Morire per salvare la vita

Morire per salvare la vita

La testimonianza di san Massimiliano Maria Kolbe

 

La testimonianza di fede e di amore di fra Massimiliano Maria Kolbe, figlio di quell’incerta Europa – che si andava formando tra la crisi del colonialismo occidentale e le pretese totalitaristiche del socialismo sovietico –, ci viene consegnata in quell’intermezzo epocale che segnò il passaggio tra l’Ottocento, il tempo romantico e modernista, e gli inizi del secolo breve, il Novecento, che raccoglie i cent’anni più violenti della storia dell’umanità per lo scoppio di ben due guerre mondiali. Ai conflitti bellici del XX secolo si aggiungono le crisi economiche e le depressioni finanziarie che precorsero di molto il boom degli anni settanta. Il contesto ecclesiale in cui si formò Raimondo Kolbe fu principalmente quello che venne molto prima del Concilio Ecumenico Vaticano II: l’immagine della Chiesa cattolica come societas perfecta fu dominante; l’impegno dei cristiani, in special modo della gerarchia e dei teologi, fu strettamente apologetico, con l’intento di smascherare ogni forma di modernismo e di liberalismo.   

Proviamo, però, a riflettere sul percorso di santità di Massimiliano Maria Kolbe, frate minore conventuale della provincia religiosa polacca, accogliendo la provocazione di una giovane scrittrice francese, Muriel Barbery – nostra contemporanea –, docente di filosofia.

L’eleganza del riccio è il titolo del suo secondo romanzo: in poco tempo ha scalato le classifiche, arrivando al primo posto e vincendo numerosi premi[1]. Uno dei primi personaggi che appaiono nel romanzo, la giovane borghese Paloma, quasi istigata dalle ideologie del capitalismo e del potere economico, nonché dalla sofferenza e dal male nel mondo, e dalla superficialità con cui vivono i suoi familiari, nel suo pensiero profondo n. 1, decide di togliersi la vita: perché neanche l’arte riesce a compensare quell’inquietudine dell’esistenza che ci porta a cercare il significato di ciò che siamo o almeno a risvegliare le coscienze. La banalità della vita sembra essere – alla luce del male nel mondo – il leit motiv di questo romanzo.

Paloma riassume così il suo punto di vista:

 

«I bambini credono ai discorsi dei grandi e, una volta grandi, si vendicano ingannando a loro volta i figli. “La vita ha un senso e sono gli adulti a custodirlo” è la bugia universale cui tutti sono costretti a credere. Da adulti, quando capiamo che non è vero, ormai è troppo tardi. Il mistero rimane, ma tutta l’energia disponibile è andata da tempo sprecata in stupide attività. Non resta che cercare di anestetizzarsi, nascondendo il fatto che non riusciamo a dare un senso alla nostra vita e ingannando i nostri figli per cercare di convincere meglio noi stessi […].

La gente crede di inseguire le stelle e finisce come un pesce rosso in una boccia. Mi chiedo se non sarebbe più semplice insegnare fin da subito ai bambini che la vita è assurda. Questo toglierebbe all’infanzia alcuni momenti felici, ma farebbe guadagnare un bel po’ di tempo all’adulto […].

In fondo siamo programmati per credere a ciò che non esiste, perché siamo esseri viventi e non vogliamo soffrire. Allora cerchiamo con tutte le forze di convincerci che esistono cose per cui vale la pena vivere e che per questo la vita ha un senso […].

Gli adulti hanno un rapporto isterico con la morte, diventa un affare di stato, fanno un sacco di storie, e dire invece che è l’evento più banale del mondo […]. Morire deve essere un passaggio delicato, una morbida ascesa verso il riposo […]. A cosa serve morire se non a evitare la sofferenza? […].

L’importante non è morire, né a che età si muore, l’importante è quello che si fa al momento di morire»[2].

 

Più avanti, l’inquieta ricercatrice di senso, ancora scrive:

 

«Tolti l’amore, l’amicizia e la bellezza dell’arte, non c’è molto altro di cui la vita umana si possa nutrire. Sono ancora troppo giovane per ambire veramente all’amore e all’amicizia. Ma l’arte… se avessi dovuto vivere, per me sarebbe stata tutto»[3].

 

Per “arte”, Paloma intende «la bellezza del mondo», ciò che «può elevarci nel flusso della vita»[4]. Così, il simpatico e ironico romanzo, affrontando temi impegnativi come il “perché della vita”, la “banalità dell’esistenza”, attraverso un doppio diario – uno per il corpo e l’altro per l’anima – apre il lettore a nuovi orizzonti, invitandolo a mettersi in discussione, a reagire innanzi agli stereotipi della vita borghese e di una visione del mondo quietista e frantumata nelle maglie dell’io e dei nostri solipsismi.

Qual è il possibile legame tra i personaggi di questo romanzo francese e san Massimiliano Maria Kolbe? Beh, più di uno!

 

 

1. L’arte della vita

 

Innanzitutto, se è vero, come dice l’irrequieta Paloma, che l’importante non è morire, né a che età si muore, l’importante è quello che si fa al momento di morire, allora il giovane padre Kolbe, vissuto appena 47 anni (perché nato l’8 gennaio del 1894 a Zdunska Wola, nel distretto di Sieradz, e morto ad Auschwitz il 14 agosto del 1941, con un’iniezione di acido velenoso al braccio sinistro), ha dato senso a tutta la sua breve esistenza vivendo per gli altri, assicurandosi non di salvare la vita, ma di non tradire l’Amore, facendo del dono di sé l’arte della vita. Egli sembra dirci, ancora oggi, che amare è donare la vita; perché l’amore non è il possesso geloso dell’altro – né la cattura lacerante dell’amato – ma la consumazione di quello che si è[5].

La nostra vita – che ci piaccia o no, che lo sappiamo o no – è un’opera d’arte. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come qualsiasi artista – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata. La sfida più grande, per san Massimiliano Maria Kolbe, è stata quella della santità o anche l’arte di amare. Egli ha tentato l’impossibile pur di sfuggire a quell’incertezza che non solo costituisce l’habitat naturale della vita umana, ma soprattutto la condizione drammatica degli esseri umani del Novecento e poi la situazione paradossale dei nostri giorni, noi che siamo gli abitanti planetari del Terzo Millennio. Scrive in proposito il sociologo Bauman:

 

«Dobbiamo tentare l’impossibile. E possiamo solo sperare – senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe – di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all’altezza della sfida. L’incertezza è l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Sfuggire all’incertezza  è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità “autentica, adeguata e totale” sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso»[6].

 

Guardando allo spettro delle due guerre mondiali, all’Olocausto, alla morte infame nei lager nazisti, l’umile storia di padre Kolbe sembra denunciare una grande verità, un’ideologia che è stata sconfitta dalla stessa morte del pensiero totalitario: l’uomo superiore di Nietzsche è destinato a finire come la maggior parte di noi comuni mortali. Il messaggio di Nietsche, indipendentemente e forse contro le intenzioni del suo autore, si può dunque interpretare come un avvertimento:

 

«Sebbene il destino dell’uomo sia l’affermazione di sé, e sebbene per realizzare tale destino occorra una padronanza di sé realmente sovra-umana e cercare, chiamare a raccolta e impiegare una forza veramente sovraumana (rendendo così giustizia al proprio potenziale umano) il “progetto Superuomo” porta con sé fin dall’inizio i semi della sua sconfitta. Forse inevitabilmente»[7].

 

Kolbe è uno dei segni, nel Novecento, di questa sconfitta. Non è il super eroe di turno, né un eroe occasionale, per caso, ma un testimone dell’amore di Dio nel groviglio della storia dell’uomo e delle vicende del Male del nostro tempo. Egli ci ha fatto comprendere che la forza e il potere non conducono alla felicità, né alla sicurezza e alla sazietà, ma a un’ansia crescente, fino alla morte dell’uomo[8].

La felicità, la gioia di vivere, è per san Massimiliano una cosa buona: ma non la si trova senza Dio, in quella totale emancipazione che il modernismo e il liberalismo hanno predicato senza tregua, fino al nichilismo di qualsiasi valore[9]. Kolbe sembra dirci che il desiderio della felicità è inseparabile dall’esistenza umana e dalla ricerca di Dio. Così, l’apparente impossibilità di appagamento e soddisfazione piena e indiscussa dell’uomo esige un’esistenza teologale, ove Dio diviene l’orizzonte di senso di qualsiasi agire e pensare. Infatti, Kolbe si domanda:

 

«Talvolta la vita è tanto dura! Sembra che non esista più alcuna via d’uscita. Non si fora un muro con la testa. La situazione è triste, dura, terribile, e disperata.

Ma perché? Ma è proprio così terribile vivere in questo mondo? Forse che Dio non sa tutto? Forse che egli non è onnipotente? Forse che non sono nelle sue mani tutte le leggi della natura e perfino tutti i cuori degli uomini? Può forse capitare qualcosa nell’universo senza che egli lo permetta? E se è lui che lo permette, può forse permettere qualcosa che non sia in vita del nostro bene, di un maggior bene, del più grande bene possibile?

Anche nel caso che per un breve istante noi ricevessimo un’intelligenza infinita e riuscissimo a comprendere tutte le cause e gli effetti, non sceglieremmo per noi stessi nulla di diverso da quello che Dio permette, poiché, essendo infinitamente sapiente, egli conosce perfettamente quel che è meglio per la nostra anima; inoltre, essendo infinitamente buono, vuole e permette solo ciò che ci serve per la maggior felicità nostra in paradiso.

Perché, allora, talvolta siamo tanto abbattuti? […]. Che dobbiamo fare, dunque?

Confidare in Dio […]. Ma confidiamo senza limiti»[10].

 

 

 

 

2. Un ricercatore di senso, di Dio

 

Dinanzi al mistero della vita, all’angoscia dell’esistenza, padre Kolbe non si è accontentato di risposte preconfezionate, né si è lasciato vivere dalle ideologie del suo tempo: il potere, l’imperialismo, la scienza, la tecnica. Egli è stato un ricercatore di senso, un pellegrino dell’Assoluto, di quel Mistero che abita nei luoghi più reconditi dell’anima e del corpo, del nostro cuore e della mente, dello spirito. Così, la fede in Dio-Trinità l’ha vissuta come abbandono, consegna fiduciosa, come rischio, e non quale rassicurante certezza. Nessuna ideologia l’ha paralizzato nella sua terra natìa, la Polonia. Egli si è messo in cammino, nel groviglio della storia mondiale, alla ricerca del perché della sua esistenza. Da qui l’incontro con il Poverello d’Assisi, con la Vergine Maria, la chiamata al sacerdozio, alla missione, all’apostolato… Le culture e le tradizioni religiose di altri popoli lo affascinavano, perché gli permettevano di ritrovare i semi del Verbo, i segni di Dio, di quella verità che si è consegnata in Cristo per mezzo del sì di Maria.

Padre Kolbe non si è ingannato: è riuscito a dare un senso alla sua vita. Cristo, l’Immacolata, la Chiesa, i poveri, i prigionieri, i non credenti, erano al centro dei suoi pensieri, del suo amore, del suo agire ed esistere[11]. La pietà e la compassione per i deboli non l’hanno reso come l’Übermensch di Nietsche che vedeva nell’umiltà e nella solidarietà verso il prossimo due grandi pericoli per la propria felicità, una sorta di debolezza, un attentato alla libertà e alle conquiste dell’uomo superiore[12].

Consegnando la sua vita nelle mani dei carnefici nazisti al posto di un papà di famiglia (Francesco Gajowniczek), il fraticello Massimiliano Kolbe ha dimostrato che la vita non è assurda quando è segnata dall’amore. Illogico o irrazionale è l’egoismo. Insensato è ogni atto di violenza. Dissennato è il pensiero della morte. Paradossale è la guerra, l’odio, l’inimicizia. Per cui ognuno di noi ha diritto alla felicità, alla gioia, a scoprire il senso della vita.

Si può rispondere al male con il bene, vincere l’odio con l’amore, il perdono[13]. Alla domanda: “Perché mi trovo qui?”, Kolbe non ha risposto come M. Heidegger – “Siamo gettati nel mondo verso la morte!”[14] –, ma, ponendo lo sguardo oltre i muri spinati di Auschwitz, e lasciandosi pure attraversare dalla puzza della morte che proveniva dei forni crematori, ha ripetuto e fatte proprie le parole di Gesù:

 

«Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35).

 

Come il «il Signore venne abbandonato alla volontà dei crocifissori»[15], così san Massimiliano fu consegnato alla fermezza cinica della gestapo e sepolto vivo nel bunker sotterraneo del blocco 13 con il numero di matricola 16.670. Uno tra le tante vittime innocenti. Un numero qualsiasi.

No! San Massimiliano non è un eroe per caso, ma uno che ha sentito sul serio, in profondità, la responsabilità verso gli altri, divenendo solidale con chi era nell’inferno. Egli viene a dirci, oggi, che non c’è più posto per l’uomo superiore che considera la debolezza un peccato e la pietà una virtù meschina. Vivendo per gli altri, per Gesù, per l’Immacolata, Kolbe ha dimostrato che la ricerca di senso conduce alla responsabilità per l’Altro, fino a divenire struttura essenziale, primaria, fondamentale della soggettività. È come se dicesse, con E. Lévinas, “io sono in quanto sono per altri”[16]. O, anche: “amo, dunque sono per gli altri”.

 

 

3. La banalità del Male

 

Se è vero, poi, come racconta Paloma, che la morte è l’evento più banale del mondo e che il morire deve essere un passaggio delicato, ciò non può avvenire quando la disperazione attanaglia il cuore di tanti prigionieri e la paura sembra prendere il sopravvento in chi sa di diventare cenere nei forni crematori.

È la banalità della morte a rendere tragica la vita! È la banalità del Male a toglierci il respiro, la gioia di vivere. Non è mai banale morire. È banale vivere senza un motivo, uno scopo. Ed è banale morire quando gli altri lo hanno deciso per noi. Il morire, poi, può diventare un passaggio delicato solamente se la fede nel Cristo crocifisso e risorto ci orienta alla pasqua, alla risurrezione della carne, alla pienezza dell’esistenza. Allora sì che la morte ci apparirà come passaggio, dormitio, trasformazione, compimento, riposo, e non fine tragica, caduta nel vuoto e nel nulla!

La morte non è liberazione dal Male: ma riposo in Dio, un essere nascosto con Cristo in Dio (cf. Col 3,1-5). La banalità della morte e della vita la si supera solamente quando noi ci offriamo per amore, nel momento in cui il male non è solo subìto, ma preso tra le mani e offerto a Dio per il bene del mondo! Bella e scandalosa, in proposito, la testimonianza che padre Kolbe ci offre nella lettera indirizzata, da Niepokalanóv (9 gennaio 1941), a frate Rocco Frejlich che si trovava a Nagasaki:

 

«Caro Figlio!

Se in questo mondo non ci fossero le croci, non ci sarebbe di che meritarsi il paradiso. Le croci, sia interiori che esterne, sono indispensabili.

L’essenza dell’amore scambievole non consiste nel fatto che nessuno ci rechi dispiaceri – il che è impossibile tra gli uomini – ma che impariamo a perdonarci l’un l’altro in modo sempre più perfetto, immediatamente e completamente. Allora reciteremo con grande fiducia l’invocazione contenuta nel “Padre nostro”: “e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori! [Mt 6,12]. Sarebbe un vero guaio se non avessimo nulla o ben poco da perdonare agli altri.

Confidiamo, dunque, nella Divina Provvidenza, nella volontà dell’Immacolata e rimaniamo certi che Dio permette ogni cosa in vista di un bene maggiore.

Solo l’obbedienza soprannaturale si perfezioni in noi sempre di più: allora la pace e la felicità si approfondiranno.

La sorgente della felicità e della pace non sta fuori, ma dentro di noi. Sappiamo trarre profitto da ogni cosa per esercitare la nostra anima nella pazienza, nell’umiltà, nell’obbedienza, nella povertà e nelle altre virtù della vita religiosa, e le croci non saranno più tanto pesanti. Del resto, noi proclamiamo che attraverso l’Immacolata possiamo tutto: dimostriamolo, quindi, con i fatti. Poniamo a lei la nostra fiducia, preghiamo e andiamo avanti nella vita con tranquillità e serenità»[17].

 

La guerra al Male, una lotta implacabile e incessante, nonché vittoriosa, san Massimiliano l’ha vissuta consegnandosi totalmente all’Immacolata.

 

«Guardandoci attorno e vedendo dappertutto tanto male, noi vorremmo sinceramente […], porre un riparo a questo male […]. Quando […] debelleremo nel modo più rapido e più perfetto il male nel mondo intero? Quando ci lasceremo guidare da lei nella maniera più perfetta»[18].

4. Il senso della bellezza

 

L’amore, l’amicizia e la bellezza di cui padre Kolbe si è nutrito trovano nell’Immacolata il loro centro. L’arte come bellezza del mondo e come ciò che può elevarci nel flusso della vita – quale forma gratuita dell’esistere – Kolbe l’ha contemplata nel volto di Maria, la Madre del Signore. L’Immacolata è la forma dello Spirito, l’arte di Dio. Di lei scriverà:

 

«L’Immacolata è di Dio. È perfettamente di Dio […]. E noi poi siamo suoi, dell’Immacolata, illimitatamente suoi, perfettissimamente suoi, siamo quasi essa stessa […]. Vogliamo essere fino a quel punto dell’Immacolata che non soltanto non rimanga niente in noi che non sia di essa, ma che diventiamo quasi annientati in essa, cambiati in essa»[19].

 

Da Maria, padre Kolbe apprenderà l’etica del dono, la volontà di dare gratuitamente, di non trattenere niente per sé, secondo l’economia dello Spirito Santo. Maria è quello spazio umano che Dio si è scelto in Cristo, per mezzo dell’azione dello Spirito, affinché l’amore fosse donato e restituito in piena misura, senza resistenze. L’Immacolata è colei che fa l’esperienza di essere abitata dall’altro, di essere posseduta da altre persone:

 

«Fin dall’eternità […] Dio aveva previsto una creatura che in nessuna cosa, nemmeno la più piccola, si sarebbe allontanata da lui, che non avrebbe dissipato nessuna grazia, che non si sarebbe appropriata di nessuna cosa ricevuta da lui. Fin dal primo istante della sua esistenza il Datore delle grazie, lo Spirito Santo, stabilì la propria dimora nella sua anima, ne prese altresì possesso assoluto e la compenetrò»[20].

 

San Massimiliano, il folle dell’Immacolata, è vissuto completamente e totalmente per la Vergine santissima: in lei ha ritrovato il Cristo e le miserie della gente, di ogni uomo. L’Immacolata è «il nostro ideale»[21].

 

 

5. Solo l’Amore crea

 

La reticenza per una certa indolenza dell’esistenza e del mal di vivere, ben testimoniata nel diario di Paloma, è superata da san Massimiliano Kolbe, esploratore di nuovi mondi – perché apostolo in Giappone, in Oriente, in Europa –, attraverso la sua ansia missionaria. Egli ha sempre creduto che «la vita è un cammino verso il paradiso», e che «l’Amore è tutto. Deus caritas est». Affermava spesso:

 

«Ama i nemici che ti procurano dispiacere… I fratelli che ci crocifiggono sono un tesoro: amali! Essere crocifisso per amore del Crocifisso è l’unica felicità sulla terra»[22].

 

Essere crocifisso per amore del Crocifisso! È tutta qui la testimonianza di vita di Raimondo Kolbe. Fu molto semplice il suo programma di santità: A Gesù per Maria. Il suo gracile corpo venne bruciato in uno di quei maledetti forni crematori del campo di concentramento di Auschwitz. La sua cenere si unì a quella di ebrei, ortodossi, luterani, atei, musulmani, pagani. Il suo “corpo arso” divenne una forma concreta di amore e di dialogo: di tenerezza per gli ultimi, gli abbandonati; di comunicazione con i disperati, i nemici, i cattivi, gli anticristi.

No, padre Kolbe non fu un eroe per caso. Di lui, molti cristiani ricordano solamente il gesto eroico dell’offerta nel famigerato bunker di morte. Questa morte fu preparata attraverso un vissuto d’amore, di Agape. L’Amore rinchiude una grande forza creativa, anche lì dove sembra non esserci più alcuna speranza. L’Agape ci rende persona, esseri umani, viventi, liberi, gioiosi, felici, lì dove sovrabbonda la morte e il morire, il dolore ingiusto, la sofferenza degli innocenti, la violenza. L’Amore ci fa compatire, provare la compassione, cioè vivere la miseria degli altri sulla propria pelle, portare addosso la stessa puzza della morte e l’orrore della fame e della nudità che Cristo provò e ancora prova nei derelitti dell’umanità e della nostra storia.

Qual è la lezione di vita che ci viene da quest’uomo, che Giovanni Paolo II proclamò martire della carità (il 10 ottobre del 1982) e patrono del nostro difficile secolo? Il messaggio che san Massimiliano ci lascia è chiaro: «L’odio non è forza creatrice. Solo l’Amore crea». Possiamo aggiungere, con le oramai parole famose di Hans Urs von Balthasar, «solo l’Amore è credibile», anzi, «solo l’Amore ci rende credibili, veri». L’Amore – il dono della vita per gli altri – è il caso serio della vita, il segreto della nostra felicità[23]. Solamente l’Amore è degno della fede[24]. L’Amore dà la vita facendo nascere. Per Kolbe, se è l’Amore a far nascere, allora il dono dell’origine – della vita – non è mai un abbandono. Qualunque sia per noi la nostra origine, non possiamo pensare il nostro esistere come un essere gettati o come una decadenza. L’Amore ci orienta, ci sostiene, ci personalizza. È la relazione con l’origine – l’Amore – che ci fa essere e ci fa vivere nella tensione, attraversando il male e la morte, in un’eccedenza di senso[25].

Alla luce dell’Amore ricevuto e donato, possiamo così sintetizzare il percorso della sua vita.

 

a) Per Amore, solo per Amore, ancora giovinetto – a ventitrè anni –, nel lontano 1917, padre Kolbe, studente a Roma, sostenuto da sei compagni, fondò la Milizia dell’Immacolata, un movimento ecclesiale di spiritualità e di apostolato per la difesa della Chiesa cattolica e la conversione dei suoi nemici. La Milizia dell’Immacolata fu per lui una nuova visione del mondo!

Nel 1917, la massoneria celebrò il secondo centenario della Grande Loggia d’Inghilterra. A Roma si organizzò – come avviene anche oggi per altre occasioni – un corteo blasfemo che, dopo aver sfilato per le vie della città, si concluse in piazza san Pietro sventolando sotto le finestre del papa un vessillo nero con l’effige di san Michele arcangelo sotto i piedi di Lucifero e con striscioni inneggianti a Satana. In particolare, una scritta recitava: “Satana regnerà in Vaticano e il papa lo servirà in veste di guardia svizzera”[26]. Il 1917 fu l’anno delle apparizioni della Vergine a Fatima, con i materni richiami alla conversione, nonché l’anno dell’avvento al potere dei bolscevichi in Russia che, se da un lato rivendicarono i giusti diritti delle classi povere, dall’altro si macchiarono di efferati delitti.

 

b) Nel 1919, fra Massimiliano Kolbe, ordinato sacerdote e rientrato in Polonia, nonostante le sue fragili condizioni di salute – gli fu asportato un polmone – fu sospinto dall’Amore a donare con generosità tutto di se stesso: fondò circoli della Milizia ovunque, insegnò storia ecclesiastica a Cracovia (nel seminario teologico); attese alle confessioni, all’apostolato spicciolo, tenendo conferenze ovunque. Si ammalò gravemente e fu più volte ospitato convalescente in sanatorio.

 

c) Nell’ottobre del 1922, in piena crisi economica e finanziaria, padre Kolbe fondò il Cavaliere dell’Immacolata. Si trattò d’una modesta rivista ricca, però, di contenuti catechetici. Padre Kolbe, infatti, sentì il bisogno di evangelizzare il mondo e la società attraverso la carta stampa, i giornali, le riviste. Il Cavaliere dell’Immacolata aumentò nella tiratura. Così, padre Kolbe rilevò una vecchia tipografia e s’improvvisò giornalista e tipografo, attirando a se moltissimi giovani e volontari dell’apostolato. Oggi la via dell’evangelizzazione attraverso i mass-media ha delle proprie metodologie e degli obiettivi ben chiari. Kolbe fu un vero pioniere: comprese che la comunicazione sarebbe stata la via del futuro per la comunione tra i popoli e le nazioni.

 

d) Nell’autunno del 1927, a Niepokalanów, con il permesso dei superiori, Kolbe fondò la città-convento dedicata all’Immacolata. Questa, costruita con materiale poverissimo, ma concepita e realizzata per una numerosa comunità religiosa, nel 1939 ospitò circa mille religiosi e fu dotata di tutte le officine e i reparti indispensabili per l’apostolato dei mezzi di comunicazione sociale, di un’attrezzata infermeria, di un reparto di vigili del fuoco, della panetteria, della sartoria, di centrale elettrica e altro ancora. La stampa divenne il mezzo privilegiato per l’apostolato. Nel 1937, il Cavaliere dell’Immacolata raggiunse la tiratura di ben 750.000 copie. Poi nacquero altri mensili: il Piccolo Cavaliere (180.000 copie), il Miles Immaculatae (10.000 copie), l’Informatore M.I. (42.000 copie), il quotidiano Piccolo giornale (130.000 copie).

 

e) Nei primi mesi del 1930, quando furono trascorsi appena due anni dalla fondazione di Niepokalanów, san Massimiliano si recò a Roma per chiedere l’autorizzazione di Propaganda Fide e dei superiori dell’Ordine affinché si aprisse una missione della Milizia dell’Immacolata nell’estremo Oriente. Inizialmente, la destinazione non fu specificata; dopo vari contatti, padre Kolbe si orientò verso il Giappone, a Nagasaki, dove il vescovo stava cercando un docente di filosofia per i seminaristi. Padre Kolbe si rese disponibile: e, in cambio, ottenne l’apertura di una nuova comunità religiosa dedita all’apostolato missionario-mariano attraverso la stampa.

A Nagasaki non perse tempo: un mese dopo il suo arrivo in tale città, riuscì a spedire il primo numero del Cavaliere in lingua giapponese. Gli articoli furono scritti da lui in latino e tradotti in giapponese dai seminaristi. Tuttavia, nonostante questo felicissimo esordio, i sei anni che trascorse in Giappone furono segnati da molte difficoltà, sofferenze, ostacoli e incomprensioni. Innanzitutto, difficoltà di carattere canonico, perché non giungeva né il beneplacito di Propaganda Fide né il consenso della Congregazione dei religiosi per l’apertura della casa religiosa; poi qualcuno prese ad accusarlo di essere un avventuriero; inoltre, uno dei giovani religiosi condotti da lui in Giappone (per ultimarvi gli studi di teologia) fu espulso dal seminario di Tokio per una grave colpa, con rilevante danno al buon nome di tutta la comunità e con il rischio che ne venisse compromessa tutta l’opera. Da ricordare che molte conversioni avvenivano proprio attraverso la lettura del Cavaliere. Ci furono, poi, difficoltà quotidiane (permessi, questioni economiche, malattie, scoraggiamenti) che padre Kolbe dovette affrontare in Giappone.

Gli scritti di questo periodo lasciano intendere chiaramente la pesante pressione psicologica a cui fu soggetto padre Kolbe. Così si può conoscere quegli aspetti umani di un testimone della fede che di solito è relegato nell’olimpo degli dèi o degli eroi. Padre Kolbe aveva una forte personalità: era deciso nell’affrontare questioni morali, religiose, politiche, sociali. Sapeva spiegare le sue ragioni e agire con solerzia e incisività.

 

f) Con il capitolo provinciale del 1936, padre Kolbe fu richiamato in Polonia. Divenne guardiano di Niepokalanów. Egli avrebbe voluto concimare la terra del Giappone con la polvere delle sue ossa, tuttavia accetta di buon animo la nuova obbedienza e intraprese il compito che gli fu affidato dai confratelli con amore. Negli anni della sua assenza, la città-convento si ingrandì e, quindi, si rese necessaria una rapida riorganizzazione; anche i frati aumentarono e i nuovi arrivati ebbero bisogno di una formazione più solida. Di essi egli fu soprattutto padre e formatore.

 

g) Il 1° settembre del 1939 la Germania dichiarò guerra alla Polonia e iniziò l’avanzata delle truppe tedesche verso Varsavia. Il ministro della provincia religiosa dell’Immacolata, padre Maurizio Madzurek, dietro raccomandazione dell’ufficiale distrettuale di Sochaczew, dispose l’abbandono di Niepokalanów. Padre Kolbe, da parte sua, raccomandò ai fratelli di entrare nelle sezioni della Croce Rossa polacca, operante nelle loro città di origine. Dei circa 760 abitanti che animavano la città-convento, ne rimasero solo una quarantina, tra cui padre Massimiliano, guardiano del convento, e il vicario, padre Pio Bartosik.

Il 19 settembre le truppe tedesche giunsero in forza a Niepokalanów, posero i sigilli alle macchine tipografiche e arrestarono padre Kolbe e gli altri religiosi presenti. Furono lasciati liberi solo i fratelli Witold, Ciriaco e Timoteo, destinati all’assistenza dei feriti e qualche altro che si trovava nella casa di cura, con padre Antonio, nei pressi del convento. Durante l’assenza dei religiosi, le abitazioni di Niepokalanów furono svuotate dei vestiti e delle scarpe, delle varie suppellettili, delle macchine compositrici e piane. Questa prima prigionia di padre Kolbe e dei confratelli durò ottanta giorni circa; furono, infatti, liberati l’8 dicembre dello stesso anno, dopo aver vagato in tre diversi campi di concentramento.

 

h) Durante il 1940, un po’ alla volta, circa i tre quarti dei fratelli fecero ritorno a Niepokalanów. Furono riaperte le diverse officine, riassettati i locali del convento che si aprì all’accoglienza dei profughi di guerra, tra i quali moltissimi ebrei. Ogni giorno, grazie ai prodotti dell’orto e delle stalle, furono offerti tre pasti caldi a ognuno dei 1.500 sfollati. L’infermeria e le diverse officine meccaniche e artigiane furono poste a servizio dei nuovi abitanti del convento come pure dei contadini della zona. Padre Kolbe tentò di riprendere anche la stampa del Cavaliere dell’Immacolata, però riuscì a stampare solo un numero (datato dicembre 1940-gennaio 1941).

In questa precarietà, la preghiera divenne l’attività principale. Così, i frati curarono per bene l’adorazione perpetua: notte e giorno, a gruppetti, si alternavano in preghiera davanti all’Eucaristia. Padre Kolbe non cedette un istante allo scoraggiamento o alla rassegnazione: fiducioso nel Signore e abbandonato alla sua volontà, scoprì nella solidarietà verso gli ultimi e i sofferenti il suo nuovo impegno apostolico. La preghiera fu il suo punto di riferimento per la vita quotidiana.

 

i) A partire da gennaio del 1941, padre Kolbe cercò di portare conforto e assistenza spirituale ai deportati nei campi di concentramento nazisti. Mentre andava rimuginando varie ipotesi, la mattina del 17 febbraio del 1941 le S.S. irruppero ancora una volta a Niepokalanów e padre Kolbe fu arrestato; dapprima fu trattenuto per qualche mese nel carcere Pawiak di Varsavia, poi fu deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, dove giunse il 18 maggio. Da qui scrisse una lettera alla mamma, sconvolgente per la pace e la serenità che da essa emana. Ad Auschwitz, nel luogo in cui la violenza, la sopraffazione e l’odio trovarono le espressioni più sadiche e diaboliche, senza lamentarsi, padre Kolbe osò scrivere così alla madre: “Da me va tutto bene”. Il motivo è chiaro: egli era in comunione con Dio; si sentì avvolto dall’amore del Signore. Come amava ripetere, “il buon Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a tutti e a tutto”.

Padre Kolbe visse nella certezza di trovarsi in quel luogo di orrore per una missione: salvare delle anime, essere luce in quel luogo di morte. Ecco perché, di fronte a un padre di famiglia che, condannato innocentemente a morire di fame e di sete nel bunker sotterraneo – assieme ad altri nove sventurati – pianse al pensiero dei figli e della moglie, padre Kolbe uscì dalla fila e, al comandante del campo che gli grida “Che vuoi sporco prete polacco?”,  rispose “Voglio recarmi a morire al posto di quel padre di famiglia che piange”.

 

Tutto avvenne per Amore, solo per Amore.

Padre Kolbe sembra dirci, ancora oggi, che siamo fatti per amare.

 

«L’amore dà la vita e vince la morte: “Se c’è in me una certezza incrollabile, essa è quella che un mondo che viene abbandonato dall’amore deve sprofondare nella morte, ma che là dove l’amore perdura, dove trionfa su tutto ciò che vorrebbe avvilire, la morte è definitivamente vinta” (Gabriel Marcel). Ne siamo consapevoli, anche quando le parole che pronunciamo e i fatti di cui è intessuta la nostra esistenza non sono in grado di esprimere quello che abbiamo intuito e che desideriamo. Ci fanno paura le persone aride, spente nella voglia di amare e di essere amate.

L’amore è irradiante, contagioso, origine prima e sempre nuova della vita. Per amore siamo nati. Per amore viviamo. Essere amati è gioia. Senza amore la vita resta triste e vuota. L’amore è uscita coraggiosa da sé, per andare verso gli altri e accogliere il dono della loro diversità dal nostro io, superando nell’incontro l’incertezza della nostra identità e la solitudine delle nostre sicurezze.

Quella dell’amore è la storia più personale della nostra esistenza. Riconosciamo i percorsi e proclamiamo gli eventi che la punteggiano. Ma ci troviamo spesso affaticati, stanchi, sollecitati a fermarci al bordo della strada a causa di delusioni e incertezze.

Riconosciamo che nella via dell’amore c’è sempre una provenienza, un’accoglienza e un avvenire. La provenienza è l’uscire da sé nella generosità del dono, per la sola gioia di amare: l’amore nasce dalla gratuità o non è. L’accoglienza è il riconoscimento grato dell’altro, la gioia e l’umiltà del lasciarsi amare. L’avvenire è il dono che si fa accoglienza e l’accoglienza che si fa dono, l’essere liberi da sé per essere uno con l’altro e nell’altro, in una comunione reciproca e aperta agli altri, che è libertà […].

C’è in noi un immenso bisogno di amare e di essere amati. Davvero, “è l’amore che fa esistere” (Maurice Blondel). È l’amore che vince la morte: “Amare qualcuno significa dirgli: tu non morirai!” (Gabriel Marcel)»[27].

 

 

6. Conclusione: il rischio della fede

 

Proprio perché patrono dei nostri tempi così difficili, padre Massimiliano Maria Kolbe è uno dei testimoni di quella Chiesa dei martiri che il Terzo Millennio continuamente ci consegna[28].

La storia di padre Kolbe ci aiuta a scoprire, in parte, la crudeltà delle persecuzioni del Novecento e, in particolare, quella nazista e l’altra comunista – nei riguardi dei credenti vescovi, sacerdoti, religiosi e laici – che operò una grande semina di martiri in numerose nazioni della vecchia Europa e in altri continenti. Tuttavia, nel groviglio di questa storia, fatta di male e di dolore, la fede ci offre un’altra lettura, una visione soprannaturale che riesce a intravedere attraverso il fallimento e il rischio della morte i segni della presenza del Signore!

Padre Kolbe ci aiuta a rileggere tutta la storia del cristianesimo – e anche quella del mondo – alla luce del detto di Tertulliano: «Sanguis martyrum, semen christianorum»[29]. Non le cosiddette concessioni dell’imperatore Costantino garantirono lo sviluppo successivo della Chiesa, ma furono la seminagione dei martiri e il patrimonio di santità a caratterizzare le prime generazioni cristiane, così come quelle del Terzo Millennio. È la santità di vita dei testimoni della fede a far crescere la comunità dei credenti, a rendere autentico l’annuncio del Vangelo nel mondo!

San Massimiliano ci permette di comprendere il valore della testimonianza e il significato autentico della fede. Questa è una visione totale del mondo a partire dal Dio-con-noi, dall’Emmanuele, dalla Trinità nella passione del mondo. La fede è la percezione della realtà nella sua totale verità e profondità.

 

«Credere vuol dire vedere – e quindi correre il rischio – che Cristo è la verità. Non solo uno che insegni, un maestro, e fosse anche il più grande, che però, insieme con tutti gli altri insegnanti o docenti, fosse soggetto al criterio generale, comune della verità; no; la verità è lui (Gv 14,6) […].

Il credere è costituito dalle mie forze vive; del mio cuore, del mio spirito. Io mi colloco nella mia fede unitamente a tutto quanto io sono»[30].

 

Padre Kolbe sapeva bene che credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento[31]. Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata di Dio che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore.

 

«Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé. Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane. Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi. “Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard)»[32].

 

Credere, sull’esempio di padre Kolbe, sarà allora abbracciare la Croce della sequela, non quella comoda e gratificante che avremmo voluto, ma quella umile e oscura che ci viene donata, per dare compimento «a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Crede chi confessa l’amore di Dio nonostante l’inevidenza dell’amore,

 

«chi spera contro ogni speranza, chi accetta di crocefiggere le proprie attese sulla croce di Cristo, e non Cristo sulla croce delle proprie attese. Crede chi è stato già raggiunto dal tocco di Dio e si è aperto alla sua offerta d’amore, anche se non ha ancora la luce piena su tutto»[33].

 

Testimoniare la fede come i martiri non sarà, insieme a san Massimiliano Kolbe, allora, dare risposte già pronte, ma contagiare l’inquietudine della ricerca e la pace dell’incontro:

 

«Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te»[34].

 

Accettare l’invito e confrontarsi con il Male non è risolvere tutte le oscure domande, ma portarle a quel Dio che ha fatto suo il dolore del mondo.

Alla Trinità nella passione del mondo è possibile rivolgere con fiducia le parole della bellissima invocazione di sant’Agostino:

 

«Signore mio Dio, unica mia speranza,

fa’ che stanco non smetta di cercarti,

ma cerchi il tuo volto sempre con ardore.

Dammi la forza di cercare,

Tu che ti sei fatto incontrare,

e mi hai dato la speranza di sempre più incontrarti.

Davanti a te sta la mia forza e la mia debolezza:

conserva quella, guarisci questa.

Davanti a te sta la mia scienza e la mia ignoranza;

dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare;

dove mi hai chiuso, aprimi quando busso.

Fa’ che mi ricordi di te,

che intenda te, che ami te»[35].

Amen. Alleluia!

 

Padre Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv.

Pontificia Università Urbaniana

Ministro Provinciale di Napoli


[1] Cf. M. Barbery,  L’élégance du hérisson, Editions Gallimard, Paris 2006 [L’eleganza del riccio, traduzione di E. Caillat – C. Poli, Edizioni e/o, Roma 2007].

[2] Ivi 14-18.

[3] Ivi 29.

[4] Ivi.

[5] Sul significato dell’amore, scrive Benedetto XVI: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore – “caritas” – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cf. Gv 8,22) […]. La carità è amore ricevuto e donato. Essa è “grazia” (cháris). La sua scaturigine è l’amore sorgivo del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal Figlio discende su di noi. È amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati. Amore rivelato e realizzato da Cristo (cf. Gv 13,1) e “riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5,5). Destinatari dell’amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate [29-6-2009], nn. 1; 5).

[6] Z. Bauman, L’arte della vita, traduzione di M. Cupellaro, Editori Laterza, Roma-Bari 2009, p. 26.

[7] Ivi 26-27.

[8] In proposito, appare molto chiara e lucida la critica di Benedetto XVI: «L’uomo è alienato quando è solo o si stacca dalla realtà, quando rinuncia a pensare e a credere in un Fondamento. L’umanità intera è alienata quando si affida a progetti solo umani, a ideologie e a utopie false» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 53).

[9] Lo scopo dell’uomo è Dio e solo Dio può appagare la gioia e la sete di felicità dell’uomo Cf. Massimiliano Kolbe, Scritti, a cura di G. Simbula e altri, Edizioni Enmi, Roma 1997, n. 758 [pp. 1308-1309]; n. 995 [pp. 1764-1766]. D’ora in poi SK [Scritti Kolbiani].

[10] Ivi 1264 [pp. 2241-2242].

[11] Per un primo approccio storico-critico, teologico e spirituale al pensiero e all’opera di san Massimiliano Maria Kolbe, cf. almeno F.S. Pancheri (cur.), La mariologia di San Massimiliano Maria Kolbe. Atti del Congresso internazionale (Roma, 8-12 ottobre 1984), Edizioni Miscellanea Francescana, Roma 1985; G. Simbula, La Milizia dell’Immacolata. Natura, teologia, spiritualità, Edizioni Enmi, Roma 1991; Id., San Massimiliano Kolbe. Pensiero teologico-spirituale. Approccio tematico agli Scritti, Edizioni Enmi, Roma 2000; E. Galignano (cur.), Massimiliano Kolbe nel suo tempo e oggi. Approccio interdisciplinare alla personalità e agli scritti. Atti del Congresso internazionale (Roma, 24-27 settembre 2001), Herder-Miscellanea Francescana, Roma 2003.

[12] Cf. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 1984, pp. 15-20; 204-208; Id., Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Id., Opere, VI, Adelphi, Milano 1973, pp. 89-9; 204-206; 348-349.

[13] L’amore per il prossimo, secondo padre Kolbe, trova la sua forza nell’amore per Dio. Si combatte il Male solamente attraverso l’amore verso tutti e nello spirito dell’Immacolata. Cf. SK 1281 [pp. 2271-2272].

[14] Cf. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, pp. 221-226.

[15] Leone Magno, Discorso ottavo. Sulla passione I.

[16] Cf. E. Lévinas, Etica e infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’infinito, Città Nuova, Roma 1984, pp. 87-90.

[17] SK 935 [pp. 1480-1481].

[18] Ivi 1160 [pp. 2018-2019].

[19] Ivi 508 [p. 1017].

[20] Ivi 1224 [pp. 2148-2149].

[21] Ivi 1210 [p. 2116]. Per san Massimiliano, è necessario che la vita dell’Immacolata si radichi in noi, fino a svilupparsi in ogni persona.

[22] Ivi 968 [pp. 1532-1534].

[23] Cf. H.Urs von Balthasar, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1991.

[24] Cf. H.Urs von Balthasar, Cordula. Ovvero sia il caso serio, Queriniana, Brescia 1993.

[25] Per questa parte, cf. M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, Il Saggiatore-Garzanti, Milano 1962, pp. 43-45; R. Mancini, L’uomo e la comunità, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2004, pp. 79-83.

[26] La massoneria è intesa da padre Kolbe come forza del Male che combatte la Chiesa e anche l’Immacolata. L’influsso negativo della massoneria, egli lo riconobbe anche nella stampa, nei mass-media, nella politica, nell’economia. Cf. almeno SK 1023 [pp. 1800-1802].

[27] Conferenza Episcopale Italiana – Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, Lettera ai cercatori di Dio, Paoline, Milano 2009, pp. 16-17; 19 [d’opra in poi Lettera ai cercatori di Dio]. Il documento è ripreso in Il Regno-Documenti 11 (2009) 344-368, qui 347.

[28] «Nel nostro secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi “militi ignoti” della grande causa di Dio» (Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Terzo millennio adveniente [10-11-1994], n. 37: EV 14,1783).

[29] Tertulliano, Apologeticum 50,13: CCL 1,171.

[30] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 388; 392.

[31] Per san Massimiliano, la fede porta con sé la gioia e si approfondisce con la preghiera, inoltre è sempre collegata alla verità di Dio. Cf. SK 1171 [pp. 2033-2035]; 1177 [pp. 2044-2049]; 1202 [p. 2104].

[32] Lettera ai cercatori di Dio, p. 37 [Il Regno-Documenti 11 (2009) 351].

[33] Ivi p. 39 [Il Regno-Documenti 11 (2009) 352].

[34] Agostino d’Ippona, Le confessioni I,1: NBA I,5.

[35] Agostino d’Ippona, De Trintitate XV,28,51: NBA IV,719.

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