Il tuo cuore custodisca i miei precetti (Pr 3,1)

Lineamenti per una ecoteologia ecumenica
Custodire il creato da credenti responsabili in risposta alla Parola di Dio: per riflettere ecumenicamente su questa responsabilità che investe ogni cristiano e confrontarla con le urgenze e gli allarmi lanciati dagli esperti in materia ambientale, si è celebrato a Milano dal 19 al 21 novembre 2018 il convegno nazionale intitolato Il tuo cuore custodisca i miei precetti (Pr 3,1), organizzato dall’ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) in collaborazione con l’arcidiocesi ortodossa di Italia e Malta del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, la Chiesa Apostolica Armena, la diocesi copto ortodossa di San Giorgio in Roma, la Chiesa d’Inghilterra, la diocesi ortodossa romena d’Italia e la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia.
Apertura. «Sono davvero emozionato, perché sto entrando in una storia che mi ha preceduto e che mi è stata consegnata» ha dichiarato in apertura dei lavori don Giuliano Savina, nuovo direttore dell’ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della CEI, rivolgendo meritati ringraziamenti ed elogi al direttore uscente, don Cristiano Bettega, per il grande lavoro svolto negli ultimi anni. Elogi profusi anche da monsignor Ambrogio Spreafico, presidente della commissione episcopale CEI per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, che ha poi richiamato l’attenzione sulle tematiche al centro dei lavori, partendo dal proprio vissuto personale: «Risiedo nella Valle del Sacco, uno dei 56 siti italiani da bonificare, pertanto certe problematiche le vivo sulla mia pelle. [Quello dell’inquinamento ambientale, ndr] è un problema serio, del quale noi cattolici non siamo sempre stati abbastanza consapevoli: abbiamo combattuto le battaglie per la giustizia sociale, dimenticando che la tutela del creato ne fa parte». Il presule ha poi denunciato i livelli drammaticamente preoccupanti raggiunti dall’inquinamento, sottolineando l’urgenza di una piena presa di coscienza della situazione da parte di tutti i cristiani e ricordando la svolta teologica e pastorale generata dall’enciclica Laudato si’ del Santo Padre Francesco. «Se rileggiamo la Genesi – ha aggiunto da biblista monsignor Spreafico – ci rendiamo conto che abbiamo combinato dei guai, perché ci siamo ritenuti solo dominatori del creato, dimenticando di esserne custodi e coltivatori».
Al libro della Genesi si è richiamato anche Piero Stefani, biblista e presidente nazionale del S.A.E., che nei saluti iniziali ha voluto poi ricordare come ecumenismo ed ecologia abbiano la stessa radice etimologica (dal termine greco «οἶκος», casa) e che pertanto «non esistono in natura, ma – come la casa – sono una costruzione. E trattandosi di una costruzione dobbiamo ricordare che l’avanzamento dei lavori dipende da noi, ma il giorno dell’inaugurazione dipende dallo Spirito. Non a caso, nel giorno di Pentecoste, lo Spirito entrò proprio in una casa».
Ai saluti delle autorità presenti, ha fatto seguito un trittico ecumenico di videomessaggi, inviati da Sua Santità il patriarca ecumenico Bartolomeo I, dal celebre teologo Jǖrgen Moltmann e dal cardinal Peter Kodwo Appiah Turkson, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. «Siamo convinti che la crisi ecologica non è solamente un fatto economico, politico e nemmeno tecnologico, ma rivela primariamente una crisi teologica e spirituale, perché abbiamo ignorato la creazione come un dono sacro fattoci da Dio» ha dichiarato nel proprio messaggio Sua Santità Bartolomeo I, sottolineando che la cura del creato «è una questione ecumenica perché solo insieme saremo capaci di affrontare e risolvere la crisi ecologica». Quasi collegandosi idealmente a questa riflessione, da Tǖbingen anche il professor Moltmann ha sostenuto l’importanza di un impegno teologico per la salvaguardia del creato, perché «la teologia moderna è colpevole di avere creato una visione antropocentrica del mondo» e al contempo la spiritualità  cristiana si è tradizionalmente «orientata verso l’al di là: siamo ospiti su questa terra, siamo di passaggio, e quindi ci sentiamo autorizzati a prendere quel che ci serve e a buttare le cartacce». C’è bisogno allora urgentemente di una «nuova spiritualità dell’al di qua», di una «nuova teologia della terra», di una «eucaristia cosmica». E questo bisogno riveste il carattere dell’urgenza, perché «se noi guardiamo al contesto attuale, allora non c’è speranza. Ma se siamo credenti, allora dobbiamo guardare al testo, e quel Testo è pieno di promesse, è pieno di speranza. È la speranza di una nuova creazione, che non è proiettata nell’al di là, ma è iniziata con la risurrezione di Cristo. Lo Spirito della vita viene versato su tutta l’umanità, su tutta la carne, e la speranza guarda al nuovo cielo, alla nuova terra e alla giustizia. […] È questa speranza che ci spinge a fare tutto quello che è nelle nostre possibilità per permettere ai nostri figli, e ai figli dei figli, di vivere». A quest’auspicio di una nuova teologia ha fatto seguito la suggestiva riflessione biblica proposta dal cardinal Turkson, il quale ha fatto notare come il termine utilizzato da Genesi per indicare il compito di custode  del creato affidato all’uomo sia lo stesso utilizzato anche da Caino per rinnegare il compito di custode del proprio fratello (Gen 4,9). «Questo – ha concluso il porporato – ci fa capire che il creato e i suoi elementi vanno custoditi come fratelli e sorelle e non come un oggetto». 

Prima Giornata. Dopo l’autorevole carrellata di saluti e messaggi iniziali, è stata la volta dell’introduzione ai lavori, affidata a Gadi Luzzatto Voghera, membro della comunità ebraica di Venezia e direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, alla quale hanno fatto seguito un medaglione sul tema Ecumene ed ecologia nell’Israele di oggi, curato da Miriam Camerini, nonché la relazione di Simone Morandini, docente presso l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia, dal titolo Ecumene ed ecologia. Un’ouverture. Tracciando un percorso per «delineare il senso di quella prossimità tra ecumene ed ecologia che sta al centro di queste giornate», Morandini lo ha articolato in quattro tappe. Nella prima, come già suggerito da Piero Stefani, ha sottolineato la «prossimità etimologica» tra i due termini, che «parlano di una casa comune e di un abitare condiviso, rimandando ad un impegno – pure comune – di custodia» e ci consentono di arrivare «a cogliere la presenza di un ulteriore elemento accomunante la pratica ecumenica e quella ecologica» ovvero la «passione per le differenze: la ricchezza della biodiversità da un lato, quella delle confessioni e dei modi di vivere l’unica fede, dall’altro. Non a caso la koinonia ecumenica ha un radicamento trinitario, così come trinitaria è la modulazione delle migliori ecoteologie della creazione». Nella seconda tappa, si è soffermato a considerare l’esistenza di una «storia ecumenica di attenzione al creato», che parte remotamente dalle vicende di quei mistici (da Francesco d’Assisi a Ildegarda di Bingen, da Isacco il Siro a Serafino di Sarov) «che attraverso la storia delle nostre chiese ci hanno ricordato l’appassionato amore alla creazione cui siamo chiamati», per giungere al contributo delle più recenti Assemblee Ecumeniche Europee (Basilea, Graz, Sibiu) e alla Laudato si’ di Papa Francesco, passando attraverso «quei pionieri solitari che già nella prima metà del ‘900 o nel secondo dopoguerra hanno iniziato ad esplorare […] un’ecoteologia» (A.Schweitzer, P.Teilhard de Chardin, J.Sittler), la sensibilità degli anni ’70 (è questa l’epoca in cui operano l’economista e teologo evangelico Paul Abrecht, primo nella storia a parlare di «sostenibilità», ma anche l’ortodosso-orientale Paul Verghese, divenuto poi Gregorios Mar Thomas, nonché, sul versante cattolico, padre Bartolomeo Sorge e Giorgio Nebbia) e quella degli anni ’80 e ’90 «con l’avvio del processo JPIC (Justice, Peace and the Integrity of Creation, ndr) da parte dello stesso CEC (Consiglio ecumenico delle Chiese, ndr), con la proclamazione della Giornata per il Creato da parte del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli nel 1989 (Dimitrios I), con il messaggio per la Giornata della Pace del 1990 da parte di Giovanni Paolo II. Una convergenza di attenzione che ha aperto la strada a quel clima di attiva collaborazione che anche in questa sede – come ogni anno, nel mese di settembre – sperimentiamo». Nella terza tappa, alla luce della storia ecumenica così esplorata, Morandini ha tentato di analizzare la «comune preoccupazione per la nostra terra» di fronte a questa crisi ecologica multidimensionale (locale e globale), invocando una «profonda conversione ecologica» che è necessariamente anche una «conversione ecumenica» perché «di fronte a sfide come questa, il mondo è troppo forte per una Chiesa divisa». Nella quarta ed ultima tappa, il teologo ha voluto offrire alcune «parole per la prassi», indicate come prospettive per la realizzazione della invocata conversione ecologica, tra le quali: essere «sacerdoti del creato, che lo portano dinanzi al Signore, rendendo grazie ed invocandone la benedizione»; agire da «sentinelle, lungimiranti, capaci di praticare la custodia e di chiamare ad essa»; diventare buoni «amministratori che sanno che la terra è affidata loro e devono coltivarla e custodirla, che sanno anche che la terra non è mai davvero nostra (Del Signore è la terra e quanto contiene), che nessuno è padrone esclusivo degli spazi che gli sono donati ed è quindi tenuto ad accogliere il forestiero che viene».

Seconda Giornata. La meditazione mattutina di don Bruno Bignami, direttore dell’ufficio CEI per la pastorale sociale e del lavoro, e il medaglione dello ieromonaco Ambrogio Matsegora hanno aperto la seconda giornata del convegno, che ha visto l’intervento di monsignor Paolo Martinelli (OfmCap), vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Milano, sul tema Dal custodire il creato all’essere solidali con le creature. Farsi carico del creato, come fosse un fratello. «La terra è ferita. La creazione soffre – ha dichiarato il cappuccino – e noi che ne facciamo parte siamo al tempo stesso portatori di questa ferita, ma anche coloro che l’anno provocata». Di fronte a questa paradossale situazione abbiamo il dovere di «ritornare nella posizione in cui la Parola di Dio ci colloca rispetto al mondo» e per farlo dobbiamo «emanciparci da quelle forme di globalizzazione della tecnocrazia che riduce il reale a mera materia manipolabile». Da francescano, Martinelli ha poi voluto sottolineare come l’originalità del messaggio del Poverello d’Assisi risiedesse proprio nella posizione rispetto alla creazione: con la sua idea di fratellanza universale con ogni creatura, Francesco ci mette al riparo sia dal rischio di una deriva panteistica, sottolineando «che il creato è differente, è altro rispetto a Dio», sia dal rischio di un delirio di onnipotenza dell’uomo, sottolineando che l’uomo, pur essendo posto a capo della creazione, non è Dio. «Tuttavia l’uomo, per amore, può scegliere di subordinarsi, di sottomettersi alla creazione per servirla, per servire le altre creature. […] È questa l’idea francescana della minoritas, da cui il nome dei frati di Francesco».

All’intervento del presule ha fatto seguito un medaglione curato dalla Chiesa Avventista del Settimo Giorno, in cui sono state presentate alla platea dei convegnisti le figure di molti celebri avventisti particolarmente attivi sul versante dell’ecologia, tra cui quella di John Harvey Kellog (1852-1943), medico e inventore dei corn flakes, nonché autore del libro The Living Temple, in cui espose la propria visione ambientalista che scaturiva direttamente dalla sua profonda fede cristiana.

A padre Sergio Mainoldi del Patriarcato Ecumenico è stata affidata invece la seconda relazione della giornata, dal titolo Chiamati a lodare il Dio Creatore e a custodire la creazione. La vocazione della creatura umana al servizio del cosmo. In linea con il messaggio del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, l’intervento di padre Sergio è stato finalizzato a «riportare le cause della crisi ambientale alla dimensione spirituale» per poter ricercare una vera soluione, «che non può essere semplicemente quella del contenimento degli effetti dell’azione antropica al di sotto del livello di saturazione, attraverso il ricorso alla tecnica». In quest’ottica, Mainoldi ha offerto una rilettura della storia della salvezza in cui «il peccato originale costituisce il primo atto della tecnica, cioè la strumentalizzazione della natura per un fine non benedetto da Dio». È con il peccato di Adamo, dunque, che «la tecnica si sostituisce alla relazione di comunione tra Dio e l’uomo e ne interrompe il perfezionamento che doveva arrivare fino alla deificazione, allorché all’uomo sarebbe stato consentito di gustare il frutto dell’Albero della vita. Privato della comunione deificante, all’uomo rimane a disposizione per sopravvivere soltanto la tecnica: inizia così la sua lotta contro la terra, che dovrà essere coltivato con sudore e fatica. E inizia così lo sfruttamento per necessità della natura (cf. Gn 3,17-22). Essendo tratto dalla terra, l’uomo lottando contro il cosmo, lotta contro se stesso. La distruzione di sé come conseguenza della distruzione dell’ambiente trova dunque un fondamento ontologico nel legame inscindibile tra l’uomo e il mondo. Ogni crisi ecologica, nuova o vecchia che sia, non fa dunque che mettere in luce questo legame, sebbene lo faccia attraverso il suo aspetto più drammatico». Come risposta a questa situazione, le religioni pagane hanno generato un pensiero cosmistico che altro non sarebbe che «l’accettazione da succubi della maledizione della necessità alla quale soggiace l’uomo cacciato dall’Eden». In conseguenza di ciò, il paganesimo ha elaborato un modello antropologico ancora oggi fortemente radicato in molte culture, ovvero il modello prometeico dell’uomo in lotta contro la natura: «le forze naturali sono l’oggetto mimetico del pensiero anti-eucaristico, sono temute e idolatrate allo stesso tempo, ma desiderate a tutti i costi, pur nella piena consapevolezza del rischio di essere da esse sopraffatti e annientati. Un esempio altamente simbolico di questa incapacità di fermarsi davanti al rischio di annientamento, è costituito dalla statua di Prometeo che si trovava nella città ucraina di Pripyat, la cui vita si arrestò il 26 aprile 1986 a causa dello scoppio del reattore 4 della centrale di Chernobyl, intitolata a Vladimir Ilič Lenin». Secondo il Mainoldi, dunque, non è nel presunto antropocentrismo biblico che bisogna cercare le cause di un rapporto insano tra uomo e natura, quanto piuttosto «nel secolarismo che ha avvolto la cultura europea a partire dal XVIII secolo [… Infatti] tutti noi a scuola siamo stati educati ai toni trionfalistici che ci dipingevano la rivoluzione scientifica come la fine di quel geocentrismo prodotto dall’antropocentrismo biblico. Questa visione ingenua della natura vergine, non meno della visione ingenua su cui si edifica un altro dei miti della modernità, quello del “buon selvaggio” di roussoniana memoria, non solo contraddice il punto di vista cristiano, ma soprattutto, a decine d’anni dalla sua comparsa e metabolizzazione da parte della cultura contemporanea, non ha saputo minimamente innescare un’inversione di tendenza verso una maggiore tutela dell’ambiente». Al tempo stesso, bisogna stare in guardia dai pericoli di una ideologia pannaturalistica de-antropizzata molto diffusa ai giorni nostri, ovvero della «idea neopagana che vede l’uomo come un elemento di mero disturbo di una supposta perfezione naturale». Come cristiani, contro tutti questi rischi e storture, dobbiamo assolutamente «rilanciare con forza l’idea della responsabilità dell’uomo nella coltivazione e nella custodia del creato, non come mera responsabilità morale, bensì come conseguenza di un legame ontologico imprescindibile».

Dalla solidarietà con tutte le creature alla denuncia dei percorsi sbagliati. Gli errori dell’uomo ricadono sull’uomo stesso e ciò nonostante continua a sbagliare è stato il titolo della terza relazione della giornata, introdotta e moderata dal giornalista Luca Baratto, affidata al pastore Peter Pavlovič, dottore in teologia e in fisica, membro della conferenza delle Chiese europee e segretario della rete cristiana europea per l’ambiente ECEN (European Christian Environmental Network), e resa accessibile a tutti grazie alla traduzione simultanea dall’inglese del pastore Luca Maria Negro, che ha funto da interprete. L’intervento di Pavlovič si è articolato in quattro punti: nel primo, ha dimostrato come la cura del creato sia parte integrante della fede cristiana; nel secondo punto, ha sostenuto la necessità del dialogo tra scienza e fede per la realizzazione di quest’opera di cura; nel terzo punto, illustrando le attività dell’ECEN, ha parlato del lavoro svolto dalle Chiese in risposta ai cambiamenti climatici e sottolineato l’importanza della cooperazione ecumenica in quest’ambito; nel quarto ed ultimo punto, ha ribadito la necessità dello sviluppo di una teologia del creato fondata sul concetto-chiave di speranza, «perché le Chiese sono Chiese e non Ong ambientaliste».

Dalla denuncia alla proposta di un cammino nuovo è stato il tema della relazione della pastora Letizia Tomassone della Chiesa valdese, che ha proposto degli «sguardi di speranza in vista di una maggiore presa di coscienza». È stata poi la volta dell’intervento più atteso della giornata, introdotto e moderato dal sottoscritto Michele Giustiniano e affidato al professor Enrico Giovannini, già ministro del lavoro e delle politiche sociali, chief statistician dell’OCSE (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), presidente dell’Istat dal 2009 al 2013, nonché docente di statistica economica presso l’ateneo di Roma Tor Vergata. Nella sua relazione intitolata L’Italia, un Paese ad alta densità di scarti fisici e di scarti umani, Giovannini ha esposto l’importanza della Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile, approvata dalle Nazioni Unite nel 2015, e dei relativi 17 obiettivi di sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030, sottolineando l’impegno profuso in questa direzione dall’Asvis (alleana italiana dello sviluppo sostenibile), di cui lo stesso Giovannini è portavoce.    

La giornata si è poi conclusa presso la Chiesa di San Martino in Greco con una tavola rotonda, guidata dalla giornalista Mariachiara Biagioni, alla quale hanno preso parte il direttore della Caritas ambrosiana Luciano Gualetti, il veterinario Emanuele De Gasperis della chiesa battista e l’archimandrita Athenagoras Fasiolo del Patriarcato Ecumenico

Terza Giornata. Nella terza ed ultima giornata di lavori, dopo la toccante meditazione mattutina del pastore Carmine Napolitano, preside della facoltà pentecostale di scienze religiose di Bellizzi (SA), è stato dedicato ampio spazio al confronto: i convegnisti sono stati suddivisi in quattro gruppi di lavoro, ciascuno dei quali ha riflettuto su una serie di interrogativi e di tracce: 1. Cosa dice la Bibbia? Chi ci muove? Perché ci muove e in vista di cosa? 2. Formazione, sensibilizzazione e sviluppi di elementi liturgici. 3. Collaborazione con la società civile e le istituzioni.

Il gruppo 1, guidato da Laura Caffagnini, si è concentrato particolarmente su una serie di meditazioni bibliche incentrate sul tema del creato. Il gruppo 2, moderato da monsignor Marco Gnavi, ha sottolineato l’importanza del ruolo dei laici nel «coniugare la spinta etica, che proviene dalla nostra fede comune, con il sapere umano e scientifico in vista di scelte sagge e efficaci, soprattutto per dare intelligenza e nuova comprensione della realtà ai mondi ecclesiali». Sulla scia di Panikkar e di Teilhard de Chardin, il gruppo 3, guidato dal professor Riccardo Burigana dell’Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino di Venezia, ha sottolineato la necessità di passare da un paradigma fondato sulla ecologia ad uno fondato sulla ecosofia: «In quest’ottica, che vuol dire anche cambio di stili di vita, è immediato il rimando alla Sofiologia del mondo Ortodosso e si avverte in maniera forte l’esigenza in ambito liturgico e teologico di legare la teologia del creato alla teologia della bellezza, particolamente importante in un periodo in cui la teologia vive una crisi di linguaggio». Il gruppo 4, infine, concentrando la propria attenzione sull’ambito educativo, ha avanzato delle interessanti proposte concrete, come quella di «inserire nell’insegnamento delle facoltà teologiche un particolare focus sulla salvaguardia del creato, per creare nuove generazioni di predicatori attenti a questo tema e capaci di comunicarne l’importanza alle loro comunità».

Conclusioni

Alla fine dei lavori, notando come le differene tra le Chiese presenti rappresentino «una ricchezza da condividere, in un certo senso paragonabile alla biodiversità del creato, da custodire da una facile omologazione», monsignor Ambrogio Spreafico ha tirato le somme del convegno sottolineandone i punti salienti attraverso tre concetti-chiave: armonia, alleanza, condivisione.
Armonia delle differenze, perché «nella Bibbia il creato viene spesso descritto come un insieme di elementi costituiti con un ordine, un’armonia delle differenze. […] L’ordine cosmico appare come una taxis di elementi opposti ma disposti in armonia. Il compito del sapiente, e quindi della scienza, è indagare questa taxis perché esprima la sua ricchezza e il suo potenziale di vita. A questo ordine cosmico corrisponde un ordine umano, etico, di armonia (e quindi convivenza nella differenza), la cui eliminazione rischia di riportare il creato al caos originario».
Alleanza perché, come dopo il diluvio, anche oggi si rende necessaria una nuova alleanza: «non solo tra noi, come in questi giorni è emerso con chiarezza, ma tra noi e gli esseri viventi, umani e non. […] Certo le nostre chiese non sono aziende, eppure non dovremmo suscitare, appoggiare, inventare risposte anche concrete a questi dati allarmanti?».
Condivisione perché «l’alleanza è condivisione. Noi abbiamo condiviso idee, preghiera (e non è male, perché in essa c’è una forza inaspettata di cambiamento), tavola, amicizia. Condividere oggi è un verbo controcorrente che richiama resistere, perché per condividere occorre opporsi al clima di rancore e di odio della nostra società, che ci vorrebbe nemici».
E allora l’invito è, da un lato, a non cedere «alla logica dell’esclusione, della violenza e delle armi, sia quelle da guerra di conquista sia quelle delle parole (anche sui social; si dovrebbe introdurre il peccato del mi piace per i cristiani che condividono insulti e odio sulla rete) e dei gesti», dall’altro, ad impegnarsi a «produrre strumenti di pace e di condivisione, come abbiamo fatto in questi giorni, per preservare la terra e l’umanità da un futuro disumano e dalla distruzione».
di Michele Giustiniano

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