Matrimonio e famiglia nell’Ebraismo

Enrica Orvieto Richetti che è una rabbinessa (morenessa), moglie di un rabbino, Rav Elia E. Richetti, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Venezia. A lei si deve il saggio ‘Matrimonio e famiglia nell’ebraismo’, che costituisce un importante contributo, poiché  – afferma Rav Achille Simone Viterbo – colma un vuoto nella letteratura ebraico-italiana[1]. Bisogna tener presente l’evoluzione culturale che si è originata. Fra la metà dell’Ottocento e quella del Novecento gli ebrei, a causa dell’assimilazione, avevano “perso la pratica il vero senso delle mitzwòt, compre naturalmente quelle concernenti il matrimonio”[2]. La celebrazione del matrimonio ebraico era simile a quella cattolica. A partire dal 1958 gli ebrei italiani hanno recuperato la loro identità, a partire dalla pubblicazione del romanzo di Giorgio Bassani ‘Il giardino dei Finzi Contini’. La svolta è stata determinata dalla Shoà, la nascita dello Stato d’Israele e il Concilio ecumenico Vaticano II della Chiesa cattolica, per cui gli “ebrei e la cultura ebraica si ritrovano al centro dell’interesse generale”[3]. La svolta ha determinato un pullulare di pubblicazioni di argomento ebraico; riguardo al matrimonio soprattutto per l’aspetto giuridico e sociale. L’Autrice evidenzia come sia la sposa al centro e della vita familiare ebraica, sfatando il diffuso pregiudizio nei confronti dell’ebraismo secondo cui in esso prevalga la cultura patriarcale; invece “la celebrazione del matrimonio ebraico, con tutte le norme giuridiche e con l’infinita variazione degli usi, è forse il momento in cui nasce la famosa yidishe  mame ovvero la colonna portante di tutto l’ebraismo? Forse inconsciamente questo pensiero ha guidato la mano dell’autrice”[4].

IL FONDAMENTO BIBLICO –  ‘Maschio e femmina li creò’ –   Il racconto della creazione evidenzia che l’uomo ha potuto trovare un altro se stesso soltanto nella donna, anche lei ad immagine e somiglianza di Dio, ha potuto superare la sua solitudine (cf. Gn 2,18). “La donna, diversamente dall’uomo che fu creato con l’umile polvere della terra, nasce da una materia già vivente e più nobile”[5]. Il Talmud si chiede perché Dio abbia creato la donna dalla costola e la risposta è che è più vicina al cuore perché il suo ruolo è quello di diffondere l’amore e l’affetto. Il racconto idilliaco della Genesi cambia al cap. terzo quando l’uomo e la donna mangiano il frutto proibito. L’albero della conoscenza era  posto al centro del giardino e quindi era visto frequentemente dall’uomo e dalla donna, cioè costituiva per loro una continua tentazione: “Ma noi sappiamo che Dio è un Padre misericordioso, che non tenta inutilmente e senza scopo i Suoi figli: attraverso il frutto della conoscenza è come se avesse voluto dare all’uomo la possibilità di aprire gli occhi, di crescere, di non restare un eterno bambino bensì diventare un essere consapevole di dover agire, faticare e guadagnarsi il pane quotidiano”[6]. I dolori del parto e la fatica del lavoro non sono una punizione ma una sofferenza (Gn 3,16) che accompagna sempre la vita di ogni uomo e donna a cui si uniscono anche le gioie della vita familiare e i successi della vita lavorativa. Questo discorso biblico serve all’Autrice per introdurre la sua riflessione sul matrimonio nell’ebraismo. Secondo la Torà il comportamento reciproco dell’uomo e della donna deve essere fondato sul chèsed, cioè sulla pietà, misericordia, comprensione, il rispetto reciproco. Se la vita familiare sarà serena e armoniosa ci sarà l’aiuto reciproco; se c’è il disaccordo saranno l’uno contro l’altra. Solo la moglie può donare all’uomo le gioie e le benedizioni che rendono completa la sua vita.

IL FIDANZAMENTO – Il primo atto per la formazione del legame matrimoniale  con una donna è costituito dalla formulazione dei Tena’im (condizioni), un accordo dell’impegno delle parti alla lealtà, fedeltà e sacralità. Questa è una cerimonia ancora in vigore in alcune comunità ortodosse; in tale circostanza viene fissata la data del matrimonio e il luogo in cui si svolgerà. “Durante la cerimonia, alla presenza di un Rabbino, vengono tenuti da parte di parenti e amici, alcuni discorsi in cui vengono messi in luce i pregi di ognuno dei fidanzati: quasi una presentazione ufficiale perché i partecipanti possano conoscere meglio i futuri sposi”[7]. In alcune comunità ashkenazite c’è l’usanza di rompere un piatto, in segno di allegria, e di distribuire i pezzi fra le amiche nubili della sposa, augurando loro un prossimo matrimonio. Con la rottura del piatto si compie un atto definitivo, irreversibile, come devono essere gli accordi presi. Il matrimonio si basa su quanto espresso in Os 2,21-22: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”. L’uomo si deve fidanzare per l’eternità, con giustizia, sena calunniare la sua donna, con diritto, cioè senza violare le norme del diritto, con l’amore, andando aldilà del rigore della legge, con misericordia, cioè cercando di capire e soddisfare ciò di cui la donna necessita, prima ancora che lei ne abbia fatto richiesta, con fedeltà. Questi principi sono rivolti all’uomo perché sono considerati intrinseci alla donna, a cui è rivolto invece il settimo principio: “E conoscerai il Signore: se la donna saprà mantenere la sacralità della famiglia e l’osservanza dei precetti, e saprà dare ai figli un’educazione ebraica, allora conoscerà il Signore e trarrà da questa unione felicità e bene”[8]. Secondo l’ebraismo biblico l’espressione ‘prendere la propria donna’ va intesa in senso economico, nel senso che “l’uomo o suo padre doveva dare ai genitori della promessa sposa una certa cifra in denaro (o un suo controvalore) con lo scopo di acquistare come futura moglie la donna amata. Anche se questa gli appartiene, ancora non può averla presso di sé, in suo possesso, se non dopo il matrimonio”[9]. La dote poteva essere pagata in alternativa al denaro con il lavoro (ad esempio Giacobbe lavorò per il suocero Labano) oppure con gesta eroiche (Saul promise in sposa la figlia a colui che avrebbe sconfitto il gigante Golia). La dote costituisce un compenso per la rinuncia all’opera che le fanciulle compivano in casa o nei campi, un risarcimento del lavoro che la giovane donna non avrebbe più prestato nella sua famiglia d’origine, poiché nei tempi antichi l’individuo valeva soprattutto per la sua forza lavoro. Nella civiltà più avanzata la dote costituisce una garanzia per la donna contro l’arbitrio del marito. La convinzione comune dei Maestri d’Israele è che i matrimoni venissero stabiliti dal Signore ancora prima della nascita[10]. L’incontro tra il giovane e la giovane che diventeranno sposi è dovuto a cause fortuite, al destino secondo alcuni, oppure al disegno divino, nel senso che il Signore desidera riconsegnare all’uomo la costola che gli ha tolto. Diversi midrashim commentano questo pensiero[11]. Secondo i precetti biblici la donna deve essere consenziente al matrimonio, deve esprimere il suo parere (cf. Gn 24,1-58). Secondo il midrash quando il servo Eli’ezer condusse Rebecca ad Isacco, la tenda della madre Sara deceduta da tempo si riaccese come quando lei era in vita. Secondo l’insegnamento biblico (cf. Pv 8,18) e quello Talmudico, l’uomo deve onorare la propria moglie più di se stesso poiché per mezzo di lei riceve la benedizione divina per lui e la sua famiglia[12].

Riguardo alla cerimonia del fidanzamento vi sono vari usi e costumi (minhaghim) che vengono tramandati da una generazione all’altra, ispirati ai testi biblici di Rut, Cantico dei Cantici, alcuni Salmi, alcuni Proverbi di Salomone. Secondo un uso ancora diffuso presso comunità soprattutto ashkenazite, il sabato precedente alle nozze viene organizzato un banchetto abbondante e festoso. Lo sposo assiste alla lettura del Pentateuco; in segno di gioia vengono gettate caramelle e noci mentre si cantano dei salmi. Secondo altre usanze prima del matrimonio gli sposi si recano al cimitero e invitano, in senso allegorico, i propri cari scomparsi alle loro nozze[13]. “Presso gli ebrei di Roma il giovedì sera precedente alle nozze si una festa particolare in onore degli sposi, detta Mishmarà (veglia). In questa cerimonia vengono serviti, fra le altre cose, cibi e dolci tradizionali, vengono recitati vari brani della Bibbia e alla fine viene impartita dai genitori una commovente benedizione sacerdotale. Il venerdì sera, all’uscita dal tempio, i parenti si riuniscono, sia per celebrare la festa del sabato sia per onorare i futuri sposi e gioire con loro. Il sabato mattina le famiglie si recano di nuovo al tempio e lo sposo, suo padre e suo suocero assistono alla lettura della Torà, seguita da un rinfresco (Qiddùsh) in loro onore”[14]. Le cerimonie variano a livello locale[15] ma è sempre “vietato sposarsi di sabato o giorno festivo, perché lo sposo non può firmare e quindi consacrare la sposa. Il divieto riguarda anche i giorni di digiuno, in quanto si riferiscono a degli eventi luttuosi , come ad esempio l’assedio da parte dei babilonesi che si concluse con la distruzione del Tempio di Salomone e la deportazione del popolo ebraico. E’ proibito, inoltre, celebrare il matrimonio nei giorni del ‘Omer, periodo compreso tra Pésach (Pasqua) e Shavuòt (Pentecoste), che ricorda gravi sciagure accadute al popolo ebraico sotto il dominio romano”[16]. Il bagno rituale (miqwé, luogo di raccolta dell’acqua naturale) si svolge in una piccola piscina, costruita nel terreno, in cui si raccoglie l’acqua piovana, cioè l’acqua a caduta naturale, non tramite pompaggio. Si può svolgere anche nel mare, in un fiume o in un lago. Il rituale risale probabilmente al primo Tempio (circa 3000 anni fa). I bagni rituali erano situati all’esterno del Tempio, usati probabilmente per la purificazione dei pellegrini prima della salita al Tempio. L’immersione (tevilà) nell’acqua corrente ha il significato della purificazione spirituale dai peccati. La rinascita, simboleggiata dall’immersione e dall’emersione,  è l’inizio di una nuova vita, il “confine fra un passato che non è già più e un futuro che non è ancora, è il momento presente in cui si concretano tutte le potenzialità della nostra vita; quel momento non fa più parte del tempo, ma si unisce a Colui che è al di là del tempo, al di sopra della distesa formatasi fra le acque nel giorno della Creazione”[17].  Nel matrimonio ebraico ci deve essere l’amore nella sua completezza fisica tra l’uomo e la donna (ahavà) e l’amore universale, fraterno (achwà), poiché esso deve avere anche una dimensione spirituale . E’ compito della donna porre i fondamenti religiosi della propria casa ed assicurare la dimensione spirituale della relazione intima coniugale: “Immergendosi nelle acque del miqwé, la donna si prepara a riallacciare la relazione con il marito, in modo che sia le anime sia i corpi si sentano congiunti”[18]. Il miqwè rappresenta il grembo materno (come il bambino che esce dalle acque amniotiche per vedere la luce) e fa parte delle leggi della purità familiare (riguarda la donna nel periodo in cui è considerata niddà, non adatta, durante il ciclo mestruale e la settimana successiva e dopo il parto. Il miqwé rafforza il rapporto tra il marito e la moglie, li aiuta a sviluppare un’amicizia profonda, che va oltre la comunicazione fisica. Il periodo di separazione fisica (intima) tra marito e moglie aiuta a considerare il proprio coniuge come una persona da rispettare anche nella sua autonomia. Praticare il miqwé significa accettare la presenza di Dio nella vita matrimoniale: “La donna assume un ruolo di grandissima responsabilità morale e spirituale, in quanto a lei e solamente a lei è affidato il comandamento divino della purificazione, eseguito esattamente come si eseguiva ai tempi del Santuario. Quindi è la donna con la sua purificazione che fa rivivere il concetto di purità con lo stesso rigore che vigeva ai tempi del Santuario, a somiglianza del Sommo Sacerdote, che più di ogni altro custodiva questi principi”[19]. In diverse comunità ebraiche è diffusa l’usanza che la futura sposa, equiparata a una regina,  abbia un corteo, sia accompagnata dalla madre, dalle sorelle e dalle amiche più intime per il miqwé in un clima di allegria, con canti e balli e parole d’incoraggiamento. Lo sposo è equiparato al re. Secondo un’usanza orientale nella vasca del miqwè, mentre la giovane ne sta uscendo, vengono gettati petali di rosa o chicchi di grano come simbolo di regalità e di purificazione. In molte comunità, secondo l’insegnamento dei Maestri, dal momento in cui la donna si reca al miqwé fino alla cerimonia nuziale non deve incontrare lo sposo.

CELEBRAZIONE DEL MATRIMONIO – Prima di dare inizio alla cerimonia nuziale sul viso della sposa viene posto il velo, poi lo sposo si dirige verso di lei recitando la benedizione che fu data a Rebecca (cf. Gn 24,60). Il velo intende significare che la donna sposata assume una nuova dignità e l’uomo deve apprezzare soprattutto la sua personalità, la sua bellezza interiore non quella fisica. Presso gli ashkenaziti la sposa, prima del matrimonio, con il viso coperto dal velo, siede in una stanza piena di fiori, seduta su una poltrona che simboleggia il trono anche adornata di fiori, circondata dalla madre  e dalle amiche, in attesa dello sposo. “Prima di recarsi alla cerimonia nuziale, lo sposo entra nella stanza, accompagnato dai testimoni e dal padre, per sincerarsi che sia proprio lei la sposa designata. E’ un’usanza molto particolare, pervasa di buonumore e allegria, perché è dovere degli ospiti fare di tutto per rallegrare e far gioire lo sposo e la sposa”[20]. Il matrimonio secondo i Maestri è un’alleanza fra un uomo e una donna in modo volontario e definitivo (cf. Os 2,21-22). Il termine Qiddushìn (santificazione) è al plurale[21] perché il matrimonio comporta una duplice destinazione, quella della moglie verso il marito e del marito verso la moglie. I Maestri danno anche un’altra interpretazione: “la donna è destinata esclusivamente al futuro marito, come qualunque arredo o accessorio del Santuario era utilizzabile solo ed esclusivamente per scopi legati al Santuario stesso”[22]. Il matrimonio viene celebrato con un atto formale che impone alla coppia un legame serio e permanente. Qualora venisse a mancare la passione iniziale permangono gli impegni pratici che non possono essere disattesi. Il matrimonio è un’acquisizione che richiede un mutuo consenso. Durante la cerimonia nuziale l’uomo porge l’anello alla sposa pronunciando una speciale formula matrimoniale. La donna accetta l’anello acconsentendo in silenzio. Dalla cerimonia nuziale emerge il diverso ruolo della moglie e del marito. Un’altra usanza diffusa in parecchie comunità ebraiche e che gli sposi si preparano alla cerimonia nuziale con il digiuno, che è il simbolo della purificazione e della rinascita, come nel giorno di Kippur; la sinagoga è addobbata con paramenti bianchi e fiori bianchi, simboli di purezza, innocenza, richiamata anche dall’abito bianco della sposa. La cerimonia nuziale è caratterizzata da un clima gioioso (cf. Is 61,10;62,5; Sal 19,6) creato da canti, danze, doni, recita delle sette benedizioni e la festa dura sette giorni, duranti i quali lo sposo è esonerato dal lavoro e si deve dedicare esclusivamente alla sua sposa. Un’altra usanza molto diffusa è quella delle candele accese o dalle torce durante il pranzo di nozze o già durante il corteo nuziale (cf. Ger 25,10). C’è anche l’usanza di lanciare sugli sposi durante il banchetto cereali abbrustoliti, come auspicio di una prole numerosa per gli sposi, oppure di piantare in alcuni vasi, in onore degli sposi, chicchi d’orzo. In alcune comunità è la donna a regalare  il tallèt (manto di preghiera) al suo sposo, che ha otto frange per ogni lato, da cui il numero 32, lo stesso  numero della parola cuore (lev). Durante la cerimonia c’è un elogio particolare rivolto dallo sposo alla sposa (cf. Pv 31,11-27) perché l’occhio della donna è più vigile in famiglia del marito, soprattutto nel comprendere i problemi dei figli, consolidando la famiglia  – cuore della società – nei valori morali. Nel Talmud ci sono però ammonimenti rivolti anche al marito: “Ama tua moglie come te stesso e onorala più di te stesso”, “non farla piangere perché Dio conta le sue lacrime”[23]. Per l’ebraismo il matrimonio è un precetto della Torà e per essere valido e sacro deve rispettare alcune mitzwòt (precetti). Il matrimonio non è finalizzato solo alla procreazione (cf. Gn 1,28), ma alla stessa convivenza fra l’uomo e la donna (cf. Ct 8,6-7). Durante la cerimonia lo sposo indossa il tallèt (cf. Dt 22,12; 24,5). La cerimonia si svolge nella chuppà il baldacchino che anticamente era la tenda o la stanza dello sposo nella quale era introdotta la sposa. Ai tempi dei Maestri del Talmud era il padre della sposo a erigerla e nel Medio Evo divenne un panno steso su quattro pali, montato all’interno della sinagoga, ma più tardi, in molte comunità, venne eretto nel cortile del Tempio. Attualmente è di velluto rosso con ricami in oro e simboleggia la futura coabitazione degli sposi ed anche la protezione divina sulla coppia. “In molte comunità c’è la consuetudine che lo sposo venga condotto fin sotto la chuppà da due persone, generalmente le più anziane e sagge, una alla sua destra e l’altra alla sua sinistra. Anche per la sposa vi è questa usanza, dedotta dal verso: ‘Dio dopo aver creato la donna la condusse ad Adamo’ (Gn 2,22)”[24]. Presso alcune comunità askenazite la sposa viene portata nella chuppà sopra una poltrona regale; lo sposo la copre con il velo dicendo: “Possa tu, sorella nostra, divenire migliaia di volte diecimila” (Gn 24,60). Lo sposo, in genere, viene accompagnato alla chuppà da sua madre e la sposa da suo padre. Quando gli sposi, parenti ed amici entrano in sinagoga si canta l’Halleluyà (Lodate il Signore Sal 150,1-6). Sotto la chuppà oltre agli sposi, ai loro genitori, vi è ovviamente anche il Rabbino. Il Qiddushìn comprende gli Erusìn (impegni), atto preliminare, e i Nissuìn (assunzione) che sanciscono le nozze con l’obbligo di coabitazione. Un elemento importante della cerimonia è la benedizione del vino che viene ripetuta due volte, prima dei Qiddushìn e dei Nissuìn. Il vino biblicamente è sempre collegato alla gioia (cf. Sal 104,15), particolarmente dello Shabbàt, paragonato a una sposa: “Il matrimonio viene così paragonato allo Shabbàt, in quanto anch’esso è derivato da un patto. Come per lo Shabbàt, l’ebreo ha degli obblighi verso il matrimonio: osservarlo e celebrarlo. Non a caso, nella liturgia del venerdì sera, all’accoglimento del Sabato, si usa cantare l’inno ‘Lekhà dodì liqràt kalla, penè Shabbàt neqabbelà’ (Vieni amico mio, incontro alla sposa, accogliamo il Sabato)”[25]. Il Rabbino, quando gli sposi, genitori e testimoni hanno preso posto sotto la chuppà prende il calice e recita la benedizione, ringraziando Dio per aver creato il frutto della vite; dopo lo sposo e la sposa bevono dal calice. Secondo alcuni riti ebraici il vino deve essere solo sorseggiato ed è lo sposo a porgere il calice alla sposa; in alcune comunità sono le madri a porgere il calice ai rispettivi figli. La sposa, prima di entrare nel baldacchino compie tre giri o sette, secondo le consuetudini, attorno allo sposo, per simboleggiare che essa è il muro che protegge il marito dalle cattive influenze e dalla sua impulsività.

La seconda fase della consacrazione del matrimonio consiste nella presentazione dell’anello che deve essere di un metallo di valore, senza pietre preziose. L’anello indica la fiducia della sposa nello sposo e serve a convalidare l’atto di acquisizione. Anzitutto lo sposo mostra e consegna l’anello all’officiante, cioè al Rabbino, che a sua volta lo mostra ai testimoni affinché si possano accertare del valore, che occorre per la validità della consacrazione della sposa.”A questo punto l’officiante deve domandare allo sposo se l’anello gli appartiene e, avuto risposta affermativa, lo sposo prende l’anello con la mano destra e, prima di infilarlo nel dito indice della mano destra di lei, ripete la formula di santificazione: Ecco, tu sei consacrata a me con questo anello, secondo la legge di Mosé e di Israele[26]. L’anello viene infilato nel dito indice perché in base al Sal 19 ogni versetto è composto da due frasi per un totale di cinque parole che corrispondono alle cinque dita della mano. Contando le parole, iniziando dal pollice, il dito indice indica sempre il nome del Signore. Un’altra spiegazione è che il dito indice è in corrispondenza della vena che porta al cuore, simbolo dell’amore. Dopo la cerimonia dell’anello nuziale segue la lettura della ketubbà (contratto matrimoniale), ancora attualmente manoscritto a partire dal II secolo dell’e.v.) su pergamena in aramaico con raffinate miniature. Esso è scritto nel linguaggio talmudico e con citazioni bibliche, composizioni augurali di ispirazione biblica o talmudica e poemetti nuziali. Nella ketubbà sono formulati gli obblighi soprattutto di natura economica e patrimoniale che il marito assume nei confronti della moglie per tutta la durata del matrimonio, oltre all’impegno del mantenimento, del vestiario e del debito coniugale. Lo sposo offre in dote alla moglie 200 zuzìm, che corrispondono alle 50 monete d’argento stabilite dalla Torà (Es 22,16), 100 se la donna è vedova o divorziata.  Il marito deve anche aggiungere una somma a suo piacimento. La cifra non deve essere inferiore a quella stabilita dai Maestri, pena l’invalidità del matrimonio. “Il contratto matrimoniale attesta, inoltre, la volontà della donna di accettare la proposta matrimoniale. In una società patriarcale come quella antica, le donne avevano necessità di maggiore difesa contro la violazione dei diritti personali, rispetto all’uomo”[27]. In caso di divorzio o vedovanza la donna non perde la dote. La ketubbà viene letta a voce alta dal Rabbino in modo che tutti i presenti possano sentirla e correggerne gli eventuali errori. Lo sposo consegnando la ketubbà alla sposa dice: Eccoti il tuo contratto matrimoniale secondo la legge di Mosè e di Israele e la  sposa la consegna alla propria madre. Terminata questa parte della cerimonia viene ripreso il calice riempito di vino per recitare o cantare le sette benedizioni, possibilmente da sette persone diverse. Questo è il testo delle sette benedizioni: Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, Creatore del frutto della vite / Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, che tutto creasti per la tua gloria / Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo che creasti l’uomo / Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, che creasti l’uomo a Tua immagine e somiglianza e per lui stabilisti di procreare e moltiplicarsi. Benedetto Tu, o Signore, Creatore dell’uomo / Si rallegri e gioisca la donna un tempo sterile quando avrà raccolto i figli in seno alla famiglia. Benedetto Tu, o Signore, che rallegri Sion tramite i suoi figli / Dà allegria ai cari amici come si rallegrò la prima coppia nel Paradiso terrestre. Benedetto Tu, o Signore, che rallegri sposo e sposa / Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, che hai concesso agli sposi gioia e contentezza, giubilo e canto, amore, fratellanza, pace ed amicizia. Possano presto, o Signore, risuonare nelle città di Giudea e nei dintorni di Gerusalemme le voci giubilanti dello sposo e della sposa ed i cori gioiosi di chi alla loro gioia si accompagna. Benedetto Tu o Signore, che rallegri lo sposo con la sposa[28]. Al termine gli sposi bevono dal calice. Dopo questi riti il Rabbino e gli sposi, seguiti dai loro genitori, si avvicinano all’Aròn (armadio in cui sono custoditi i rotoli della Torà) e il cantore intona il Sal 18,3-6. I genitori pongono la mano destra sul capo degli sposi recitando la formula di benedizione[29]. Viene poi aperto l’Aròn e dinanzi ai rotoli della Torà il Rabbino copre con il tallét il capo degli sposi pronunciando la benedizione sacerdotale: “ Ti benedica il Signore e ti protegga. Faccia risplendere il Signore la Sua luce su di te e ti conceda grazia. Rivolga il Signore il Suo sguardo verso di te e ti dia pace” (Nm 6,24-26). Le frange del manto di preghiera ricordano i precetti dati da Dio al suo popolo e il tallèt è il simbolo della presenza divina. Il riferimento è al racconto della Torà secondo cui Adamo ed Eva, avendo trasgredito il comando di Dio si sentirono nudi, senza la sua protezione. Il Signore però, nella sua misericordia, offrì loro delle tuniche, affinché potessero ancora sentire simbolicamente la sua protezione. I nodi delle frange rappresentano numericamente il nome di Dio, impronunciabile e sconosciuto[30]. In alcune comunità italiane la cerimonia si svolge all’aperto e la chuppà è costituita da un tallèt, sostenuto da quattro persone, una per ogni angolo.

La conclusione della cerimonia nuziale comprende la rottura del calice, avvolgendolo in un panno o un tovagliolo, da cui gli sposi hanno bevuto il vino: “In alcuni luoghi, come nella sinagoga principale di Roma, è lo shammàsh (cerimoniere della sinagoga) che viene incaricato di rompere il bicchiere, alla fine della benedizione che gli sposi ricevono dal Rabbino insieme alla famiglia, davanti all’Aròn aperto”[31]. Secondo una interpretazione di questo gesto gli ebrei devono sempre fare memoria, soprattutto in momenti significativi, del dolore della deportazione e della distruzione del Santuario (Sal 137,5-6). Secondo un’altra interpretazione il gesto, compiuto dal Rabbino,  costituisce una critica all’eccessiva allegria e spensieratezza, per sottolineare l’esigenza dell’austerità e dell’autocontrollo anche nei momenti di gioia[32]. Nel percepire il rumore dell’infrangersi del bicchiere tutti i presenti gridano Mazàl tov, cioè ‘felicitazioni’,  ‘congratulazioni’ con la “speranza che questa unione sia felice nel tempo e coronata da un amore che non diminuirà di intensità negli anni futuri”[33]. In Italia seguono poi le formalità d’uso, cioè le firme sugli atti civili e l’uscita degli sposi dalla sinagoga è accompagnata da canti, musiche tradizionali e tanta allegria con il lancio del riso. Gli sposi ricevono poi i complimenti dai presenti. Il completamento del matrimonio, fondamentale ed essenziale, è la sua consumazione simbolica Yichùd (unione), in una stanza privata in cui entrano gli sposi “alla presenza di testimoni, che attendono fuori della stanza. La coppia, una volta nella stanza, consuma un breve pasto e si trattiene per dieci minuti, in modo da rendere subito effettivo il matrimonio. Infine viene consumato un pranzo alla presenza di tutti gli invitati e viene celebrata una festa con canti e balli”[34].

di Lucia Antinucci

 

[1] Cf. ENRICA ORVIETO RICHETTI, La  sposa e lo sposo. Il matrimonio nella tradizione ebraica, Giuntina, Firenze 2011, 7. Prefazione di Rav Achille Simone Viterbo.

[2] Ivi.

[3] Ivi 8.

[4] Ivi 9.

[5] Ivi 13.

[6] Ivi 15.

[7] Ivi 19.

[8] Ivi 21.

[9] Ivi 22.

[10] Cf. Talmud babilonese, Sotà 2a.

[11] Cf. ORVIETO RICHETTI, La  sposa e lo sposo,24-27.

[12] Cf. ivi 29-30.

[13] Cf. ivi 31.

[14] Ivi 32.

[15] Cf. ivi 32-34.

[16] Ivi 34.

[17] Ivi 38-39.

[18] Ivi 39.

[19] Ivi 41.

[20] Ivi 44.

[21] Cf. Talmud babilonese, Sotà 17a; Midrash Tehilliìm 59,2.

[22] ORVIETO RICHETTI, La  sposa e lo sposo, 46.

[23] Cf. ivi 52.

[24] Ivi 54.

[25] Ivi 57.

[26] Ivi 59.

[27] Ivi 62.

[28] Cf. ivi  66-68.

[29] Cf. ivi 69.

[30] Le lettere ebraiche come per altre culture hanno un valore numerico.

[31] ORVIETO RICHETTI, La  sposa e lo sposo, 74.

[32] Cf. ivi 73-78.

[33] Ivi 79.

[34] Ivi 81.

 

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