UN RABBINO SI INTERROGA SULLA VIOLENZA RELIGIOSA

Il rabbino britannico Jonathan Henry Sacks nel suo saggio ‘Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa’, uscito a Londra nel 2015 (Not in God’s Name: Confronting Religious Violence, Hodder & Stoughton) e in italiano nel 2017 (Editrice Giuntina)[1],  ha dato un prezioso contributo al dialogo di pace fra le religioni abramitiche, con la sua articolata riflessione sulla violenza religiosa. L’Autore sviluppa le sue considerazioni facendo riferimento a eventi tragici attuali e del passato, nel confronto con le fonti, nell’interpretazione dei testi biblici e del Talmud, citando anche autori cristiani e musulmani.

Rav Sacks, il cui nome ebraico è Yaakov Zvi, nato a Londra nel 1948, sposato con tre figli, è un rabbino considerato la massima autorità spirituale e morale ebraica ortodossa in Gran Bretagna, ‘Rabbino capo della Gran Bretagna e del Commonwealth delle nazioni’, dal 1991 fino alla conclusione del suo mandato nel 2013. E’ stato creato Sir dalla Regina Elisabetta II nel 2005 per servizi resi alla Comunità e alle relazioni interreligiose e nel 2009 nominato Lord Barone con un seggio a vita nella Camera dei Lord. Sacks insegna alla New York University e alla Yeshiva University quale professore emerito di filosofia ebraica. È stato inoltre nominato professore di Legge, Etica e Bibbia al King’s College London. Nel settembre 2001 l’Arcivescovo di Canterbury gli ha conferito il Dottorato di Teologia. Nel 2004, il suo libro The Dignity of Difference (La dignità della differenza) è stato premiato col Grawemeyer Award nella categoria di Religione. Rav Sacks è autore di numerosi saggi[2].

INTRODUZIONE – J. H. Sacks afferma decisamente che la violenza è contraria alla volontà di Dio: “Quando la religione trasforma gli uomini in assassini, Dio piange”[3]. Nel nome di Dio spesso le persone hanno ucciso, praticato la crudeltà: “Quando ciò accade, Dio parla, talvolta con una voce tenue, sottile quasi inaudibile dietro il clamore di coloro che sostengono di parlare a suo nome. Quello che dice in queste occasioni è: Non nel mio nome[4]. La condizione umana è caratterizzata dal conflitto tra la volontà di potenza (Caino – Kaniti, ‘ho acquisito’ , in ebraico significa potenza) e la volontà di vita (Abele, Hevel, in ebraico significa respiro). La vita è sacra e fragile; la terra è di Dio, noi siamo soltanto dei custodi per cui non dobbiamo possederla[5]. Dio non accetta sacrifici umani per soddisfare la volontà di potenza (cf. Dt 30,19). Gli esseri umani sono stati creati a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gn 1,27), ma a causa della malvagità il “Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuore” (Gn 6,6), affermazione questa devastante della letteratura religiosa[6].

ESTREMISMO RELIGIOSO – Rav Sacks chiarisce l’intento specifico del suo libro: “Il mio interesse in questo libro, più che per il legame generale tra religione e violenza, è per la specifica sfida dell’estremismo religioso politicizzato nel XXI secolo. Il riemergere della religione come forza globale ha colto l’Occidente indifeso e impreparato perché ancora in balìa di una narrazione che raccontava una storia assai diversa”[7]. Per il laicismo la religione è superflua, ma l’Homo sapiens è in cerca di significato che non possono offrirgli le grandi istituzioni del mondo moderno. Non possono rispondere a tre domande che ogni individuo riflessivo, prima o poi, si porrà a un certo momento della vita: “Chi sono? Perché sono qui? Come devo vivere? Queste sono domande per le quali la risposta è normativa, non descrittiva; sostanziale, non procedurale. La conseguenza è che il XX secolo ci ha lasciato con il massimo della scelta e il minimo di significato”[8]. La religione è tornata in auge perché non si può vivere senza significato, però, la religione di ritorno non è mistica, ma aggressiva, antagonistica, apocalittica nei confronti dei suoi nemici; ha ingaggiato la guerra al regno della decadenza per far trionfare quello divino. Non tutte le religioni antimoderne, però,  sono violente, “le religioni hanno avuto i loro periodi di violenza, come del resto tutti i surrogati della religione, ma hanno anche raggiunto periodi di tolleranza, di generosità di spirito e di pace”[9].  Espressione di uno stile mite e pacifico sono, ad esempio, gli haredim, ebrei mistici molto osservanti, come pure i mennoniti e degli amish evangelici, i musulmani sufi. La più grande minaccia per il mondo postmoderno è costituita dalla religione radicale, politicizzata, per cui dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 i nuovi atei affermano falsamente che “ogni religione porta alla violenza e che la maggior parte della violenza può essere fatta risalire alla religione”[10]. Il XXI secolo, quindi, sarà più religioso del XX, per il fallimento delle società occidentali individualiste e materialiste, che non riescono  ad affrontare il più sostanziale dei bisogni umani, quello della ricerca di un’identità: “Le grandi fedi procurano un’identità. Esse offrono significato, direzione, un codice di condotta e una serie di regole per la vita morale e spirituale in modi tali di cui il libero mercato e l’Occidente democratico non sono capaci. I monoteismi abramitici in particolare offrono ai comuni individui – e noi siamo per la maggior parte comuni individui – un senso di orgoglio e di importanza”[11]. Il nostro Autore sottolinea in merito: “Io credo in perfetta buona fede che l’ebraismo sia una religione di pace. Ma non tutti interpretano la religione allo stesso modo. Nessuna delle grandi religioni può affermare con inflessibile coscienza che ‘le nostre mani non hanno mai versato sangue innocente’”[12].

I crimini della religione, come  l’estremismo religioso politicizzato del XXI secolo, perseguono l’intento di fare Dio a nostra immagine, invece di lasciare che sia lui a farci a sua immagine: “Le vittime del terrore non sono soltanto i morti e i feriti, ma gli stessi valori – sottolinea l’Autore – sui quali è costruita una società libera: fiducia, sicurezza, libertà civile, tolleranza, la disponibilità dei paesi ad aprire le loro porte a chi cerca asilo, la piacevole sicurezza dei luoghi pubblici”[13]. Il terrorismo non può essere giustificato perché non ha uno scopo ammissibile, non ha termine, mentre è diversa la situazione di coloro che percorrono i sentieri della giustizia: “I deboli hanno armi diverse. Sanno che la giustizia è dalla loro parte. […] Il prendere intenzionalmente come bersaglio gli innocenti è un mezzo malvagio per un fine malvagio, è raggiungere una soluzione che fa violenza all’umanità e all’integrità di coloro a cui ci opponiamo”[14]. Diversamente dai criminali nazisti che si dettero da fare per nascondere i loro crimini al mondo, gli islamisti radicali sono molto abili nel pubblicizzare le loro crudeli imprese servendosi anche dei social media, attuando in questo modo quella che l’Autore definisce la malvagità altruistica, che trasforma delle persone normali in crudeli carnefici. La malvagità altruistica consiste nel “male perpretato in nome di una causa sacra, nel nome di nobili ideali”[15]. Durante il processo di Norimberga dopo la seconda guerra mondiale si è parlato, infatti, di crimini contro l’umanità, di azioni efferate che non possono essere giustificate dall’obbedienza agli ordini: “Uccidere i deboli, gli innocenti, i bambini e i vecchi è male. Assassinare le persone a motivo della loro religione, o della loro etnia, o della loro nazionalità è male. […] Ci sono atti così estranei al nostro concetto di umanità che non possono essere giustificati dal fatto che erano mezzi per raggiungere un fine grande, nobile o santo. Non c’è niente di specificamente religioso nella malvagità altruistica”[16]. La religione non ha nulla a che vedere con la violenza poiché porta all’amore, al perdono, ma  può anche essere strumentalizzata ta da leader manipolatori[17].

L’estremismo religioso si fonda anche su un distorto rapporto tra religione e politica. La Bibbia ebraica è una continua critica della politica; per l’ebraismo lo Stato è a servizio dell’individuo non l’individuo a servizio dello Stato. Religione e politica vanno separate perché la religione ricerca la verità, mentre la politica mira al potere; la religione persegue l’unità, mentre la politica della democrazia liberale si occupa della mediazione del conflitto e del rispetto per la diversità: “La religione rifiuta il compromesso, la politica è l’arte del compromesso. La religione aspira all’ideale, la politica vive nel reale, al di sotto di ciò che è ideale”[18]. La storia dimostra, però, che le religioni hanno subito la tentazione del potere politico: “In epoca biblica Israele divenne un regno, che si divise presto in due. Il cristianesimo e l’islam divennero entrambi potenze imperiali. Alla fine, tuttavia, arriva un punto di crisi, quando la religione affronta un enorme cambiamento, e all’interno della fede stessa si sviluppa un dibattito”[19]. La forma più disastrosa di sintesi tra religione e politica è quella apocalittica, voce della disperazione, che vede nella storia il trionfo del male; il regno di Dio viene ristabilito con la distruzione del mondo (cf. ad esempio 1 Enoch, 2 Esdra), la cui espressione è stata la setta di Qumran, i millenaristi cristiani del medioevo, l’ISIS dell’islam oggi e in forma secolare i messianismi politici o le democrazie totalitarie, le rivoluzioni, senza il lento processo di formazione e trasformazione[20]. La religione è deleteria quando cerca di imporre la verità con la forza, invece di ricorrere alla discussione e al dissenso: “La religione, come la interpretava Abramo e tutti i suoi seguaci dà il meglio di è quando resiste alla tentazione della politica e opta invece per l’autorità”[21].

L’estremismo religioso si fonda sul fondamentalismo che è molto pericoloso, in quanto annulla l’autorevolezza della tradizione: “Fa riferimento a molte cose in contesti diversi, ma una di queste è la tendenza a leggere i testi in modo letterale e ad applicarli in modo diretto: passare direttamente dalla rivelazione all’applicazione senza interpretazione”[22]. Il fondamentalismo può essere superato attraverso l’interpretazione dei testi, non arbitraria, ma con la giuda dell’autorità della comunità, in base alla legge dell’amore, perché la parola è stata offerta nell’amore e va interpretata nell’amore. Ogni religione sviluppa regole d’interpretazione e strutture di autorità, altrimenti, come nel caso del fondamentalismo, si estrapolano i testi dal loro contesto, vengono letti in modo letterale ignorando tutto il resto, vengono travisati: “Le letterature sacre dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam contengono tutte dei passi che, interpretati in modo letterale, sono in grado di condurre alla violenza e all’odio. Possiamo – sottolinea Rav Sacks – e dobbiamo reinterpretarli. La grande opera della mistica ebraica, lo Zohar, dice che coloro che amano la parola divina vanno oltre le sue vesti esteriori per arrivare alla sua anima”[23].

MONOTEISMO E VIOLENZA – Il monoteismo abramitico è un rifiuto dell’imperialismo, dell’uso della forza che rende alcuni uomini padroni e altri schiavi. L’identità religiosa abramitica non può prescindere dal fatto che Abramo non ebbe alcun impero, nessun esercito, non conquistò alcun territorio: “Non è nostro compito conquistare o convertire il mondo o imporre l’uniformità del credo. E’ nostro compito essere una benedizione per il mondo. L’uso della religione a fini politici non è rettitudine ma idolatria”[24]. Si è veramente liberi quando ci si libera dall’odio. Il monoteismo abramitico è il primo sistema morale  basato non soltanto sulla giustizia e sulla reciprocità (fare agli altri quanto si desidera venga fatto a noi), ma soprattutto sull’amore (cf. Dt 6,5; Lv 19,19), che include anche il nemico: “Non odiare l’egiziano, perché fosti uno straniero nella sua terra” (Dt 23,7), “Amerete lo straniero perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto” (Dt 10,19). Rav Sacks sottolinea in merito: “Perché per essere liberi, dobbiamo liberarci dall’odio, questo è ciò che stava dicendo Mosè. Se i figli d’Israele avessero continuato a odiare i loro nemici di un tempo Mosè sarebbe riuscito a portarli fuori dall’Egitto, ma non sarebbe riuscito a portare fuori da loro l’Egitto. Con la mente sarebbero rimasti ancora là, schiavi del passato, prigionieri dei loro ricordi. Sarebbero rimasti in catene, non quelle di metallo ma quelle della mente. E le catene mentali sono, talvolta, le peggiori di tutte”[25]. I sopravvissuti alla Shoah – ad esempio – non cercavano vendetta, non nutrivano rancore: “Parlavano di ciò che era accaduto, e di come erano sopravvissuti. Ma il loro messaggio fondamentale non riguardava affatto il passato. Volevano che i giovani sapessero quanto sia preziosa la libertà, e quanto sia fragile, quale miracolo sia avere del cibo da mangiare, una finestra che puoi aprire, dei cancelli da cui puoi uscire, un futuro a cui guardare. Parlavano di tolleranza e di quanto importante fosse prendersi cura di coloro che sono diversi da te. Non prendete mai per scontata la libertà – questo era il loro messaggio”[26]. Per liberarsi dall’odio non bisogna mai dimenticare che anche il nemico è un essere umano che ha bisogno di solidarietà. Se qualcuno è nei guai – sottolinea J. Sacks –  bisogna agire, senza chiedersi se si tratta di un nemico o di un amico: “Il Talmud [cf. Talmud babilonese, Baba Metzia 32b] stabilisce che in caso di conflitto, laddove tuo fratello e il tuo nemico abbiano entrambi bisogno del tuo aiuto, ‘dovresti aiutare prima il tuo nemico, allo scopo di dominare l’istinto cattivo’”[27]. Con la vendetta non si cambia il passato, poiché viene perpetuato, senza porvi rimedio; la legge ebraica, infatti,  proibisce di serbare il rancore e di vendicarsi, chiede la pratica del pentimento: “L’espiazione è l’espressione finale della libertà perché unisce le due azioni mentali – il pentimento e il perdono – che hanno il potere di spezzare la morsa d’acciaio del passato. Il pentimento testimonia la nostra capacità di cambiamento. Il perdono esprime il nostro rifiuto di restare prigionieri del rancore. L’espiazione è dove la libertà divina e umana s’incontrano e danno origine a un nuovo inizio. E’ l’atto che sconfigge la tragedia nel nome della speranza”[28]. L’odio si esprime con la cultura del dualismo, che è autolesionista, porta alla cultura vittimistica: “Definirsi come vittima è, in definitiva, una diminuzione di tutto ciò che ci rende umani. C’insegna a vederci come oggetti, non come soggetti. Diventiamo persone che subiscono, non persone che agiscono; passivi, non attivi. Il biasimo sbarra la strada verso la responsabilità”[29]. Tutto ciò porta alla malvagità altruistica, in quanto tutto il male viene attribuito ai nemici contro i quali si concentra la violenza. Secondo Rav Sacks la violenza emerge proprio tra i monoteismi abramitici per il fatto che offrono ai comuni individui – cioè a tutti – un senso di orgoglio e di importanza. Il problema, però, va affrontato in tutta la sua gravità, senza accomodamenti: “Come ebrei, cristiani e musulmani, dobbiamo essere pronti a porre le domande più scomode. Il Dio di Abramo vuole che i suoi seguaci uccidano per amor suo? Esige sacrifici umani? Si compiace della guerra santa? Vuole che odiamo i nostri nemici e terrorizziamo i miscredenti? Abbiamo letto i nostri testi sacri correttamente? Cosa ci sta dicendo Dio, qui e ora? Noi non siamo profeti ma siamo i loro eredi e non siamo privi di una guida riguardo a questi temi decisivi”[30]. La religione deve rinunciare al potere, alla coercizione, deve essere autorevole, interessandosi dei poveri e dei più vulnerabili. Il mondo attualmente sta cambiando più velocemente che in passato, e tutto ciò disorienta, genera senso di perdita, paura che si trasforma in odio, che si diffonde globalmente attraverso i social media.

La violenza dei monoteismi abramitici dipende dal fatto che storicamente i rapporti tra ebraismo, cristianesimo e islam sono stati avvelenati da tre fattori: la forma mentis, il mito e la rivalità fraterna. Ci sono dei miti che alimentano tale forma mentis, spostandosi da una religione all’altra e insinuandosi anche nelle culture laiche. Il legame unico che esiste tra le religioni abramitiche ha finito con il creare la tensione fra di loro:  “La fede è l’invito di Dio a vedere la sua impronta sul volto dell’Altro. Ma questo necessita di una teologia dell’Altro, che è ciò – sottolinea l’Autore – che propongo in questo libro”[31]. La fede deve rafforzare, non danneggiare  la nostra comune umanità. Spesso le forti emozioni come l’ansia, la paura, la confusione, l’umiliazione, ci portano a disumanizzare i nostri avversari con risultati devastanti: “In definitiva, la responsabilità è nostra. Il mondo di domani nasce da ciò che insegniamo ai nostri figli oggi”[32]. La realtà umana è caratterizzata dalla dialettica tra l’altruismo e la sopravvivenza, il bene comune e il tornaconto personale; nell’animo si è santi e peccatori, angeli e demoni, persone rette e machiavelliche. La condizione umana, in effetti, è fortemente ambigua[33]. C’è la propensione a non considerare esseri umani coloro che non fanno parte del nostro gruppo, per cui la nostra moralità è limitata. L’amore, la compassione, la misericordia, spesso è rivolta ai nostri correligionari, mentre si è spietati nei confronti di coloro che sono ritenuti eretici dal gruppo oppure sono agnostici o miscredenti: “Siamo potenzialmente violenti perché, in quanto animali sociali, formiamo gruppi per competere per le risorse e sopravvivere contro altri gruppi”[34]. Esiste, però, anche la violenza all’interno dello stesso gruppo, poiché si formano partiti, fazioni, scismi e sette. La violenza che porta alla guerra è quella nei confronti del gruppo rivale, che crea coesione all’interno del gruppo di appartenenza. L’uomo, però, ha la possibilità di scegliere di essere non violento nei confronti degli altri gruppi, ma ciò avviene raramente. La socializzazione è difficile perché gli uomini non sono cloni, sono diversi gli uni dagli altri. La socializzazione viene acquisita tramite l’educazione, per cui agli stimoli istintuali subentrano sapienti abitudini comportamentali. Le abitudini, le regole, i codici di condotta per conservare il gruppo vengono interiorizzate; l’homo sapiens, infatti, divenne in tal modo l’homo religiosus. La violenza – rileva l’Autore –  non ha nulla a che vedere con la religione in sé, bensì con l’identità e la vita dei gruppi. La religione sostiene i gruppi e reprime la violenza al suo interno, insorge di fronte alla minaccia di violenza dall’esterno: “Molti conflitti non hanno niente a che fare con la religione, ma hanno a che fare con il potere, il territorio e la gloria, cose secolari, perfino profane. Ma se anche la religione può essere arruolata lo sarà”[35]. L’Occidente contemporaneo è caratterizzato da un forte individualismo, materialismo e narcisismo, con l’esaltazione del Sé; vive un forte degrado avendo scardinato le basi della società, quali il matrimonio, la famiglia, il codice morale condiviso, la gratificazione dell’istinto, la solidarietà, la speranza. La reazione a tutto ciò è la ricerca della morte, come avviene con i terroristi che, dinanzi al degrado dell’Occidente e degli stati islamici laici scelgono la violenza, sacrificando se stessi: “Bene e male, altruismo e aggressione, pace e violenza, amore e odio, nascono assieme –afferma J. Sacks – come conseguenze gemelle del nostro bisogno di definirci come un Noi in opposizione a un Loro. Ma dobbiamo andare oltre. E’ necessario qualcosa di più della semplice identità perché delle rare persone commettono imprese veramente malvagie”[36].

L’ebraismo e il cristianesimo sono monoteismi, ma al loro interno si è insinuato il dualismo. Il conflitto e la guerra nascono dalla formazione di gruppi con una normale dialettica, mentre la malvagità altruistica è anormale: “Gli attentati suicidi, il prendere di mira i civili e l’assassinio di studenti non sono normali. La violenza può essere possibile ovunque ci sia un Noi e un Loro. Ma la violenza radicale emerge soltanto – sottolinea Rav Sacks – vediamo il Noi come tutto-il-bene e Loro come tutto-il-male, il preannuncio di una guerra tra i figli della luce e le forze della tenebra. E’ questo il momento in cui nasce la malvagità altruistica”[37]. Il dualismo si è insinuato anche nell’ebraismo e nel cristianesimo, di cui una manifestazione è l’apocalittica. Il dualismo  ha pure un fondamento psicologico per il meccanismo della scissione e della proiezione, sia nei bambini che nei gruppi; in tal modo si  arriva al dualismo patologico,  secondo cui  la “difesa del rispetto di sé può condurci a proiettare il male sull’altro gruppo”[38]. C’è, però, anche un dualismo che non è pericoloso, come quello che distingue tra bene e male, tra mondo fisico e mondo spirituale. Dal punto di vista teologico emerge con la questione di Dio che è amore e giustizia nello stesso tempo. La giustizia viene affermata nella Bibbia come conseguenza delle azioni sbagliate degli uomini, per cui gli israeliti, facendo autocritica, hanno visto le sciagure come una punizione divina[39]. La questione è complessa per cui si tende sempre a cadere nel dualismo, mentre secondo il monoteismo occorre “pensare a Dio sia come a un padre che come un giudice. Un giudice punisce, un genitore perdona. Un giudice applica la legge, un genitore incarna l’amore. Dio è entrambi, ma è difficile pensare a entrambi contemporaneamente”[40].

Il dualismo patologico diventa particolarmente pericoloso quando investe una collettività e porta a demonizzare il nemico ritenendosi la sua vittima; rende disumani e irrazionali, anche le persone colte, come è successo con il nazismo, medici, accademici, intellettuali, quasi tutta l’intellighenzia tedesca[41]. Il primo stadio che porta al genocidio è la disumanizzazione: “Il paradosso nella frase ‘crimini contro l’umanità’ sta nel fatto che i grandi crimini sono commessi contro coloro che non ritieni condividere la tua umanità”[42]. Il secondo stadio è la vittimizzazione, per sottrarsi alla responsabilità del male che si commette, facendolo passare per autodifesa. La vittimizzazione rende disumani: “Ci vediamo – sottolinea Rav Sacks – come oggetti, non come soggetti. Diventiamo passivi, non attivi. Il biasimo impedisce l’accesso alla responsabilità. La vittima, attribuendo la sua condizione ad altri, colloca la causa della sua situazione fuori di sé, rendendosi così incapace di liberarsi dalla trappola che si è creato”[43]. Il terzo stadio è quello della combinazione della disumanizzazione, della demonizzazione con il vittimismo, che rende possibili le più grandi atrocità, in nome della morale e degli ideali. Hitler, infatti, diceva che operava lo sterminio degli ebrei in nome del Signore (‘Gott mit uns’). Il conflitto tra le religioni monoteistiche, rileva Sacks, si spiega anche con il fattore del desiderio mimetico, del desiderio di ciò che ha l’altro, e che porta alla violenza, al conflitto tra fratelli, per appropriarsi dell’oggetto ambito, di cui l’esempio emblematico è quello di Caino nei confronti del fratello Abele[44]. La rivalità emerge da episodi narrati sia nelle Scritture ebraiche che in quelle cristiane. La shoah, a partire da Jules Isaac, ha portato a riscoprire i rapporti fraterni di pace che ci sono stati tra ebrei e cristiani nel corso della storia; vari cristiani, anche qualche musulmano, hanno aiutato, infatti, gli ebrei durante la shoah: “E’ ora evidente – sottolinea J. Sacks – perché ebraismo, cristianesimo e islam sono stati stretti in un abbraccio violento, talvolta fatale, così a lungo. La loro relazione è quella di una rivalità tra fratelli, carica di desiderio mimetico: il desiderio per la stessa cosa: la promessa di Abramo”[45]. Il cristianesimo, identificatosi con il figlio minore Esaù, ha inteso soppiantare l’ebraismo mentre l’slam lo ha fatto con entrambe le religioni. Il conflitto è sempre latente nelle relazioni tra ebraismo, cristianesimo, islam; è  un conflitto tra fratelli, per la supremazia nel rapporto con Dio.

LA CONTRONARRAZIONE BIBLICA – Rav Sacks evidenzia con acutezza che Ismaele non è rifiutato da Dio ed è sempre amato da Abramo (cf. Gn 17,18; 21,11-12). Dio, inoltre, ascolta la sofferenza di Agar, “i maltrattamenti di Sara nei confronti di Agar furono un motivo per cui i figli di Sara un giorno sarebbero stati perseguitati dai discendenti di Agar, ovvero dalla gente dell’islam”[46]. Secondo la narrazione biblica Isacco è stato scelto al posto di Ismaele, il primogenito di Abramo, ma il testo biblico manifesta solidarietà nei suoi confronti e della madre Agar. Alla morte di Abramo (cf. Gn 25,8-9) ci sono anche Agar e Ismaele; dopo la morte di Sara Abramo si è risposato con Kethurà (cf. Gn 25,1-4) da cui ha avuto sei figli. Secondo i rabbini Kethurah è la stessa Agar, le cui azioni erano fragranti come l’incenso (Ketoret)[47]. Il rabbino inglese riporta un racconto della tradizione ebraica secondo cui Abramo va a trovare in incognita Ismaele. In casa c’è sua moglie Aisha che non si mostra accogliente nei suoi confronti. Ismaele divorzia da lei perché dal racconto della moglie comprende che il viandante è il padre Abramo. Egli sposa successivamente Fatima. Si ripete l’episodio della visita di Abramo che viene accolto con ospitalità da Fatima e Abramo benedice entrambi; dal racconto fattogli dalla moglie, Ismaele si rende conto che suo padre lo amava ancora[48]. Citando questo Midrash l’Autore intende far risaltare che nella tradizione ebraica c’è solidarietà nei confronti dell’islam (i nomi delle due mogli di Ismaele) sin dal I secolo dell’e.v. Secondo la tradizione ebraica Isacco è benedetto da Dio non da Abramo, mentre Ismaele è benedetto da Abramo: “Meno importante per la storia di Ismaele, ma centrale per il tema di questo libro, è la prova sulla cui base Abramo giudica il valore delle mogli di Ismaele, e cioè: erano gentili verso i forestieri? – il criterio con cui, nella Bibbia, il servo di Abramo sceglie una moglie per Isacco. Al centro del sistema di valori della Bibbia c’è la nozione che le culture, come gli individui, sono giudicate in base alla loro disponibilità ad allargare l’attenzione, la cura, al di là del confine della famiglia, della tribù, dell’etnia e della nazione”[49]. La narrazione e la contronarrazione biblica sono fortemente rivoluzionarie: “La narrazione di superficie è essa stessa rivoluzionaria. Asserisce che la gerarchia del mondo antico – dove il più anziano è destinato a governare e il più giovane a servire – stava per essere rovesciata. La contronarrazione è ancora più radicale, perché allude alla più profonda delle verità del monoteismo: che Dio può scegliere, ma che Dio non respinge. La logica della scarsità – di maschi alfa e di figli eletti – non trova spazio in un mondo fatto da Dio la cui ‘misericordia si estende a tutte le sue creature’ (Salmi 145,9). Forse ci voleva il XXI secolo con i suoi conflitti etnici e religiosi per sensibilizzare il nostro orecchio alle declinazioni e alle allusioni dei testi”[50].

Narrazione e contronarrazione si intrecciano nell’episodio di Esaù – il cui destino era quello di essere soppiantato dal fratello minore sin dalla nascita (cf. Gn 25,23) – e Giacobbe, episodio drammatico di un inganno (cf. Gn 27,18-24). Esaù desidera ricevere la benedizione dal padre ed alla fine l’ottiene (cf. Gn 27,39-40). Il significato di questo episodio enigmatico, paradossale – l’eletto non agisce rispettando il patto con Dio –  viene svelato alla fine, con l’episodio della lotta di Giacobbe con Dio. Egli riesce a prevalere e ottiene la benedizione (cf. Gn 32,28-30): “Gli indizi sembrano puntare contemporaneamente in tutte le direzioni, tuttavia non c’è dubbio che l’episodio detenga la chiave dell’identità del popolo conosciuto per l’eternità come ‘i figli d’Israele’”[51]. Quando alla fine i fratelli si incontrano, Giacobbe si prostra dinanzi a Esaù e lo chiama ‘suo Signore’ ribaltando la situazione, autoumiliandosi, mettendo da parte la sua supremazia[52]. Rav Sacks fa notare che la narrazione ruota attorno alla categoria di volto, panim, che ricorre quattro volte nel testo ebraico. Per Giacobbe vedere il volto di Esaù è vedere il volto di Dio (cf. Gn 33,10-11). Quando Giacobbe aveva carpito la benedizione il padre Isacco era cieco, non aveva potuto vedere il suo volto: “C’è un dramma qui e ha a che fare con i volti: il volto di Esaù, di Giacobbe e di Dio stesso”[53]. Il rabbino britannico fa notare anche la diversità tra la prima benedizione ricevuta da Giacobbe e la seconda. La prima verte sulla ricchezza e sul potere, mentre la seconda sulla terra e sui figli, in continuità con la promessa che Dio aveva fatto ad Abramo. La prima benedizione, carpita con l’inganno, era quella destinata ad Esaù, uomo forte, cacciatore, mentre quella riservata a Giacobbe è più spirituale: “Isacco amava Esaù per quello che era, non per quello che non era. Voleva dargli delle benedizioni giuste per lui: ricchezza e potere. Questi sono beni materiali, non spirituali. Isacco sapeva che i suoi figli erano diversi. Le loro strade si sarebbero allontanate. Erano necessarie benedizioni diverse”[54]. Giacobbe aveva sempre voluto essere Esaù, il primogenito. La lotta con l’angelo, sottolinea opportunamente Sacks, è la lotta con se stesso per scoprire la sua vera identità. Quando comprende ciò egli sente il bisogno di restituire ad Esaù la benedizione che gli aveva carpito, comprende che non ha bisogno della ricchezza e del potere (cf. Gn 33,18): “La verità a cui Giacobbe è finalmente arrivato, della quale il nome Israele è testimonianza, è che per essere completi, interi non abbiamo bisogno delle benedizioni di nessun altro, soltanto della nostra. Il nostro vero volto è quello che vediamo riflesso da Dio. Questo è il significato della benedizione sacerdotale: ‘Possa l’Eterno volgere il volto verso di te e concederti la pace’ (Nm 6,26). La pace arriva quando vediamo il nostro riflesso nel volto di Dio e abbandoniamo il nostro desiderio di essere qualcun altro”[55]. Giacobbe non ha più bisogno di ‘afferrare il calcagno di Esaù’ (Gn 25,26); egli deve essere libero per afferrare solo Dio, essere stretto a Dio. La rivalità fraterna viene sconfitta – sottolinea l’Autore – nel momento in cui scopriamo che siamo amati da Dio per ciò che noi siamo, non per ciò che è qualcun altro. Ognuno ha la sua personale benedizione. I fratelli non hanno bisogno di essere in conflitto. La rivalità fraterna non è un destino ma un tragico errore[56]. La storia di Esaù e Giacobbe rivela che Israele non è chiamato a cercare il potere e la ricchezza materiale, ma il potere e la ricchezza della mente e del cuore. Anche questa storia manifesta che Dio sceglie Giacobbe, ma non rifiuta Esaù, non lo respinge. Ciascuno è prezioso agli occhi di Dio per quello che è; per la Bibbia – a differenza del mito – non ha senso la rivalità fraterna[57].

Il libro della Genesi si conclude con l’epilogo del pathos della rivalità fraterna, superata dal perdono di Giuseppe – prediletto dal padre Giacobbe – nei confronti dei fratelli che avevano provato invidia, odio nei suoi confronti, fino a complottare per ucciderlo (cf. Gn 37,18-20) poiché lo ritenevano una minaccia per loro. Con questo perdono finisce la storia della famiglia del patto di Abramo e comincia quella del popolo dell’Esodo, perché “solo quando le famiglie possono vivere in pace può nascere un popolo”[58]. I fratelli di Giuseppe lo vendono come schiavo, finisce in prigione per non tradire il suo padrone e comincia poi il ribaltamento della sua situazione, con l’interpretazione dei sogni, anche dello stesso faraone. Giuseppe diventa viceré d’Egitto: “Fine della storia. I sogni si sono realizzati. Giuseppe è salito in alto. Come aveva previsto, la sua famiglia si è inchinata davanti a lui. Non semplicemente in termini di beni materiali, il più giovane ha avuto successo: i fratelli maggiori no”[59]. Sacks fa notare, però, che il messaggio della storia non è questo; Giuseppe, che ha già perdonato i suoi fratelli, ricorre alla strategia di trattarli duramente per sottoporli alla prova, che è trasformativa, perché opera un rovesciamento dei ruoli. Il messaggio del racconto è quello della teshuvah, del pentimento, della metanoia per il cristianesimo, tawba per l’islam, il cambiamento morale e la crescita secondo l’ottica secolare[60], tematica questa presente nei profeti, nel libro di Giona e sviluppata poi sistematicamente dai rabbini dopo la distruzione del secondo Tempio. Dentro di noi c’è l’impulso al peccato, come afferma anche Paolo, ma esso può essere dominato (cf. Gn 4,7). Quello che fa Giuseppe è di portare progressivamente i fratelli al pentimento, che è perfetto quando non si ripete l’azione malvagia compiuta, pur trovandosi nella stessa direzione, come evidenziato da Maimonide[61]. I fratelli di Giuseppe hanno la possibilità di lasciare un loro fratello in prigione, fratello di cui erano invidiosi (Beniamino) ma fanno di tutto per salvarlo; Giuda si offre come prigioniero al suo posto (cf. Gn 44,33): “Appena Giuda ha mostrato che, posto nella stessa situazione, è cambiato – ora è disposto a sacrificare la sua libertà piuttosto che il fratello sia posto in schiavitù – la prova è terminata e Giuseppe può rivelare la sua identità. Giuda ha adempiuto esattamente i requisiti del pentimento perfetto. Ecco perché Giuseppe può dire loro che il peccato è perdonato”[62]. Questa storia, fa notare Sacks, chiama in causa il tema della libertà, della scelta tra il bene e il male, la possibilità di cambiare la storia personale e quella collettiva: “Allora, nel vero senso della parola, la libertà va oltre la nostra capacità di scegliere tra alternative future. Essa include la libertà di rimodellare la nostra comprensione del passato, sanando parte del suo retaggio doloroso”[63]. La storia della Genesi, segnata dal fallimento umano, si conclude con la riconciliazione, il riconoscimento dell’alterità, la possibilità di immedesimarci con il dolore altrui, con la situazione della vittima, per cui, sottolinea l’Autore, “se solo ascoltassimo attentamente la voce dell’altro, scopriremmo che sotto la pelle siamo fratelli e sorelle, membri della famiglia umana sotto la paternità di Dio. Quando gli altri diventano fratelli e il conflitto è trasformato in conciliazione, abbiamo iniziato il viaggio verso la società-come-una famiglia, e il dramma della redenzione può avere inizio”[64]. La storia della Genesi si conclude con la riconciliazione dei fratelli, con il superamento del rifiuto, della rivalità, ma  con l’Esodo non ci saranno più prediletti, poiché tutto il popolo d’Israele sarà l’eletto (cf. Es 4,44). Tra  Mosè Miriam e Aronne, infatti, non c’è rivalità ma premura reciproca; “[…] soltanto quando un popolo ha superato le sue rivalità interne è pronto per il viaggio dalla schiavitù alla libertà[65].  Il monoteismo ebraico si fonda sull’amore: per Dio (cf. Dt 6,5), per il prossimo (cf. Lv 19,18), per lo straniero (cf. Lv 19,33-34). L’amore soltanto, però, non è sufficiente a costruire una famiglia umana, una società, perché porta alla predilezione per qualcuno, trascurando gli altri. C’è bisogno di mettere assieme l’amore e la giustizia: “L’amore è parziale, la giustizia è imparziale. L’amore è particolare, la giustizia è universale. L’amore è rivolto a questa persona, non a quella, ma la giustizia è per tutti. Gran parte della vita morale è generata da questa tensione tra amore e giustizia. L’amore senza la giustizia è iniquo, perché così almeno sembrerà ai meno amati”[66].

Le storie bibliche della Genesi ci portano a immedesimarci con il dolore dell’altro, del respinto, del rifiutato. Ogni  collettività crea i suoi nemici, demonizza  coloro che non fanno parte del suo gruppo e ciò porta alla violenza, anche a quella religiosa. “Per guarire dalla violenza potenziale verso l’Altro devo essere capace di immaginarmi come l’Altro”[67], mettendo in atto il rovesciamento dei ruoli, sottolinea il rabbino britannico.  Il precetto dell’amore per il prossimo va esteso anche allo straniero, gher, partendo dalla memoria (zakhor) della sua condizione (cf. Es 22,21; 23,9); bisogna immedesimarsi con la sua condizione (rovesciamento dei ruoli), che è stata sperimentata anche dal popolo d’Israele. La vocazione del popolo è quella di essere straniero in modo permanente (cf. Lv 25,23), anche quando possederà la terra promessa: “Perfino nei momenti di gloria, gli israeliti – rileva J. Sacks – sanno che sono stranieri in una terra non loro. In questo straordinario arco intertestuale, da Abramo a David attraverso Mosè, dagli inizi della preistoria di Israele al suo culmine come potenza sovrana, udiamo lo stesso immutabile messaggio: il popolo del patto sarà forestiero nella sua patria, affinché sia in grado di far sentire gli stranieri a loro agio. Soltanto in questo modo possono sconfiggere il più potente di tutti gli impulsi al male: la sensazione di essere minacciati dall’Altro, quello che non è simile a me”[68].

I racconti biblici del diluvio e della torre di Babele sono espressione dell’identità senza universalità e dell’universalità senza identità[69]. Prima del diluvio l’umanità viveva allo stato tribale, senza leggi, in uno stato permanente di guerra per accaparrarsi le scarse risorse; infatti “la terra era corrotta davanti a Dio, la terra era piena di violenza” (Gn 6,11). La storia di Babele ha un significato opposto; non rappresenta l’eziologia della varietà delle lingue, poiché in Gn 10 si parla già delle settanta nazioni in cui era divisa l’umanità, ciascuna con la propria lingua. Il rabbino londinese, invece, pone in risalto che rappresenta la critica all’imperialismo che imponeva un’unica lingua a tutte le popolazioni sconfitte e sottomesse, come fecero i neo-assiri[70].  C’è quindi un parallelismo tra i due episodi: “Se il Diluvio riguarda la libertà senza ordine, Babele e l’Egitto riguardano l’ordine senza la libertà […]. Il Diluvio è ciò che accade quando ci siamo Noi e Loro e nessuna legge generale a mantenere la pace. Il risultato è l’anarchia e la violenza. Babele è ciò che accade quando le persone cercano d’imporre un ordine universale, obbligando Loro a diventare Noi. Il risultato è l’imperialismo e la perdita della libertà”[71]. Le diversità di cultura e tradizioni danno colore e consistenza alla vita e si coniugano con l’unità di Dio; l’identità si articola con il plurale dell’umanità. Nella Bibbia ebraica Dio ha il nome universale Elokim (cf. Gn 20,11; 41,38), e il nome particolare Hashem. Il comportamento di Dio è universale e particolare; infatti, nella Bibbia ci sono due patti con Dio: il primo, quello di Noè, è con tutta l’umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli, una moralità che riguarda tutta l’umanità (le leggi noachidi cf. Gn 9) e un’etica, cioè un codice specifico che regola le relazioni all’interno di un gruppo (le Devarim). La morale è basata sulla giustizia e l’etica sull’amore, così la Bibbia realizza la sintesi fra i due elementi che possono sembrare contrastanti. La causa del dramma della storia attuale emerge già nei racconti della Torah; la narrazione degli episodi del diluvio e della torre di Babele sono, infatti,  l’espressione del dilemma umano fondamentale, che è quello dell’essere diversi. Ciò ha portato alla violenza, che ha quasi distrutto l’umanità. Quando si vogliono omologare gli uomini con una singola cultura, secolare o religiosa, si afferma la tirannia e l’oppressione: “La Bibbia ebraica costituisce un tentativo, unico, di risolvere il dilemma mostrando come l’unità di Dio può coesistere con la diversità dell’umanità”[72]. L’umanità vive sospesa tra la comunanza e la diversità: “Se fossimo completamente diversi, non saremmo in grado di comunicare. Se fossimo assolutamente uguali, non avremmo niente da dire. Il patto di Noè si rivolge alla nostra comunanza, il patto di Abramo e quello del Sinai alle nostre differenze”[73]. La violenza religiosa può essere superata nella misura in cui si riesce a coniugare l’unità con la diversità, che è importante, perché è una ricchezza, è ciò che dà colore e consistenza alla vita: “La nostra umanità comune precede le nostre differenze religiose. Qualsiasi religione che disumanizzi gli altri per il semplice fatto che la loro fede è diversa non ha capito il Dio di Abramo”[74]. L’amore di Dio di cui parlano i profeti è l’amore per coloro che sono diversi, per la loro diversità, non per la loro affinità. La questione è teologica e antropologica nello stesso tempo, perché Dio è universale, ma la nostra relazione con lui è particolare: “Essere un figlio di Abramo vuol dire essere aperto alla presenza divina ovunque essa si riveli”[75].

ANTISEMITISMO – Oggi la violenza si concentra sull’antisemitismo poiché l’ebreo viene scelto come il caprio espiatorio, anche se tutte le sofferenze del mondo hanno la stessa importanza. L’antisemitismo per avere successo deve sempre camuffare le sue motivazioni: “Nell’Occidente l’antisemitismo, oggi, è di solito mascherato da antisionismo”[76]. In Occidente il terrorismo colpisce gli ebrei, non gli israeliani: “La ragione è semplice. Un capro espiatorio deve essere qualcuno che si può uccidere senza rischi di rappresaglia. Israele può reagire. Gli ebrei fuori d’Israele non possono. In effetti c’è un motivo pressante per l’esistenza d’Israele. E’ la sola cosa che protegge gli ebrei dall’essere capri espiatori-vittime del mondo per un altro migliaio di anni”[77]. L’antisionismo, però,  non va però confuso con la critica legittima a un governo, anche a quello israeliano: “Nessuno di mia conoscenza – afferma l’Autore – confonde l’antisemitismo con la legittima critica d’Israele. Gli ebrei credono che nessun uomo, sicuramente nessuna nazione, è al di sopra della critica. L’ebraismo è una delle culture del mondo più dotata di autocritica”[78]. La pretesa dell’antisemitismo è quella di denigrare gli ebrei per il fatto che esistono; gli antisemiti – paradossalmente –  si sentono delle vittime, poiché qualunque cosa sbagliata non è colpa loro ma degli ebrei. Il mondo, però,  secondo Rav Sacks può cambiare; infatti, le relazioni tra le religioni monoteistiche sono cambiate: “Oggi, ebrei, cristiani e musulmani devono rimanere uniti in difesa dell’umanità, della sacralità della vita, della libertà religiosa e dell’onore di Dio stesso”[79]. Per i nazisti gli ebrei erano subumani, per cui andavano eliminati, equiparabili agli insetti o alla cancrena. Secondo Hitler e il nazismo gli ebrei, per il loro presunto potere finanziario ed economico internazionale, costituivano una minaccia per l’umanità, asservendo gli Stati Uniti e l’Inghilterra. L’antisemitismo per  Jonathan Sacks non è l’espressione più rilevante di odio religioso, ma manifesta chiaramente i processi che lo generano: “E, tuttavia, è proprio mettendo l’antisemitismo sotto il microscopio che possiamo tracciare la sequenza con cui la paura diventa odio e poi violenza assassina che vince la razionalità diventando sia distruttiva che autodistruttiva”[80]. L’antisemitismo mette  in luce “le dinamiche psicologiche e sociali dell’odio”[81]. Ciò che accomuna l’antisemitismo dei nazisti con quello islamico è l’ossessione nei confronti degli ebrei che, invece, allora come oggi non hanno alcun potere e influenza, in quanto sono una irrilevante minoranza. Ciò che unisce il nuovo islamismo con i regimi secolari che cerca di sostituire è l’antisemitismo, con il suo carattere irrazionale, contraddittorio. Gli ebrei sono considerati la causa di tutti i mali per motivi opposti, perché sono ritenuti da alcuni capitalisti e da altri comunisti[82]. L’antisemitismo – a differenza della xenofobia che c’è sempre stata – è una realtà nuova, che risale al XIX secolo; precedentemente gli ebrei erano stati perseguitati per la religione (l’antigiudaismo), mentre questo nuovo fenomeno si fonda su motivi razziali. La causa dell’antisemitismo è il conflitto all’interno di una cultura: “Pertanto, ovunque troviate l’antisemitismo ossessivo, irrazionale, omicida, troverete una cultura così scissa e spaccata al suo interno che, se i suoi membri smettessero di uccidere gli ebrei, inizierebbero ad uccidersi l’un l’altro[83]. Quando la società è in crisi e si coalizza per l’uccisione del capro espiatorio non fa che aggravare il problema: “E quando la violenza finisce, rimane il problema perché, in primo luogo, il caprio espiatorio non è mai stato la causa del problema. E“Pertanto, ovunque troviate l’antisemitismo ossessivo, irrazionale, omicida, troverete una cultura così scissa e spaccata al suo interno che, se i suoi membri smettessero di uccidere gli ebrei, inizierebbero ad uccidersi l’un l’altro[84]. Quando la società è in crisi e si coalizza per l’uccisione del capro espiatorio non fa che aggravare il problema: “E quando la violenza finisce, rimane il problema perché, in primo luogo, il caprio espiatorio non è mai stato la causa del problema. E così le persone muoiono. La speranza è distrutta. L’odio reclama altre vittime sacrificali. E Dio piange”[85]. La soluzione proposta del rabbino londinese è quella di realizzare un itinerario di libertà come liberazione dall’odio, come rispetto dell’altro: “Se vuoi rispetto, devi portare rispetto. Se chiedi tolleranza, devi mostrare tolleranza. Se non vuoi essere offeso, allora devi assicurarti di non essere tu a offendere[86].

CONCLUSIONE – Il rabbino londinese conclude il suo saggio riaffermando la speranza della pace. Gli uomini devono riscoprire la loro paternità comune, sentirsi tutti fratelli, onorando Dio, vivendo nell’amore. Questo è il sogno di un’umanità rinnovata, perseguito dal lungimirante rabbino londinese: “Ora è giunto il tempo per gli ebrei, i cristiani e i musulmani di dire ciò che non hanno detto nel passato: Siamo tutti figli di Abramo. […] E per essere benedetti non è necessario che qualcuno sia maledetto. L’amore di Dio funziona in questo modo. Oggi Dio ci chiama, ebrei, cristiani e musulmani, a liberarci dall’odio e dalla sua predicazione, e a vivere, finalmente, come fratelli e sorelle, fedeli alla nostra fede e ad essere una benedizione per gli altri a prescindere dalla loro fede, rendendo onore al nome di Dio onorando la sua immagine, l’umanità”[87].

di Lucia Antinucci

 

 

 

 

 

[1] Il libro è diviso in tre parti e 15 capitoli:  Malafede (La malvagità altruistica, Violenza e identità, Dualismo, Il capro espiatorio, Rivalità fraterna), Fratelli (Fratellastri, La lotta con l’angelo, Il rovesciamento dei ruoli, Il rigetto del rifiuto), Il cuore aperto (Lo straniero, L’universalità della giustizia la particolarità dell’amore, Testi difficili, Rinunciare al potere, Liberarsi dall’odio, La volontà di potenza e la volontà di vita).

[2] Sono da ricordare: Traditional alternatives: Orthodoxy and the future of the Jewish people (1989); Tradition in an Untraditional Age (1990); Persistence of Faith (1991); Arguments for the Sake of Heaven (1991); Crisis and Covenant (1992); The Chief Rabbi’s Haggadah (2003); To Heal a Fractured World – The Ethics of Responsibility (2005); The Home We Build Together – Recreating Society (2007); The Koren Sacks Siddur (2009); The Koren Sacks Rosh Hashana Mahzor (Koren, 2011); The Koren Sacks Yom Kippur Mahzor (Koren, 2012); The Koren Sacks Pesach Mahzor (Koren, 2013); Covenant & Conversation: Leviticus, the Book of Holiness (Koren, 2015); Lessons in Leadership: A Weekly Reading of the Jewish Bible (Koren, 2015); Morality: Restoring the Common Good in Divided Times (Hodder & Stoughton, 2020).

[3] J. SACKS, Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa, Giuntina, Firenze 2017, 13.

[4] Ivi.

[5] Cf. ivi 267-268.

[6] Cf. ivi 13.

[7] Ivi 22.

[8] Ivi 24.

[9] Ivi 26.

[10] Ivi.

[11] Ivi 29.

[12] Ivi 31.

[13] Ivi 279.

[14] Ivi 280.

[15] Ivi 20.

[16] Ivi .

[17] Cf. ivi 21.

[18] Ivi 243.

[19] Ivi 245.

[20] Cf. ivi 245-247.

[21] Ivi 250.

[22] Ivi 222.

[23] Ivi 233.

[24] Ivi 15.

[25] Ivi 253.

[26] Ivi 255.

[27] Ivi 258.

[28] Ivi 261.

[29] Ivi 262

[30] Ivi 32.

[31] Ivi 36.

[32] Ivi 37.

[33] Cf. ivi 39.

[34] Ivi 43.

[35] Ivi 51.

[36] Ivi 55.

[37] Ivi 60.

[38] Ivi 64.

[39] Cf. ivi 65.

[40] Ivi.

[41] Cf. ivi 67-68.

[42] Ivi 69.

[43] Ivi 73.

[44] Cf. ivi 101.

[45] Ivi 112.

[46] Ivi 127.

[47] Cf. ivi 134-135.

[48] Cf. ivi 135-136.

[49] Ivi 137.

[50] Ivi 138.

[51] Ivi 145.

[52] Cf. ivi 146-147.

[53] Ivi 148.

[54] Ivi 150.

[55] Ivi 153.

[56] Cf. ivi .

[57] Cf. ivi 157.

[58] Ivi 159.

[59] Ivi 164.

[60] Cf. ivi 168.

[61] Cf. ivi 169.

[62] Ivi 170-171.

[63] Ivi 173.

[64] Ivi 175.

[65] Ivi 186.

[66] Ivi 181.

[67] Ivi 193.

[68] Ivi 201.

[69] Cf. ivi 205.

[70] Cf. ivi 206.

[71] Ivi 207.

[72] Ivi 208.

[73] Ivi 219.

[74] Ivi 214.

[75] Ivi 217.

[76] Ivi 273.

[77] Ivi 273-274.

[78] Ivi 274.

[79] Ivi 275.

[80] Ivi 34.

[81] Ivi 82.

[82] Cf. ivi 83-84.

[83] Ivi 89.

[84] Ivi 89.

[85] Ivi 99.

[86] Ivi 277.

[87] Ivi.

 

 

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