LA SOFFERENZA DI DIO

LA RIFLESSIONE DI ABRAHAM HESCHEL

Abraham Joshua Heschel è un esponente dell’ebraismo riformato americano che ha contribuito notevolmente a far conoscere l’ebraismo ai cristiani, non solo per il suo pensiero ma anche per la sua personalità di grande fascino: “[…] tutti coloro che lo hanno conosciuto lo descrivono come una personalità vulcanica, dotato di uno humour incontenibile, di una estrema apertura mentale, e soprattutto di una grande libertà interiore”[1]. Nato a Varsavia nel 1907 da una famiglia di gloriose tradizioni chassidiche, Heschel sin da giovane ha manifestato una grande libertà di pensiero, perché è andato oltre gli studi talmudici tradizionali. A Berlino si è dedicato agli studi filosofici, succedendo alla cattedra di Martin Buber a Francoforte, manifestando una eccezionale capacità nel coniugare il pensiero filosofico occidentale con la rivelazione biblica. Al tempo delle persecuzioni razziali Heschel venne deportato a Varsavia, dove trovò ancora il tempo per dedicarsi all’insegnamento. Fu poi costretto a emigrare negli Stati Uniti, dove divenne docente presso il prestigioso Hebrew Union College di Cincinnati; in seguito docente di etica e di mistica ebraica al Jewish Theological Seminary di New York, mantenendo la cattedra fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1972. Il pensatore ebreo americano realizza la sintesi tra la filosofia contemporanea, le fonti teologiche e la corrente mistica della fede ebraica, veicolata con un linguaggio attuale, comprensibile anche per coloro che non si professano credenti. Verso la fine della sua carriera accademica e pubblicistica Heschel si è dedicato a un progetto ambizioso, quello della teologia dell’ebraismo antico, dal titolo ‘La Torah viene dal cielo’, scritta non in inglese ma in ebraico ‘Torah min ha-shamajim[2] e finora mai tradotta in nessun altra lingua. Si tratta di una vera summa di teologia ebraica scritta con grande pathos. Il saggio ‘La discesa della Shekinah’ edito dalla Qiqajon, raccoglie alcuni capitoli dell’opera ‘La Torah viene dal cielo’. Heschel non si limita ad una silloge di testi rabbinici, ma  con sapiente libertà intellettuale e spirituale si inserisce nell’antichissima diatriba sul significato dell’evento inaudito del dono della Torah al Sinai, tra la scuola di Rabbi ‘Aqiva e quella di Rabbi Jishma’el. Ci sono certamente studi sul pensiero rabbinico molto più completi dal punto di visto filologico, ma il contributo originale di Heschel è quello di offrire una lettura personale di tale tradizione, anche se per alcuni questo è il suo limite di fondo[3].

Il pensatore di origini polacche, esponente dell’ebraismo liberale,  sembra quasi condividere il pensiero di Rabbi ‘Aqiva per la passione con cui lo riporta, consapevole di percorrere un sentiero ebraico non condiviso, ma che affonda le sue radici nella sua formazione chassidica filosofica, pensiero che evidenzia fortemente la  discesa di Dio nella storia, la sua compassione, la condivisione dell’esilio vissuto dal popolo, per l’interdipendenza tra Dio e l’uomo nell’opera salvifica. L’Autore evidenzia la diversità metodologica, non solo contenutistica, delle due scuole rabbiniche: una si attiene maggiormente al senso letterale, mentre l’altra va oltre il testo, alla ricerca del senso midrashico (spirituale, mistico secondo il cristianesimo)[4]. Entrambe le scuole credono nell’ispirazione divina della Torah, ma la questione che si pongono è se il Signore sia effettivamente sceso sul monte Sinai, poiché anche il testo biblico manifesta in merito una contraddizione: “Dal cielo ho parlato con voi” (Es 20,2); “Il Signore discese sul monte Sinai” (Es 19,20). Heschel rileva in merito: “Lo stesso dono della Torah viene fatto in due modi diversi. C’è la via della spiegazione e la via della visione: quello di Rabbi Jishma’el è il senso ovvio del testo (peshat), quello di Rabbi ‘Aqiva è il senso mistico (mistorin)”[5]. L’Autore definisce la posizione di Jishma’el ‘profetica’, poiché evidenzia l’irriducibile distanza fra Dio e l’uomo e quella di ‘Aqiva ‘apocalittica’, poiché propone uno svelamento di Dio, non solo sul Sinai, ma anche alla fine della storia. Secondo Rabbi Jishma’el la Torah si è fatta udire dal cielo, parla un linguaggio umano, ma il Signore non è veramente sceso per donarla; per Rav ‘Aqiva, invece, l’evento sinaitico realizza la congiunzione tra il cielo e la terra. Sottolinea in merito Heschel: “Rabbi ‘Aqiva dice: C’è un passo che dice dal cielo, e un altro passo che dice: Il Signore discese sul monte Sinai, sulla cima del monte. Questo ci insegna che il Santo – benedetto sia – piegò il cielo superiore fino a toccare la cima del monte, e in tal modo parlò loro dal cielo, secondo quanto sta scritto: Dal cielo ho parlato con voi. Sta scritto, infatti: Egli abbassò il cielo e discese, una nube oscura era sotto i suoi piedi (Sal 18,10)”[6]. Per Rabbi ‘Aqiva sul Sinai viene superata la distanza tra il cielo e la terra, tra il mondo superiore e quello inferiore: “Nella rivelazione sinaitica , e quindi in ogni riattualizzazione di quell’evento originario, si attua una sorta di sconfinamento per cui Dio raggiunge la terra e l’uomo raggiunge il cielo. Che la Torah venga dal cielo vuol dire, per ‘Aqiva, che il fuoco della Parola è sceso sulla terra, e questo fuoco si riaccende ogni volta che ci si accosta ad essa. Ogni volta che si è occupati nella Torah, è come se la Torah scendesse dal cielo, ovvero è come se si rinnovasse l’evento sinaitico”[7].

La svolta negli studi di Heschel era iniziata con una tesi sul profetismo[8], sostenuta a Berlino nel 1933, in cui sostiene che questo fenomeno biblico può essere tematizzato con la categoria greca del pathos, della compassione, come partecipazione al pathos di Dio, in quanto il Dio dei profeti non è il Dio impassibile dei filosofi. I profeti non sono degli aruspici, degli indovini che rivelano un futuro già prestabilito, ma sono coloro che hanno una particolare capacità di compatire con Dio. La scuola di ‘Aqiva ha messo in risalto il messaggio dei profeti per il loro essere uomini simpatetici con il pathos di Dio[9]. Si può parlare di pathos di Dio a partire dalla Shekinah (il termine deriva dalla radice ‘abitare, dimorare’), la discesa di Dio, della sua Gloria, la Presenza di Dio nel mondo, il suo dimorare in mezzo agli uomini, anche alle loro impurità,  realizzando un movimento discendente di abbassamento, a partire dall’evento sinaitico, che racchiude due aspetti, il dono della Torah e lo svelamento della Shekinah, cioè l’insegnamento e la salvezza. Quando fu eretta la Dimora – evidenzia Heschel – per merito dei giusti la Shekinah è discesa nel mondo inferiore. Anche all’epoca degli amoraiti “nell’evento del Sinai si vide non soltanto il dono della Torah e dei precetti, ma anche un mutamento nell’ordine creazionale, un sovvertimento delle leggi naturali”[10]. I maestri tannaiti della prima generazione interpretarono la discesa della Shekinah (“Io scenderò con te” Gn 46,4; “Ho visto tutta la miseria del mio popolo in Egitto…Perciò sono sceso a liberarlo dalla mano degli egiziani” Es 3,7-8) come una locuzione, mentre quelli della seconda generazione hanno interpretato i termini ‘scendere’ e servire’ come la condivisione di Dio della condizione di Israele (“Con lui sono nella sventura” Sal 91,15).

Secondo Rabbi Jishma’el e la sua scuola Dio non discese; per Rabbi Jehoshua’ non si può parlare di discesa della Shekinah perché Dio è sempre con il suo popolo[11]. Secondo il Maharal di Praga la discesa e la venuta di Dio non va interpretata in senso corporeo, poiché significa che  la Torah ha parlato la lingua degli uomini per poter essere da loro percepito[12]. La scuola di ‘Aqiva – che comprende i maestri più autorevoli della Mishnah[13] – parla, invece, di varie discese della Shekinah[14]. Secondo Rabbi Shim’on bar Johai la Gloria non discese soltanto sul Sinai perché la Scrittura testimonia dieci discese; tutta la storia dell’uomo – a causa del male – è un ritirarsi della Shekinah, ma essa vi ritorna. L’importante non è tanto la precisazione numerica – rileva Heschel – ma il principio teologico secondo cui, la Shekinah essendo scesa una volta, tale evento può avvenire ancora. Rabbi ‘Aqiva e la sua scuola hanno affermato che la discesa della Shekinah non è stata meramente metaforica, perché il cielo e la terra si sono incontrati (cf. Es 40,35);  la Shekinah discese sul monte Sinai (cf. Sal 18,10) e Mosè ascese nei cieli. Secondo tale scuola rabbinica, fortemente innovativa, Dio era nello stesso tempo nel suo mondo celeste, superiore, e la sua Gloria scese realmente sulla terra, nel mondo inferiore; i due mondi si sono incontrati ed è stata superata la distanza. Rabbi El’azar ben ‘Arak ha precisato che Dio è disceso abbassando se stesso[15]; secondo il pensiero apocalittico con la riparazione del mondo ci sarà il ritorno della Shekinah, come emerge pure dal libro di Enoc I (Etiopico), secondo il quale “alla fine dei giorni il Dio del mondo scenderà sul monte Sinai e si manifesterà dai cieli per fare giustizia su ogni cosa (I,4-9). Riguardo all’articolata discussione rabbinica Heschel puntualizza: “Mi sembra che il motivo del dissenso fra i maestri tannaiti[16] in merito alla discesa della Gloria non stia nel domandarsi se si possa attribuire al Signore del mondo un qualche movimento in un luogo, bensì nel domandarsi se il Santo – benedetto sia – , che neppure i cieli dei cieli contengono, abbia potuto contrarsi e scendere all’interno di questo mondo. E forse, connesso a questo, vi è un argomento più profondo: che cos’è lo svelamento della Shekinah? Parola che esprime la sola volontà, oppure evento che tocca in sé e per sé il Santo – benedetto sia – ?”[17]. Secondo l’Autore la teologia di Paolo della Kenosis del Figlio di Dio (cf. Fil 2,6-8) attinge da questa corrente di pensiero giudaico e la critica da parte della maggioranza dei maestri ebrei proviene dal fatto che essa ha un’analogia con la teologia cristiana[18].

La discesa della Shekinah – come già accennato – richiama  il tema della condiscendenza, della misericordia, della compassione di Dio, centrale nella rivelazione biblica. Secondo Rabbi ‘Aqiva Dio è colpito dalle sofferenza di Israele; i patimenti del popolo sono quelli di Dio (cf. Is 63,9; Sal 91,15), la schiavitù d’Israele è la stessa schiavitù di Dio[19]; perfino i fenomeni naturali sono una manifestazione delle sue sofferenze. Quando Israele è nella sofferenza Dio soffre con lui, soffre anche per ogni uomo della terra, anche per il peccatore[20]. Secondo l’innovativo maestro – evidenzia Heschel – la misericordia di Dio, la compassione di Dio alle sofferenze di Israele, è una realtà intrinseca, “che lo tocca intimamente; come dire che a sua volta egli è colpito, se ciò fosse possibile, dalle sventure della nazione”[21]. Tale sofferenza è comunitaria (“In tutta la loro angoscia egli si angustiò” Is 63,9) e personale (“Con lui io sono in angoscia” Sal 91,15). L’evento dell’Esodo rivela che Dio si fa solidale con l’oppressione degli ebrei in Egitto, manifesta una ’simpatia’ emozionale, una straordinaria condivisione di sentimenti[22]. La novità dell’argomentare di ‘Aqiva – sottolinea il pensatore ebreo americano – consiste nel fatto che la solidarietà di Dio con il patire umano, non consiste in un compatire esterno, distaccato,  cioè l’offerta del suo aiuto, ma il suo coinvolgimento nel dolore umano, poiché prende su di sé la nostra sofferenza, che è anche la sua. Rileva in merito Heschel: “Rabbi ‘Aqiva insegnò che il coinvolgimento – benedetto sia – nella vita di Israele non è una mera forma di sollecitudine, l’attributo di misericordia che si esprime nella relazione con il suo popolo. Infatti la sofferenza di chi compatisce è assimilabile a un patire da lontano, al patire di chi osserva dall’esterno, mentre la condivisione del Santo – benedetto sia – è identificazione, qualcosa di intrinseco, che lo tocca intimamente; come dire che a sua volta egli è colpito, se ciò fosse possibile, dalle sventure della nazione”[23].

L’insegnamento di ‘Aqiva suscita però degli interrogativi, come rilevato da Heschel: “Un simile insegnamento non rischia di svilire e limitare la fede in ogni potere del Creatore? E ancora si potrà obiettare: il Dio di Israele, che dà forza e potenza al popolo, ha forse bisogno che Israele gli dia forza?”[24]. La misericordia compassionevole di Dio sembra negare la sua potenza, ma secondo Rav ‘Aqiva è meglio ridimensionare la fede nella Potenza di Dio che nella sua misericordia. L’apparente paradosso scaturisce dalla reciprocità della relazione: se Dio soffre con Israele e con ogni uomo, gli israeliti devono partecipare alla sofferenza di Dio, l’uomo deve condividere le sventure del Santo. La scuola di ‘Aqiva sottolinea, quindi, la correlazione tra le sofferenze umane e quelle di Dio. Il dolore caratterizza Dio stesso e Israele è chiamato a condividerlo, come affermato da Rav Judan con la sua  parabola della partoriente: “Disse la madre alle vicine: Come potrei, ora che mia figlia sta soffrendo, sopportare le sue grida? Certo che urlo insieme a lei: il dolore di mia figlia è il mio dolore”[25]. Questo insegnamento contestato dalla tradizione rabbinica – come già rilevato – fa emergere delle criticità messe in risalto da Heschel, perché Il Dio che soffre e che ha bisogno di salvezza, come può essere il Dio della potenza salvifica? “Si obietterà che la difficoltà resta immutata. Vi è la cosa e il suo contrario. Come si possono mantenere la forza e la potenza del Creatore là dove si insegna la sua dipendenza dalla salvezza? Forse allo stesso modo che il Creatore, della cui gloria è piena tutta la terra, ridusse la Shekinah fra le due stanghe dell’arca per rivelare le sue parole a Mosè, così ridusse la Shekinah dentro la storia di Israele, per seguire nell’esilio il popolo che si era scelto. Misericordia e potenza: la misericordia precede, né vi sono limiti alla misericordia dei cieli. Dal momento che egli condivide la sventura della nazione, prende su di sé le sue sofferenze, se così posso esprimermi”[26].

Alla luce di tutto ciò è possibile parlare di esilio della Shekinah; Dio si autoesilia dal luogo della sua dimora poiché rimane coinvolto nell’esilio del suo popolo. Rabbi ‘Aqiva ha insegnato ripetutamente che Dio condivide l’esilio d’Israele, va in esilio con lui, torna dall’esilio con lui; tale insegnamento è stato portato avanti anche dai suoi discepoli[27].  Shimon bar Johaj, a cui viene attribuito la paternità della corrente mistica ebraica dello Zohar, afferma che in ogni esilio di Israele anche la Shekinah rimane esiliata, in quanto Dio prende su di sé i nostri pesi, i nostri mali. In merito a questa affermazione, che ha suscitato le  critiche della tradizione rabbinica[28], a mio avviso bisogna rilevare che il Dio che si autoesilia – che paradossalmente ha bisogno di essere salvato –  è nello stesso tempo anche  l’Altissimo, il Totalmente Altro, Colui che opera la salvezza dell’uomo. La scuola di ‘Aqiva si è posto l’interrogativo in merito a quale sia la finalità dell’esilio della Shekinah. Dio è andato in esilio per riscattare il suo popolo, ma la salvezza, la redenzione riguarda solo l’uomo o Dio stesso? L’uomo ha bisogno di redenzione poiché trasgredisce la Legge di Dio, ma da cosa dipende questa fragilità? La scuola rabbinica che porta avanti la riflessione innovativa afferma – come evidenziato da Heschel –  “che la trasgressione del primo uomo non fu la più antica: il primo uomo non aveva ancora trasgredito e già le forze della natura si erano guastate. Ne consegue che non si deve confinare la questione all’ambito del solo uomo. Vi è un difetto nell’opera della creazione”[29]. Rav ‘Aqiva ribalta, quindi,  la tradizione rabbinica più accreditata secondo cui la salvezza è una necessità umana, una necessità per Israele; per il maestro, invece,  si tratta di  una necessità superiore, che riguarda Dio stesso, “una necessità intrinseca del Santo – benedetto sia -, qualcosa che lo riguarda intimamente, e che verrà anche in assenza di meriti. ‘Sta per venire la mia salvezza (Is 56,1): qui non si dice la vostra salvezza, bensì la mia salvezza – sia il suo Nome benedetto -. Se la cosa non fosse espressamente detta, non si potrebbe affermarla”[30]. Poiché Dio è con Israele nella sventura, Egli agisce per se stesso, non per i meriti di Israele (cf. Sal 91,16-16). Questa affermazione non  ha una mera funzione consolatoria, ma nasce dalla profonda esperienza spirituale d’Israele, alimentata dalla fede e segnata dalla sofferenza: “Rabbi ‘Aqiva svelò i segreti del Santo – benedetto sia -. Il mondo e la storia degli uomini sono ordinati dalla parola di Dio che dice: Quel che è mio è tuo, quel che è tuo è mio. ‘La mia redenzione è la vostra redenzione’”[31]. Nel processo di salvezza è coinvolto anche l’uomo, ma la redenzione dipende soltanto da Dio. Rileva in merito Heschel: “Per l’antica concezione, tradizionalmente condivisa, la salvezza dipende dai meriti di Israele, mentre nel pensiero di Rabbi ‘Aqiva questa concezione implica che la salvezza è una necessità intrinseca del Santo – benedetto sia -, qualcosa che lo riguarda intimamente, e che verrà anche in assenza di meriti”[32].

Il pensiero di ‘Aqiva – rileva Heschel – diventa irriverente, quasi blasfemo, quando sottolinea che la Shekinah va in esilio per redimere se stessa, in base al presupposto della correlazione fra l’agire di Dio e quello dell’uomo. Israele non può salvarsi senza Dio e viceversa; Dio riscatta se stesso dall’esilio salvando Israele (cf. 2Sam 7,23). Paradossalmente si potrebbe affermare che sia Israele a salvare Dio, ma con tale linguaggio iperbolico, inadeguato a veicolare il Mistero inaudito, Rav ‘Aqiva intende sottolineare – come evidenziato da Heschel – la dimensione antropologica dell’opera salvifica, poiché  Dio ha bisogno dell’uomo per salvare il mondo[33]. Rabbi ‘Aqiva era consapevole che il suo pensiero era molto ardito e sconvolgente, ma esso si può comprendere solo a partire dall’evento del Sinai che ha abolito la distinzione tra il cielo e la terra, tra il mondo superiore e quello inferiore; la Parola, la Torah, ha superato la distanza, realizzando la comunicazione tra Dio e l’uomo, la discesa della Shekinah nella storia degli uomini. Heschel sottolinea che l’insegnamento paradossale di ‘Aqiva intende mettere in risalto l’amore folle e appassionato di Dio: “Nella casa di studio di Rabbi ‘Aqiva compresero la relazione del Santo – benedetto sia – con Israele come una condivisione intima: legato a Israele, se così fosse possibile dire, da vincoli di amore, ne condivide la salvezza e si riscatta nella sua salvezza. Una relazione così intensa appartiene alle cose che restano affidate al cuore”[34]. Rabbi Me’ir ha corretto l’insegnamento audace del suo maestro ‘Aqiva sottolineando che Dio si salva con Israele (cf. Es 14,30), ha redento se stesso liberando il popolo, “il Signore si salva con Israele. Io mi sono riscattato insieme a voi. L’autoredenzione di Dio, se così si può dire, non è un circolo chiuso, non è un processo che si svolge nel più alto dei cieli. Dio si salva, ma non da solo e non per stesso”[35]. L’autoredenzione di Dio[36] ingloba, quindi, anche la redenzione degli uomini[37].

I Maestri del Talmud hanno indagato a fondo la complessa questione se Dio abbia bisogno dell’aiuto dell’uomo, e si sono create – come rilevato – due correnti di pensiero opposte[38]: una più teocentrica e un’altra più antropocentrica. Heschel, alla cui riflessione è molto familiare questa tematica,  riporta continuamente il pensiero di entrambe le scuole per un confronto, ma certamente la sua simpatia va verso la scuola innovativa di ‘Aqiva, che consente fecondi sviluppi teologici anche nel dialogo con il cristianesimo, particolarmente per quanto riguarda il tema della sofferenza compassionevole di Dio, della sua misericordia, del suo amore che lo porta ad avere bisogno dell’uomo, annientando se stesso, pur essendo l’Altissimo, il Santo.

di Lucia Antinucci

 

 

[1] A.  J.  HESCHEL, La discesa della Shekinah, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2003,5 .

[2] I primi due volumi sono stati pubblicati da Soncino nel 1965, mentre il terzo volume, con gli indici, è stato pubblicato postumo dal Jewish Theological Seminary di New York.Tra le varie opere dell’Autore sono da ricordare anche L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, Rusconi 1970;  Dio alla ricerca dell’uomo. Una filosofia dell’ebraismo, Borla 1969; Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Rusconi 1972; ristampa Garzanti 1999; L’uomo alla ricerca di Dio, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 1995 ; Il canto della libertà, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 1999.

[3] Cf. HESCHEL, La discesa della Shekinah. Introduzione di Alberto Mello,10.

[4] Cf. ivi.

[5] HESCHEL, La discesa della Shekinah, 10.

[6] Ivi, 11.

[7] Ivi 11-12.

[8] Cf. ID., Il messaggio dei profeti, Borla 1981.

[9] Cf. HESCHEL, La discesa della Shekinah, 27.

[10] Ivi 107.

[11] Per Rabbenu Bahja quando si parla di discesa del Santo si vuole indicare il suo mostrarsi e svelarsi in un modo percettibile all’intelletto. Secondo Rabbi Eli’ezer Dio  ha parlato, ma non ha avuto bisogno di scendere dai cieli (cf. Mekilta de-Rabbi Jisma’el, Ba-hodesh, fine 9).

[12] Secondo altri maestri la divinità va purificata dalle forme corporee; per il filosofo ebreo Aristobulo c’è stata la discesa di Dio, ma egli “non pensava che Dio fosse sceso in sé e per sé sul monte Sinai, dal momento che egli è in ogni luogo. Piuttosto la sua discesa sul monte Sinai significa svelamento delle sue forze agli occhi di tutto il mondo, al di là delle vie naturali” (HESCHEL, La discesa della Shekinah, 95).

[13] La Mishnah è il compendio scritto della Torah Orale dell’ebraismo rabbinico.

[14] Sette, nove o dieci discese della Shekinah. Cf. Gn 3,8; 11,5; 18,21; Es 3,8; 19,3.20; 34,5;  Sal 18,10 e 2Sam 22,10; Nm 11,25; 2Re 2,11; Sal 115,16; Sal 18,10 e 2Sam 22,10; Ez 44,2; Zc 14,4.

[15] Secondo Rabbi Shim’on bar Johaj quando il Santo creò il mondo desiderò che vi fosse per lui un’abitazione anche nelle realtà inferiori, non solo in quelle superiori, ma a causa del male commesso dagli uomini, la Shekinah si ritirò dal mondo.

[16] Maestri ebrei dell’epoca della Mishnāh, dal principio del I sec. d.C. all’inizio del III. Svolsero e trasmisero oralmente la dottrina tradizionale ebraica, quale era venuta costituendosi dopo l’esilio babilonese.

[17] HESCHEL, La discesa della Shekinah  95-96.

[18] Cf. ivi 97.

[19] Secondo Rabbi Jehuda, discepolo di ‘Aqiva, chi reca danno a Israele lo fa a Dio stesso; se Israele è nella prosperità anche il Santo è nella prosperità e nella gioia. Secondo Rabbi El’azar ben Jose ha-Galili chi nuoce a Israele nuoce a se stesso.

[20] Cf. HESCHEL, La discesa della Shekinah, 69.

[21]Ivi 29.

[22] Cf. ivi 17.

[23]Ivi 28-29.

[24]Ivi 67.

[25] Midrash Tehillim 20,1.

[26] HESCHEL, La discesa della Shekinah, 74-75.

[27] Rabbi Jehoshua ha insegnato che Dio ha continuato ad essere con il suo popolo quando è andato in esilio (“Allora si mosse l’angelo di Dio che camminava davanti all’accampamento di Israele” Es 14,19); “Nel deserto dove hai visto che JHWH tuo Dio ti ha portato come un uomo porta suo figlio” Dt 1,31)[27]. Rabbi Hananja interpretava “Io sono JHWH tuo Dio che ti ho portato fuori dal paese di Egitto, dalla casa di schiavi” (Es 20,2) nel senso che Dio è stato portato fuori dall’Egitto con gli ebrei, perché hose’ tika (ti ho portato fuori) può essere letto anche huse’tika (con te sono stato portato fuori).

[28] Cf. HESCHEL, La discesa della Shekinah, 18.

[29] Ivi 88.

[30] Ivi 31.

[31] Ivi 32.

[32] Ivi 31.

[33] Rabbi Me’ir conferma e sviluppa il pensiero del suo maestro ‘Aqiva rifacendosi all’analisi filologica di  Es 14,30 (“In quel giorno il Signore salvò Israele”): “E’ scritto: il Signore si salvò con Israele, ossia, quando Israele è redento, Dio stesso – se ciò fosse possibile – è redento […]. La mia redenzione è la vostra redenzione. Se ciò fosse possibile, io mi sono riscattato insieme a voi, poiché è detto: Il popolo che ti sei riscattato dall’Egitto, la nazione e il suo Dio” (2 Sam, che era il cavallo di battaglia di Rabbi ‘Aqiva)” (Mekilta  de-Rabbi Shim’on bar Johaj p. 22).

[34] HESCHEL, La discesa della Shekinah, 63.

[35] Ivi.

[36] Gli amoraiti hanno sviluppato il pensiero di Me’ir, approfondendo il fondamento scritturistico, evidenziando che ogni volta che Dio nella Scrittura usa l’espressione ‘la mia salvezza’ (cf. Is 56,1 jeshu’ati o teshu’ati), essa non va intesa in senso passivo, ma attivo, poiché non si tratta semplicemente della salvezza con cui Dio salva Israele, ma si tratta della sua stessa salvezza. La salvezza di Israele – che prescinde dai suoi meriti – ricade su Dio stesso. Gli amoraiti, primo fra tutti Rabbi Abbahu, hanno insegnato che la salvezza d’Israele è la salvezza di Dio; viene salvato Lui stesso, non è il salvatore ma il salvato (cf. Sal 13,6; 20,6; 55,19; 80,3; 50,23; 106,4; Is 56,1;  62,11; Zc 9,9): “Che cosa vuol dire ha liberato la mia anima con la pace? ‘Disse il Santo – benedetto sia – : Colui che si dedica allo studio della Torah, è generoso con il prossimo e prega con la comunità, io lo considero come se mi avesse liberato, me stesso e i miei figli, di mezzo alle nazioni del mondo’”(Berakot 8a).

[37] Anche per Rabbi Jehudah, discepolo di ‘Aqiva, Dio si salva nella salvezza di Israele (cf. Sal 80,3), si salva con la casa di Giuda (cf. Zc 12,7). Altri maestri intesero la relazione tra Dio e il suo popolo di ordine morale fondato sul patto di alleanza. Sono due punti di vista che seguono un procedimento diverso. Secondo la scuola di ‘Aqiva si tratta  – come già rilevato – del pathos divino (cf. Ger 8,21.23; 40,1; Ct 7,6), perché Dio è come un uomo a cui viene a mancare la moglie e ha bisogno di essere consolato: “Dallo scempio che ha subìto la figlia del mio popolo io sono straziato: lutto mi ottenebra, sgomento mi assale” (Lamentazioni Zuta, p. 139). Si tratta di una relazione determinata dalla contingenza, che riguarda l’interiorità, a prescindere dai meriti degli israeliti: “Se voi avete bisogno di me perché venga il tempo della redenzione, anch’io ho bisogno di voi, che osserviate la mia Torah, affinché si avvicini la ricostruzione della mia casa e di Gerusalemme”( Pesiqta Rabbati 31,144b). Secondo tali maestri, come Rabbi Johanan, non c’è il Regno di Dio celeste senza quello sulla terra (cf. Is 6,3): “il Santo – benedetto sia – disse: Non entrerò nella Gerusalemme che è in alto finché non sarò entrato nella Gerusalemme che è in basso” (Ta’anit 5a). Secondo i Sapienti dell’altra scuola Dio non ha bisogno di essere umanizzato; la relazione tra Dio e gli israeliti è determinata dalla volontà e va verso l’esterno, è una relazione nell’ordine della permanenza, che scaturisce dai meriti del popolo.

[38] Heschel riporta il detto di Rabbi El’azar ha-Qappar, contemporaneo di Rabbi Jehudah-ha-Nasi: “La mia Torah è nelle vostre mani, ma il tempo della redenzione è nelle mie mani, così ciascuno di noi ha bisogno dell’altro. Se voi avete bisogno di me perché venga il tempo della redenzione, anch’io ho bisogno di voi, che osserviate la mia Torah, affinché si avvicini la ricostruzione della mia casa e di Gerusalemme”(Pesiqta Rabbati 31,144b). Israele ha la facoltà di togliere o aggiungere forza alla Potenza dell’Altissimo, idea presente fortemente nella Qabbalah[38], ma già rivelata a Mose, secondo Rav Jehoshua’ ben Levi (cf. Nm 14,17)[38]. Quando Israele compie la sua volontà aggiunge forza alla Potenza di Colui che sta in alto (cf. Dt 32,18; Sal 60,14; Lam 1,6), come sottolineato da Rav Jehudah bar Simon. Secondo Rabbi Johanan noi abbiamo bisogno di Dio, ma secondo Rabbi Resh Laqish Dio ha bisogno che noi gli rendiamo Gloria: “Il disaccordo fra le due concezioni – puntualizza Heschel – emerge dalle interpretazioni che vengono insegnate riguardo al  vantaggio di accettare la Torah. Secondo una fonte, il Santo – benedetto sia – disse ai suoi angeli: ‘Se Israele non accoglie la Torah, non avremo, né io né voi, un luogo dove risiedere’. Vale a dire, l’accoglimento della Torah è cosa che riguarda direttamente Dio”[38]. Secondo alcuni maestri la disobbedienza alla Torah comporta conseguenze negative per l’uomo e per il mondo, in quanto Dio riporterebbe il creato all’informe e al vuoto, mentre per altri Dio non avrebbe più il suo Regno. L’osservanza della Torah per alcuni è un atto di giustizia meritoria per l’uomo, mentre per altri è un atto di giustizia per Dio stesso. Secondo Rabbi Jisma’el Dio non bisogno del culto dell’uomo.

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