre e dalle sorelle che probabilmente vennero uccise poco dopo il loro arrivo nella camera a gas. Il padre morì poche settimane prima che il Campo venisse liberato, l’11 aprile 1945.

La ‘Notte’ dell’umanità – Wiesel racconta nel romanzo ‘La Notte[1] la sua esperienza ad Auschwitz, Buna e Buchenwald. Wiesel testimonia che Auschwitz è la morte dell’uomo; non è soltanto il suo annientamento fisico, ma soprattutto psicologico e morale. L’uomo che subisce continuamente umiliazioni e sofferenze, che è costretto ad una condizione di vita subumana, quasi animalesca, alla fine, non potendo cambiare la situazione, finisce con l’assuefarsi alla bestialità. In questo modo si verifica la ‘rivolta dell’uomo contro l’uomo’ non contro l’oppressore, ma contro il proprio simile, contro l’altro oppresso. L’annientamento del proprio simile consente quella parvenza di sopravvivenza a cui psicologicamente ci si abitua. Non c’è spazio per la solidarietà, per la vicinanza amicale all’altro. Questa rivolta contro il proprio simile arriva al culmine quando si attua nei confronti del proprio amico e addirittura del proprio padre. Il figlio cerca di sopprimere il padre per essere più libero nella sua sopravvivenza subumana. I personaggi della Notte hanno l’oscurità nel cuore, si muovono tra le tenebre e, più che essere vivi, sono dei cadaveri ambulanti che si sopprimono a vicenda.Anche Wiesel, racconta nella Notte, è insidiato dalla legge bestiale della sua sopravvivenza a scapito degli altri, che si manifesta, ad esempio, con la razzia di un pezzo di pane raffermo e di una ciotola di minestra disgustosa. Anche Eliezer si sente annientato nella sua dignità ed alla dine della sua interminabile tragica vicenda, scopre che ormai  egli è solo un ‘cadavere’, che la morte è impressa nel suo sguardo e non lo abbandonerà più. Sullo sfondo della ‘morte dell’uomo nella Notte compare anche la morte di Dio, non come negazione della sua esistenza, ma come negazione della sua presenza misericordiosa[2]. Il romanzo autobiografico si apre con il personaggio Moshé lo Shammash (inserviente della sinagoga) che diventa la figura emblematica di tutta la vicenda. Moshé era il factotum della sinagoga chassidica di Sighet (Transilvania)[3], che per primo è stato testimone delle atrocità della Gestapo. Dopo aver assistito allo spettacolo ludico dei nazisti che gettavano i neonati per aria a far da bersaglio ai mitra, egli che era già di per se taciturno ma molto religioso, non parla più di Dio, testimone del ‘silenzio di Dio dinanzi alle atrocità della Shoah. Moshé testimonia le atrocità per mettere in guardia gli altri, affinché possano salvarsi: “Sono voluto tornare a Sighet per raccontarvi la mia morte, perché possiate prepararvi finché c’è ancora tempo. Vivere? Non ci tengo più alla vita. Sono solo. Ma sono voluto tornare ad avvertirvi. Ed ecco che nessuno mi ascolta”[4].

Wiesel racconta che il primo violento impatto con la tragedia fu la ‘deportazione’, dopo essere stato concentrato con gli altri ebrei nel ghetto di Sighet. Tutti pensavano illusoriamente che quello fosse il massimo della tragedia, che dopo sarebbero venuti giorni migliori, ed invece l’annientamento dell’identità umana era appena cominciato: “Pensavamo senza dubbio che non c’era sofferenza più grande nell’inferno di Dio che quella di restare lì seduti, sul selciato, fra i pacchi, in mezzo alla strada, sotto un sole incandescente, e che poi tutto sarebbe stato meglio in confronto a ciò”[5]. Quando Elie comincia a prendere coscienza della tragedia che ha fatto irruzione nella sua vita, della violenza fisica e morale a cui sta andando incontro, comincia a nascere in lui l’odio verso gli artefici di tanto dolore: “E’ in quel momento che ho cominciato a odiarli, e il mio odio è l’unica cosa che ci lega ancora oggi”[6]. Dopo questo accenno, Wiesel non parlerà più di tale odio, che rimarrà però sempre il motivo di fondo, poiché l’oppresso  sarà diventato avvilito e debilitato a tal punto che non avrà pi la forza di ribellarsi con l’odio esplicito. Esso, paradossalmente, si tradurrà con l’indifferenza oppure con l’ostilità verso coloro che condividono la sua tragica sorte. Durante il viaggio verso la ‘morte’ i deportati vennero caricati, racconta Wiesel, in convogli di carri bestiame, soffrendo la mancanza d’aria, la sete, il caldo opprimente; non si potevano sdraiare per dormire e dovevano sedersi a turn. Una donna durante il viaggio cominciò a dare segni di follia. La situazione si fece esasperante a tal punto che, per farla stare zitta, cominciarono a colpirla violentemente[7]. Già durante il viaggio di deportazione la tolleranza reciproca e la solidarietà cominciarono a franare, perché le leggi umane erano state del tutto annullate. I deportati, vivendo in una situazione disumana, cominciarono a diventare disumani tra di loro. Wiesel evidenzia che le sofferenze e le umiliazioni di Auschwitz avevano portato lui, come del resto anche gli altri deportati, a concentrare l’attenzione sulla propria sopravvivenza che s’identificava, come già sottolineato, con la misera razione di cibo quotidiano. Dell’umanità ormai non restava che la pura fisicità, il bisogno di fame e sete: “Ormai non m’interessavo ad altro – egli scrive – che alla mia scodella quotidiana di zuppa, al mio pezzo di pane raffermo. Il pane, la zuppa: tutta la mia vita. Ero un corpo. Forse ancora meno: uno stomaco affamato. Soltanto lo stomaco sentiva il tempo passare”[8]. La sopravvivenza si identificava con la capacità di sopportazione: la forza per subire ogni maltrattamento, senza lasciarsi sfiorare dall’illusione di potersi ribellare a tutto ciò.

Nella Notte Wiesel narra che un giorno Idek venne colpito violentemente dal kapò ed un’operaia francese gli disse: “Morditi le labbra, fratellino… Non piangere. Conserva la tua collera e il tuo odio per un’altra volta, per dopo. Verrà un giorno, ma non ora…Aspetta. Stringi i denti e aspetta”[9]. Elie fu testimone delle gassazioni e delle cremazioni, anche di neonati; fu testimone di impiccagioni. I condannati non piangevano “perché già da tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime”[10]. La disumanità nelle relazioni fra i deportati arrivò al punto che gli stessi figli diventarono violenti con i padri: “Ho visto un giorno – racconta Eliezer – uno di loro, di tredici anni, picchiare il padre perché non aveva fatto bene il letto. Mentre il vecchio piangeva sommessamente l’altro urlava: Se non smetti subito di piangere non ti porterò più il pane. Capito?”[11]. Durante il viaggio, in seguito all’evacuazione del campo, chi non riusciva più a farcela non sempre veniva abbattuto dalle SS, perché spesso veniva schiacciato dai suoi stessi compagni che, per non essere uccisi, non potevano interrompere la corsa[12]. Racconta Elie che il figlio di Rabbi Eliahu, in questa circostanza, vide il padre perdere terreno perché zoppicante, ma nonostante ciò continuò la sua corsa: “Aveva voluto sbarazzarsi di suo padre! Lo aveva visto in difficoltà; aveva creduto che ormai fosse la fine e aveva cercato quella separazione per togliersi di dosso quel peso, per liberarsi di un fardello che poteva diminuire le proprie possibilità di salvezza”[13]. Il padre, invece, ignaro di essere stato abbandonato, continuò disperatamente a cercare il proprio figlio!

Man mano che la sofferenza diventava sempre più acuta, i deportati reagivano sempre più con la sopportazione passiva e diventavano impassibili ai bisogni naturali[14]. L’agonia si radicava nel loro essere a tal punto che non c’era neanche più il bisogno di lamentarsi: “Camminavo – scrive Wiesel – in un cimitero, fra corpi irrigiditi, fra tronchi di legno. Non un grido di sconforto né un lamento: soltanto un’agonia di massa, silenziosa. Nessuno chiedeva aiuto. Si moriva perché bisognava morire. Non si facevano difficoltà”[15]. Elie testimonia che per impossessarsi di un pezzo di pane, un figlio colpì violentemente il proprio padre, fino a farlo morire. La sua morte lasciò tutti indifferenti. Anche il figlio però venne ucciso, perché altri vollero impossessarsi del suo pezzo di pane[16]. La violenza per il bisogno di fame diventò così preponderante da indurre ad uccidere i propri compagni di sventura per impossessarsi del cibo. I nazisti, in effetti, riuscirono a far diventare i deportati ‘bestiali e feroci’ come loro, sottoponendoli alla precarietà assoluta. Eliezer racconta: “Nel carro dove era stato gettato il pane era scoppiata una vera e propria battaglia. Si buttavano gli uni sugli altri, pestandosi, dilaniandosi, mordendosi. Animali da preda scatenati, odio bestiale negli occhi”[17]. I vivi si rallegravano quando venivano portati via i cadaveri dal carro bestiame, in cui erano stati ammucchiati a Gleiwitz, perché in questo modo c’era più posto ed i superstiti di dividevano avidamente i vestiti dei defunti.  Quando i deportati arrivarono alla fine del loro viaggio, ruppero il silenzio del loro dolore, in modo collettivo, per cui dal treno si diffuse un unico rantolo di morte: “Improvvisamente un grido si alzò nel vagone, il grido di un animale ferito: qualcuno era appena morto. Altri, che si sentivano ugualmente sul punto di morire, imitarono il suo grido, e le loro grida sembravano venire d’oltretomba. In poco tempo tutti gridavano. Pianti, gemiti, grida di disperazione lanciante attraverso il vento e la neve. Altri vagoni ne furono contagiati, e centinaia di grida si levarono contemporaneamente. Senza sapere contro chi, senza sapere perché: il rantolo di tutto un convoglio che sentiva avvicinarsi la fine”[18]. A Buchenwald ebbe termine il viaggio di Eliezer. Egli non riuscì neppure a gustare la gioia della fine del tormento, perché la sua unica preoccupazione, come del resto anche degli altri compagni, fu quella di trovare cibo. Egli non aveva neanche più la forza di soffrire per i suoi cari che non c’erano più. I ‘sopravvissuti’ erano tali solo apparentemente: tutto il loro essere era dolore e morte. L’unico meccanismo che li faceva muovere, come degli automi, era il bisogno di fame. I sopravvissuti erano deceduti inesorabilmente nella loro umanità. Wiesel esprime con vigore questo senso di morte totale, alla fine del suo racconto autobiografico. Quando riuscì finalmente a trovare la forza di guardarsi allo specchio, si rese conto della estraneità a se stesso: “Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più”[19]. La Notte, anche se si conclude con l’accenno alla liberazione, rivela l’assenza di speranza nel futuro, perché Auschwitz ha segnato l’avvento del nichilismo assoluto.

Eliezer rivela il radicarsi in lui di un senso di rivolta, non solo contro l’umanità omicida e crudele, ma anche contro lo stesso Dio che è il Signore della storia. Wiesel, nel suo intimo, non può tollerare che vengano bruciati i corpi dei neonati: “Io mi pizzico la faccia: ero ancora vivo? Ero sveglio? Non riuscivo a crederci. Com’era possibile – egli scrive – che si bruciassero degli uomini, dei bambini e che il mondo tacesse? No, tutto ciò non poteva essere vero. Un incubo… Presto mi sarei risvegliato di soprassalto, con il cuore in tumulto, e avrei trovato la mia stanza, i miei libri…”[20]. La rivolta di Wiesel (che era stato introdotto alla mistica ebraica) contro l’umanità è anche la rivolta contro Dio, perché Egli non interviene per cambiare la drammatica situazione. “Per la prima volta – egli dice – sentii la rivolta crescere in me. Perché dovevo santificare il Suo Nome? L’Eterno, il Signore dell’Universo, l’Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarlo?”[21]. Wiesel contesta l’assenza di Dio, non di un Dio miracolistico, che fa a meno dell’uomo perché interviene sempre direttamente nelle vicende, ma del Dio immanente alla storia, che si rende presente attraverso l’azione dell’umanità. E’ l’assenza dell’Umanità che porta Wiesel a parlare dell’assenza di Dio ed a scontrarsi, dolorosamente, con essa. La metafora della ‘notte’ serve ad Elie per esprimere proprio il dramma dell’assenza di Dio. Si tratta di un’oscurità radicale, infinita, che penetra in tutta la sua esistenza: “Mai dimenticherò quella notte – dice Wiesel -, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata”[22]. La notte radicale di cui parla Eliezer è l’esperienza del Male Assoluto, che rende  l’umanità capace dell’autoannientamento, del proprio incenerimento: “Mai dimenticherò quel fumo. / Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. / Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. / Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. / Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. / Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai”[23]. Questa esperienza devastante, espressa poeticamente, ha determinato   un mutamento radicale, irreversibile in Eliezer.Egli non è stato più l’uomo religioso che interroga pacatamente il suo Dio. Egli è diventato il giudice di Dio, colui che lo contesta con rabbia e amarezza, perché l’Altissimo è venuto meno al suo rapporto di alleanza: “Ero diventato del tutto un altro uomo – scrive Wiesel. Lo studente del Talmud, il ragazzo che ero, si erano consumati nelle fiamme. Restava soltanto una sembianza. Una fiamma nera si era introdotta nella mia anima e l’aveva divorata”[24]. Alcuni compagni di Elie, nonostante lo sconforto, continuarono a pregare, a parlare di Dio. Egli rifiutò tutto ciò e l’esperienza del Male lo portò a rivedere la sua concezione di Dio: “Alcuni parlavano di Dio, delle sue vie misteriose, di peccati del popolo ebraico e della liberazione futura. Io avevo smesso di pregare. Come capivo Giobbe! Non avevo negato la Sua esistenza, ma dubitavo della Sua giustizia assoluta”[25]. Wiesel non nega l’esistenza di Dio; ciò sarebbe stato meno provocatorio. Egli mette in dubbio la bontà di Dio, perché vuole spronarla, paradossalmente, a manifestarsi. Elie, nel suo racconto autobiografico, riporta ironicamente il pensiero di Akiba Drumen, secondo il quale il dramma che stanno vivendo gli ebrei è una ‘prova’ voluta da Dio per vincere Satana. Secondo tale logica, il castigo spietato, sarebbe paradossalmente il segno dell’amore di Dio. Wiesel prende le distanze da Hersch Genud che esortava alla speranza, perché la fine del mondo e la venuta del Messia sarebbe stata prossima. Eliezer prende le distanze dalle tesi teologiche tradizionali. La sua teologia immanente, antropologica, non gli consente di dogmatizzare il dolore, oppure di distogliere lo sguardo da esso per contemplare la futura gioia escatologica. Wiesel assume il dramma storico in tutta la sua cruda realtà, che mette in crisi la verità dell’Umanità. Dio, essendo compromesso con essa, va in crisi anche la credibilità della sua giustizia. Egli non ricerca spiegazioni consolatorie; lascia l’interrogativo aperto e riafferma a più riprese il suo ‘perché’ dinanzi a Dio. Il suo non tentare risposte concilianti, a mio avviso è in effetti autentico rispetto del silenzio di Dio e del suo Mistero inaccessibile. Tutto ciò è anche manifestazione della grandezza umana perché, nonostante la non-risposta di Dio, l’uomo persiste nel suo interrogarsi, nella sua ricerca esistenziale e teologale, passando anche attraverso l’ateismo di protesta.

La rivolta di Wiesel si riconfermò nel giorno di Rosh Hashanà, l’ultimo giorno dell’anno maledetto, in cui gli ebrei, annientati e torturati, continuarono a lodare il loro Dio: “Chi sei Tu, mio Dio, – pensavo con rabbia – scrive Wiesel – in confronto a questa folla addolorata che viene a gridarti la sua fede, la sua ira, la sua rivolta? Che significa la Tua grandezza, Signore dell’Universo, di fronte a tutta questa debolezza, di fronte a questa decomposizione, a questa putrefazione? Perché turbare ancora i loro spiriti malati, i loro corpi infermi?”[26] . Gli ebrei benedicevano il nome dell’Eterno e Wiesel, provocatoriamente, ricordava a Dio che non ci sono le sue grandi opere da celebrare ad Auschwitz, ma soltanto opere di dolore e di morte ingiusta: “Ma perché, ma perché benedirlo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come avrei potuto dirGli: Benedetto Tu sia o Signore dell’Universo, che ci hai eletto fra i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare?”[27]. La conclusione della provocatoria polemica con Dio, del suo processo all’Altissimo, è la condanna di Dio e l’assoluzione dell’uomo, paradossalmente. Il silenzio di Dio, secondo Wiesel, fa risaltare che l’uomo è più grande di Lui: “Sì, l’uomo è più forte, più grande di Dio […]. Ma questi uomini qui, che Tu hai tradito, che Tu hai lasciato torturare, sgozzare, gassare, bruciare, che fanno? Pregano davanti a Te! Lodano il Tuo nome!”[28]. La storia, però, attesta chiaramente che è l’uomo il responsabile delle opere del male. Se Wiesel, invece, assolve l’uomo è perché egli fa riferimento alla vicenda della vittima, dell’innocente, del giusto che riecheggia la figura biblica di Giobbe. La rivolta contro Dio, che si dimostra ‘meschino’ nei confronti dell’ebreo torturto, si esprime anche nel rifiuto del digiuno per Yom Kippur, il giorno del grande Perdono: “Non c’era più nessuna ragione – scrive Elie – perché digiunassi. Non accettavo più il silenzio di Dio. Inghiottendo la mia gamella di zuppa vedevo in quel gesto un atto di rivolta e di protesta contro di Lui. E sgranocchiavo il mio pezzo di pane: In fondo al mio cuore sentivo che si era fatto un grande vuoto”[29]. Psto inesorabilmente dinanzi al silenzio di Dio, Wiesel non ricerca pietistiche consolazioni, ma sceglie la sua solitudine radicale: “I miei occhi si erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini, senza amore né pietà. Non ero nient’altro che cenere, ma mi sentivo più forte di quell’Onnipotente, al quale aveva legato la mia vita così a lungo”[30]. In questo contesto di ‘condanna’ di Dio, a causa della sua indifferenza oppure, addirittura, del suo compiacimento per il dolore ingiusto degli ebrei, fa contrasto la considerazione di Wiesel circa la sofferenza di Dio, in seguito all’impiccagione del pipel tredicenne, del piccolo servitore olandese, amato da tutti, che aveva il volto di un angelo infelice. Dinanzi all’assurdità della morte del piccolo innocente, che agonizzò per più di mezz’ora, risuonò nel campo l’interrogativo sconcertante: “Dov’è dunque Dio? / E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: / – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”[31]. Wiesel qui sembra aver intuito la risposta ai suoi interrogativi, alla sua polemica con Dio. Il Dio che è assente, il Dio che sembra contraddire la sua alleanza, è invece ancora una volta alla sua immanenza nel suo popolo. Dio è ad Auschwitz con il suo popolo, per farsi gassare e impiccare! La rivolta di Wiesel è, in effetti, il suo non voler accettare un tale paradosso, perché sconvolge la sua concezione classica di Dio. Wiesel, nell’oscurità più totale della sua notte radicale, percepisce la presenza della luce che si nasconde fra le tenebre.

Eliezer ed il padre – Wiesel ha sperimentato anche la crisi del suo rapporto con il padre, la distruzione dei suoi sentimenti filiali[32]. Eliezer, estenuato dalla marcia per l’evacuazione dal campo, dalla fame e dal freddo, dal dolore al piede, che era stato operato da poco, cominciò ad essere affascinato dall’idea della morte: “Non sentire più nulla: né fatica, né freddo … Nulla. Saltare fuori dalla fila, lasciarsi scivolare sul margine della strada … La presenza di mio padre era l’unica cosa che mi tratteneva … Correva al mio fianco, senza fiato, allo stremo delle forze, alla fine. Io non avevo il diritto di lasciarmi morire, che avrebbe fatto senza di me? Ero il suo unico sostegno”[33]. Quando arrivarono a Buchenwald il padre decise di lasciarsi andare, perché ormai era allo stremo delle forze[34]. Venne dato l’allarme ed il figlio, in quel momento, si dimenticò di lui. Elie si rese conto che aveva abbandonato il padre ed in lui emersero sentimenti contrastanti: “Sapevo che era allo stremo delle forze, sull’orlo dell’agonia, eppure l’avevo abbandonato. Partii alla sua ricerca. Ma nello stesso istante nacque in me questo pensiero: ‘Purché non lo trovi! Se potessi sbarazzarmi di quel peso morto, così da poter lottare con tutte le mie forze per la mia sopravvivenza, occupandomi solo di me stesso’. E subito ebbi vergogna, vergogna per sempre di me stesso”[35]. I sentimenti contrastanti riemerso in Eliezer anche quando si privò di parte della zuppa per il padre ammalato. Nel fare ciò egli provò una forte riluttanza[36]. Egli si scontrò con i vicini di blocco che picchiavano ed insultavano il padre, ma nello stesso tempo non rifiutò il consiglio del medico di appropriarsi del cibo del padre: “Lo ascoltai – scrive Elie – senza interromperlo. Aveva ragione, pensavo nell’intimo di me stesso, senza che osassi confessarmelo. Troppo tardi per salvare il tuo vecchio padre, mi dicevo. Potresti avere due razioni di pane, due razioni di zuppa. Una frazione di secondi solamente, ma mi sentii colpevole”[37] La crisi di umanità filiale di Wiesel arrivò al culmine negli ultimi istanti di vita del padre. Un ufficiale colpì con una violenta manganellata il padre agonizzante ed Elie ancora una volta non ebbe il coraggio di reagire, per salvare la sua incolumità. Il padre morente, invece, ebbe l’ultimo pensiero per il figlio, invocando il suo nome. Wiesel fu preso dal rimorso, ma il mostro che ormai si era insinuato in lui, non lo abbandonò e gli fece provare piacere per il fatto di liberasi finalmente di un peso: “La sua ultima parola era stata il mio nome. Un appello, e io non avevo risposto. Non piangevo, e non poter piangere mi faceva male: ma non avevo più lacrime. E poi, al fondo di me stesso, se avessi scavato nelle profondità della mia coscienza debilitata, avrei forse trovato qualcosa come: finalmente libero! …”[38]. Dal racconto della Notte emerge chiaramente che l’umanità filiale era inesorabilmente compromessa. La paternità, invece, nonostante l’indifferenza o l’ostilità filiale, manifesta sempre un amore generoso e tenace.

L’ebreo errante – In quest’opera affronta la questione della responsabilità storica di Auschwitz, a partire dal processo Eichmann, tenutosi a Gerusalemme. Egli afferma che la tragedia dello sterminio degli ebrei è un fatto di una tale gravità che non può essere considerato soltanto nella prospettiva storica, poiché chiama in causa lo stesso mistero di Dio [teologie dell’olocausto o teologie post-Auschwitz][39]. E’ difficile poter capire come due popoli si siano trasformati l’uno in assassino e l’altro in vittima docile e silenziosa. Per l’autore della Transilvania l’ottica del processo è molto limitata, perché porta alla conclusione giuridica che qualcuno è colpevole e gli altri sono innocenti, invece “se gli Eichmann sono colpevoli, vuol dire che anche gli altri lo sono”[40]. Senza nulla togliere alla responsabilità di Eichmann, secondo Wiesel bisogna chiamare in causa tutta l’Europa e tutta l’Umanità. Nei paesi europei in cui la popolazione locale si è opposta alla deportazione degli ebrei (ad esempio in Danimarca, Francia, Belgio, Olanda) essa non ha avuto luogo, oppure in forma minore. La deportazione, invece, è stata fortemente appoggiata dagli ucraini, slovacchi, ungheresi e soprattutto polacchi: “Non è stato un caso che i campi peggiori siano stati costruiti in Polonia e non altrove”[41]. Tutto il mondo libero ha lasciato agire i nazisti, rileva Wiesel: Roosevelt, Churchill, il Papa non hanno fatto sentire la loro voce. Gli stessi ebrei non hanno fatto molto: “L’ebraismo americano non si è quasi mosso, non ha usato la sua influenza politica e finanziaria, non ha smosso cielo e terra come avrebbe dovuto fare”[42]. Neppure i Sionisti della Palestina hanno fatto abbastanza per avvertire e aiutare le comunità ebraiche d’Europa. Gli ebrei della Transilvania, deportati qualche giorno prima dello sbarco in Normandia (maggio-giugno 1944) erano del tutto ignari della sorte che li attendeva ad Auschwitz: “Questo è accaduto nella primavera dell’anno di grazia 1944, quando ogni bambino di Brooklin, di Whitechapel e di Tel Aviv già sapeva che Treblinka e Birkenau erano tutt’altro che piccole stazioni di provincia”[43]. Gli ebrei della Palestina, come testimonia l’atteggiamento di Chaim Ewizmann, si comportavano come se ciò che succedeva in Europa non li riguardasse affatto. Essi prendevano le distanze dai loro fratelli ebrei poiché non avevano seguito i loro ideali sionisti. Non venne ritenuto opportuno prelevare del denaro destinato alla costruzione della Palestina per salvare gli ebrei della diaspora. Le grandi organizzazione ebraiche, in effetti, erano incapaci di superare le loro piccole questioni interne per realizzare un’azione comune. Il Comitato di emergenza per salvare il popolo ebraico fu boicottato da tutti i leader ebrei americani.Secondo Wiesel al processo Eichmann, lo stesso procuratore generale, Gideon Hausner, lo stesso Primo Ministro, David Ben Gurion, avrebbero dovuto gridare: “Prima di giudicare gli altri dobbiamo riconoscere i nostri errori, le nostre debolezze. Non abbiamo tentato l’impossibile, ma neanche abbiamo esaurito il possibile”[44]. Quando il nazismo era al potere c’era un’apatia generale verso la questione ebraica. Quando il nazismo è caduto ognuno ha cominciato ad incolpare l’altro per la deportazione degli ebrei: è questo il paradosso che Wiesel denuncia decisamente. L’Autore afferma che durante il processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme, paradossalmente, le stesse vittime del nazismo sono finite sotto accusa. E’ stato chiesto loro perché non si fossero ribellate ai nazisti, perché non avessero opposto resistenza. Le vittime hanno risposto: “Voi non potete sapere, chi non è stato laggiù non può capire”[45]. Chi scampava alla selezione si sentiva colpevole della morte del compagno. Gli psichiatri Bruno Bettelheim e Vicktor Frankl, per spiegare il ‘consenso delle vittime’, hanno parlato di disintegrazione della personalità, del risveglio del desiderio di morte. La spiegazione metafisica mette in evidenza il ‘senso di colpa’, soprattutto di matrice religiosa, di cui erano impregnati i prigionieri. Per il motivo religioso l’uomo si sente peccatore e subisce il castigo per espiare il peccato. Successivamente insorge anche il senso di rivolta, come dimostra l’esempio di Giobbe. La situazione disumana rendeva il senso di colpa più acuto. Il prigioniero si sentiva colpevole perché non era morto al posto del compagno di deportazione. Chi scampava alla selezione si sentiva colpevole della morte del compagno. Il Lebensschien, evidenzia l’Autore, è una tortura morale che porta avedere nella vita l’ingiustizia e nella morte la liberazione. L’uomo concentrazionario perdeva la sua identità, il suo destino individuale, perché apparteneva ad una collettività condannata. L’essere scampati ad una selezione comportava un sentimento di gioia che, con il passare del tempo, diventava senso di colpa: “Il sentimento di libertà, di essere stato risparmiato, equivale a confessare: sono contento che un altro se ne sia andato al mio posto. E’ per pensare a questo che i prigionieri, aiutati da un meccanismo di difesa, riuscivano a dimenticare così presto i loro compagni, i loro genitori selezionati”[46]. I deportati si sono lasciati sacrificare per solidarietà con coloro che sono andati incontro alla morte docilmente: fare diversamente sarebbe stato un tradimento! Per capire bene quanto è accaduto si dovrebbero ascoltare i reduci, ma essi si sono chiusi nel silenzio, perché si sentono colpevoli: “Allora, in questo mondo condannato, invece di lanciare la sfida all’uomo, la loro ira in faccia alla storia, preferiscono tacere e continuare il monologo che solo i morti meritano di sentire: La colpa non è stata inventata ad Auschwitz, vi è stata solamente sfigurata”[47].

Il silenzio delle vittime – Wiesel si pone l’interrogativo sul senso del comportamento incomprensibile degli ebrei nell’Europa concentrazionaria: “Perché sono entrati nella notte come il bestiame va al mattatoio?”[48]. La società civile, che ha lasciato agonizzare milioni di ebrei, ora li fa diventare dei reduci per bombardarli di domande. Se prima questo argomento era un tabù, ora, in nome della ricerca storica, è diventato un tema alla moda per i circoli intellettuali, le serate mondane e, sottolinea Eliezer con ironia, “eccellente rimedio per scacciare la noia e accendere le passioni”[49]. Psichiatri, attori, romanzieri pensano di avere la risposta chiara sull’argomento. Tutti concordano sul fatto che le vittime, partecipando al gioco del carnefice, sono corresponsabili. Per Wiesel tutto ciò manifesta ancora una volta la tendenza universale a vedere negli ebrei sempre dei colpevoli: “Finora si consideravano gli ebrei responsabili di tutto ciò che accadeva sotto il sole, della morte di Gesù, delle guerre fratricide, delle carestie, della disoccupazione e delle rivoluzioni: incarnavano il male. Adesso li si considera responsabili della loro morte: incarnano questa morte”[50]. Wiesel afferma che i morti di Auschwitz ora sono sottoposti ad un’ingiusta umiliazione: l’umanità vuole parlare al loro posto, ha la presunzione di scoprire le motivazioni che hanno indebolito la loro volontà. Nell’uomo c’è il bisogno impellente di capire la storia ed allora è fondamentale cogliere il rapporto tra Auschwitz ed Hiroshima: è un rapporto di causa ed effetto. Infatti “è Auschwitz che genera Hiroshima, e se il genere umano scomparirà a causa della bomba atomica, questo sarà il castigo di Auschwitz, dove, nella cenere si spensero le promesse dell’uomo”[51]. Wiesel contesta la presunzione di coloro che ritengono di essere in grado di capire Auschwitz. Chi l’ha vissuto incespica, non sa nulla. Eliezer, tuttora, è incapace di comprendere il sorriso spaventato del bambino strappato alla madre per farlo diventare una torcia umana. Wiesel preferisce stare dalla parte del bambino e della mamma e non dalla arte di coloro che, in nome della scienza, credono di poter decifrare la tragedia. Tutto ciò costituisce soltanto una bestemmia! Eliezer preferisce stare dalla parte di Giobbe, perché è colui che fa domande e non dà risposte; è colui che sceglie i silenzi e non i discorsi. Il dramma di Giobbe è stato quello di essere tradito dal proprio Dio. Il silenzio di Giobbe durò tre notti e tre giorni, dopodiché interrogò Dio. Invece oggi il silenzio dell’umanità di fronte alla tragedia di Auschwitz dovrebbe prolungarsi per secoli. Secondo l’Autore, quindi, il vero modo di rispettare le vittime di Auschwitz è quello di entrare nel silenzio, di lasciare che gli interrogativi siano tali senza esito. E’ doveroso porsi degli interrogativi, ma bisogna sapere che ogni risposta è inadeguata, perché contiene solo un briciolo di verità. Auschwitz trascende le risposte, le teorie aprioristiche, perché è un mistero di morte, è un mistero inaccessibile: “Le risposte non fanno che aggravare le domande: le idee e le parole devono alla fine cozzare contro un muro più alto del cielo, un muro di corpi umani che si estende all’infinito”[52]. Wiesel è l’uomo della rivolta, della contestazione e lo riafferma nell’opera L’Ebreo errante a vent’anni dalla tragedia. Egli ribadisce la contestazione delle parole dei filosofi e degli psicologi, in nome dell’incomprensibilità di ciò che ha vissuto. Costituisce un’eccezione all’universale atteggiamento di presunzione, evidenzia Elie, quello dei tre giudici del processo Eichmann, che hanno affermato che la loro conoscenza del dramma può essere solo esterna, in quanto si basa sull’accertamento dei fatti e degli avvenimenti. La comprensione di Auschwitz, invece, è impossibile, perché in esso c’è il mistero che sfugge, anzi “forse questo è il dono che Dio, in un momento di grazia, fece all’uomo: gli impedì di capire tutto, così lo salva dalla follia, o dal suicidio”[53]. Secondo Eliezer, Auschwitz costituisce il fallimento di duemila anni di civiltà cristiana, ma è anche la sconfitta dell’intelligenza che vuole trovare un senso alla storia, ma  le morti di Auschwitz non hanno un senso: “Il carnefice uccideva per nulla, la vittima moriva per nulla. Nessun Dio aveva ordinato all’uno di innalzare i roghi né all’altro di salirci”[54].

Alle vittime del nazismo è stato chiesto perché non si sono ribellate, in quanto erano in maggioranza numerica rispetto ai carnefici [all’inizio non sapevano cosa li aspettava; poi, debilitati, ammalati, senza armi, come avrebbero potuto combattere contro i nazisti?]. Chi ci è stato può rispondere solo di non capirci nulla. Wiesel si chiede ancora, come esempio, perché non è impazzita quella donna a cui i compagni hanno soffocato il bambino, perché il suo pianto attirava l’attenzione dei nazisti. L’umanità non ha il diritto di fare delle domande alle vittime. Chi non ha fatto nulla per impedire il massacro, adesso deve avere il pudore di tacere: “Le sue domande  – ribadisce l’Autore – vengono un po’ in ritardo; è al carnefice che avrebbero dovuto essere rivolte. Esse vi tormentano? Non vi lasciano dormire in pace? Tanto meglio. Voi volete sapere, capire, per voltar pagina, non è vero? Per poter dire: il caso è chiuso e tutto è rientrato nell’ordine”[55]. Wiesel è pienamente convinto che quanto ha affermato Eichmann, come pure gli altri nazisti, corrisponde al vero che la sorte degli ebrei non interessava a nessuno. I nazisti, infatti, erano molto prudenti. Prima di procedere ulteriormente nella loro politica antiebraica, si fermavano per attendere le reazioni. Esse furono inconsistenti, per cui i nazisti portarono avanti il loro piano di sterminio senza ostacoli. Essi affermavano di uccidere gli ebrei per il bene di tutto il mondo, non solo della Germania. L’umanità non ha fatto nulla per impedire il massacro. I prigionieri erano consapevoli che il mondo volutamente li ignorava [è una questione dibattuta]: “Sapendosi abbandonati, esclusi, rinnegati dal resto dell’umanità, la loro marcia verso la morte, fiera, anche se docile, diventava un atto di lucidità, di protesta, e non di accettazione e di debolezza”[56]. Se i prigionieri avessero saputo di avere degli alleati avrebbero resistito, ma non è stato così. La solitudine degli ebrei nel loro cammino verso la morte è unica nella storia[57]. Nel Medio Evo gli ebrei, cacciati da un paese, venivano accolti da un altro, mentre “durante l’era hitleriana la cospirazione contro di loro sembra universale”[58]. Gli ebrei erano considerati una specie di ‘sottouomo’ a cui non si può applicare la fraternità umana [antigiudaismo diffuso oppure antisemitismo]. Tutto questo però non sminuisce la colpevolezza dei tedeschi, né serve a comprendere il comportamento delle vittime. Wiesel sottolinea paradossalmente che le vittime hanno sofferto più per l’indifferenza quasi universale che per le sevizie dei carnefici[59]. I deportati, sapendo che non potevano più contare su nessuno, cessavano di essere attaccati alla vita: il mondo era diventato per loro inospitale. Osserva Wiesel: “Ad Auschwitz è morto non soltanto l’uomo, ma è morta anche l’idea dell’uomo. Molti non volevano più vivere in un mondo in cui non c’era più nulla, in cui il carnefice agiva da Dio, da giustiziere. Perché è il proprio cuore che il mondo bruciava ad Auschwitz”[60]. Elie esprime tutta la sua rabbia per una tale ingiustizia, ma precisa che non si tratta di odio, perché l’odio non serve a nulla.

Egli deplora vivamente il fatto che l’umanità ora voglia processare i morti di Auschwitz, perché non sono stati capaci di continuare a credere nell’uomo, nonostante l’orrore che sperimentavano. Tutto questo dimostra chiaramente la mancanza di amore, di pietà, di compassione nei confronti delle vittime. Wiesel critica coloro che vogliono tutto classificare per distribuire certificati di buona o cattiva condotta. Egli rimprovera all’umanità uno smisurato orgoglio, una presunzione di saccenteria. L’Autore ritiene di non poter dire che tutti i morti a causa del nazismo siano innocenti, perché anche questo sarebbe esprimere un giudizio nei loro confronti. Quando parla di colpa egli la intende sempre in modo personale, per il fatto di aver visto gli altri morire e di essere sopravvissuto. Auschwitz, luogo dell’odio e della morte, del disprezzo verso se stessi, ha reso degli uomini deboli, cioè le loro vittime, più crudeli degli stessi nazisti. Egli si riferisce, ad esempio ai sadici kapò, agli ebrei che picchiavano i loro fratelli. Wiesel si chiede spesso che cosa sarebbe stato di lui se fosse rimasto più a lungo nel campo: “Sono  circa vent’anni che cerco di rispondere e, a volte, dopo una notte d’insonnia, ho paura della risposta. Voi non avete paura. Queste domande, che voi affrontate come si affronta un teorema o un problema scientifico, non vi fanno paura. Anche questo vi rimprovero”[61]. Elie ribadisce che l’atteggiamento delle vittime va capito alla luce dell’incomprensibilità dell’indifferenza dell’umanità nei loro confronti, che può essere dovuta solo ad una follia collettiva[62]. Se gli ebrei non hanno opposto resistenza, afferma Wiesel provocatoriamente, è perché l’umanità non ha meritato questa lezione di grandezza e di coraggio. La grandezza delle vittime sta nel fatto che sono andate incontro alla morte a fronte alta, guardandola in faccia. L’unico modo per rispettare i morti di Auschwitz è quello di abbassare lo sguardo ed ammettere di non capire. Auschwitz è il regno del non-senso, del mistero, e per entrare in esso bisogna immergersi nel silenzio, nelle tenebre. Ad Auschwitz gli uomini sono andati incontro alla morte in silenzio, non curanti  delle umiliazioni e delle torture. Questi uomini, osserva Wiesel, sanno che non devono rendere contro a nessuno, neanche a Dio. L’unico modo per rispettare i morti è lasciarli tranquilli, senza proiettare su di essi la nostra colpevolezza. Per rispettare la verità storica, Eliezer evidenzia che c’è stata una minoranza di ebrei che ha tentato la resistenza, con scarsissimi mezzi. Nonostante le condizioni di precarietà, di assoluto disagio, uomini, donne, bambini hanno trovato la forza fisica e morale per combattere contro i nazisti. Ciò attesta che  se a tutti i deportati avessero fatto avere delle armi non ci sarebbe stato il massacro degli ebrei. Tutto questo si è verificato, rimarca Wiesel, perché “gli ebrei erano soli: gli uomini più soli della guerra”[63]. Dinanzi alla morte che sconcerta l’intelligenza bisogna abbassare la testa e restare in silenzio. L’Olocausto dimostra che forza è illusoria, che in ogni uomo c’è una vittima braccata che si vergogna. Elie conclude la sua riflessione su Auschwitz con un monito: “Il Talmud insegna all’uomo di non giudicare mai un amico finché non si troverà al suo posto. Ma, per voi, gli ebrei non sono amici; non lo sono mai stati; è perché non avevano amici che sono morti. Allora, imparate a tacere”[64].

Conclusione – L’esperienza di Auschwitz ha segnato radicalmente l’esistenza di Wiesel e lo ha portato alla rivolta contro Dio e contro l’umanità, a causa dell’assenza di entrambi, mentre si compiva il sacrificio (olocausto) silenzioso degli ebrei [Wiesel è il primo a usare il termine olocausto, che viene rifiutato dalla maggioranza degli ebrei; essi non possono essere considerati come delle vittime sacrificale; il termine Shoah, invece, significa distruzione, sterminio]. L’uomo segnato dall’esperienza drammatica, interroga Dio, per farlo uscire dal suo silenzio, ma non trova risposta. La Notte testimonia, però, che nell’abisso del dolore, Wiesel arriva quasi a percepire la presenza silenziosa del Dio Sofferente con il suo popolo [la Shekinah dell’ebraismo mistico, di Dio che va in esilio con il suo popolo].

di Lucia Antinucci

 

[1] Giuntina editrice.

[2] Cf. L. ANTINUCCI, Shoah mistero dell’uomo mistero di Dio. Alcune testimonianze, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma 2003,31-32.

[3] Cf. ivi 32-33.

[4] WIESEL, La Notte, 15.

[5] Ivi 23.

[6] Ivi 26.

[7] Cf. ivi 32.

[8] Ivi 56.

[9] Ivi.

[10] Ivi 65.

[11] Ivi 65-66.

[12] Cf. ivi 86.

[13] Ivi 91.

[14] Cf. ivi 87.

[15] Ivi 88.

[16] Cf. ivi 99.

[17] Ivi 98.

[18] Ivi 100.

[19] Ivi 112.

[20] Ivi 38.

[21] Ivi 39.

[22] Ivi.

[23] Ivi 39-40.

[24] Ivi 42.

[25] Ivi 49.

[26] Ivi 68.

[27] Ivi 69.

[28] Ivi.

[29] Ivi 71.

[30] Ivi 70.

[31] Ivi 67.

[32] Cf. ANTINUCCI, Shoah, 42-44.

[33] Ivi 86.

[34] Cf. ivi 103.

[35] Ivi 103-104.

[36] Cf. ivi 104.

[37] Ivi 108.

[38] Ivi 109.

[39] Cf. E. WIESEL, L’ebreo errante, Giuntina 1986, 12.

[40] Ivi 146.

[41] Ivi 147.

[42] Ivi 148.

[43] Ivi 149-150.

[44] Ivi 151.

[45] Ivi 153.

[46] Ivi 155.

[47] Ivi 156.

[48] Ivi 160.

[49] Ivi 160-161.

[50] Ivi 161.

[51] Ivi 162.

[52] Ivi 164.

[53] Ivi.

[54] Ivi 165.

[55] Ivi 166.

[56] Ivi 169.

[57] Cf. ivi 170.

[58] Ivi.

[59] Cf. ivi 171.

[60] Ivi.

[61] Ivi 173.

[62] Wiesel chiama in causa anche il silenzio del Pontefice. Per una revisione della questione cf. G.  GARIBOLDI ANGELOZZI, Il Vaticano nella seconda guerra mondiale, Milano, Mursia 1992; ID., Pio XII, Hitler e Mussolini. Il Vaticano fra le dittature, Milano, Mursia 1988.

[63] WIESEL, L’ebreo errante, 178.

[64] Ivi 179.

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